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Una luce che danza

Come “una luce che danza” mi è apparso stamattina, guardando dalla finestra, il patriarca, l’albero del Ginkgo biloba di fronte alla parrocchia, nel giardino dei vicini; un albero le cui origini risalgono al Permiano e al Mesozoico di 250 milioni di anni fa. Per l’imponenza e la maestosità delle sue alte guglie e per gli ampli e frondosi palchi, al tempo del lockdown, senza chiesa, senza messa, senza gente, l’ho ribattezzato la “mia cattedrale”, e da quel momento abbiamo incominciato a pregare insieme.

Più splendente di ogni albero di Natale, stamattina il Ginkgo era solenne; aveva messo il suo vestito più bello e si era rivestito di luce. Una luce danzante nel vento, come a ricordarmi la liturgia della domenica Gaudete che, nei paramenti liturgici, aveva mutato colore, dall’austero viola al rosa aurorale come a dirmi con i suoi gialli e dorati colori: “rallegrati. Il Signore è vicino!”

Gaudens gaudebo in Domino (esultante gioirò) cantava l’antifona di introito alla solennità dell’Immacolata, la scorsa settimana: una veste di grazia, di salvezza un proto magnificat per Maria già concepito nella profezia di Isaia su Gerusalemme (61, 10-11).

“Biloba” il suo secondo nome: due lobi, due cuori – mi sono detto – ricordando le sue foglie spartite e lucenti, aperte a ventaglio come un abbraccio di cura: così lo descrissi in un racconto di tanti anni fa dal titolo L’albero “icho” e il Segreto del tempo.

Le sue foglie dondolanti nel vento sembrano lanterne pronte per essere raccolte. E proprio nella notte del solstizio d’inverno, il vento che spira forte dal cuore delle Alpi, vento di tramontana, stacca quelle lanterne accese, esitanti e tremolanti, ma dal cuore ardente, e le sospinge nel buio in alto e verso ogni altrove.

Di un giallo lucente esse custodiscono per noi la promessa del venire della luce; nell’oscurità indicano la via verso l’aurora; come le lanterne giapponesi esse portano i desideri e le preghiere dalla terra verso il cielo. Al pari del loto, il ginkgo è simbolo di illuminazione e nuova nascita: è l’albero del sole. Ai miei occhi è l’illuminato come una Menorah, candelabro dalle sette braccia che veglia sulla promessa e su tutto ciò che sta per venire alla luce.

Praga come Gerusalemme, città “Vestita di Luce”

“Vestita di luce” è agli occhi del poeta Jaroslav Seifert (1901-1986) la città dalle cento torri: Praga; così titola la sua raccolta poetica (Poesie 1925-1967, Einaudi Torino 1986). Dedicata alla memoria di un altro scrittore e critico letterario ceco Šalda, František Xaver (1867-1937) i suoi versi sono ispirati da un passo dell’Apocalisse, quello della “donna vestita di sole”.

Cantata da cento voci diverse, Praga – luogo e spazio fatto di meandri, chiazze d’oscurità e di luce – è insieme “la città magica” e “la città tragica”, «crocevia di tutte le strade del labirinto del mondo. Per il poeta, Praga è “la donna più amata”; ed è ben vero che nella sua poesia scorrono in sequenza tutti i luoghi di questa città, quelli noti e sconosciuti, in ombra o in luce, ma per Seifert Praga è soprattutto “donna e non luogo”.

Sergio Corduas, (1943-2022) docente di lingua e letteratura ceca a Ca’ Foscari. nell’introduzione scrive: «Nessuno ha cantato Praga come Seifert. Ma questa città d’amore è “magica” in lui non tanto per le alchimie e per quel corpo medieval-barocco che è Malá Strana (il più piccolo e antico quartiere della città), quanto perché proprio là, nella città capitale dei labirinti, possono ancora e sempre germogliare e fiori e amori.

Ed è “tragica” non tanto per le guerre, le invasioni e i destini personali di praghesi, quanto perché proprio là, dove facile è piangere le sventure, l’abisso della morte coincide col cielo della vita. Cade Mozart, cade il poeta, cadiamo là noi tutti, non già nel basso, ma nell’alto, “dentro l’abisso che sta sopra di noi”.

Praga allora, magica e tragica, è in realtà dovunque, perché la personalità straordinaria di una città, mai può né deve scardinare da sola un fatto che è antropologico: l’amore per la vita e la paura della morte, che sono, ovunque, la stessa cosa veduta in momenti diversi. Praga magica e Praga tragica in Seifert finiscono col coincidere. E questa è la soluzione del conflitto vita/morte quando il tema è Praga», (ivi, xv).

Camminavo un giorno sul far della sera,
Praga era più bella di Roma,
Io temevo di non potermi destare
dal sogno e di non scorgere mai più
le stelle, nascoste di giorno nelle ascelle
sotto le ali dai doccioni
che si stagliano là montando la guardia
sotto le gronde dell’antica cattedrale.

Praga si vestì di luce;
le corone smeraldine sfavillarono
Aspettando che in ogni pantano
entrasse la luna affinché le rane
gracidassero sopra il verderame.
Férmati, férmati, dolce mio istante,
vorrei sonare come i ricordi e il riso
poi vestirmi di straccetti piumati
scomparire fra i rami.

Il verde tiene stretto il Castello
la finestra è così nascosta dai fiori
che l’uccello non trova quasi appoggio
nel tuffo ai grigi giardini praghesi.
Togli il timore, scaccia la paura,
e che la veste bianca e la veletta
non rotolino sopra le rovine.
lo so che proteggerà la città
la Tua intercessione, il Tuo sorriso,
un’unica stilla sulle Tue ciglia.
(ivi, 53; 59; 93)

Gerusalemme, un’altra città vestita di luce perché molto amata, e non solo dal profeta Isaia il cui nome significa “Yhwh salva”. Ricorda il salmista: «il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe. Di te si dicono cose stupende, città di Dio» (Sal 87, 2).

Già al cap. 52 la città viene risvegliata e invitata a deporre gli abiti della schiavitù e a rivestire quelli della libertà: «Svégliati, svégliati, rivèstiti della tua magnificenza, Sion; indossa le vesti più splendide… Scuotiti la polvere, àlzati, Gerusalemme schiava! Si sciolgano dal collo i legami, schiava figlia di Sion!».

Passare poi dal cap. 59 al 60 del corpus isaiano è come passare dal buio alla luce, dall’avvilimento alla gioia. Le viene detto infatti: «Ecco, non è troppo corta la mano del Signore per salvare; né troppo duro è il suo orecchio per udire. Ma le vostre iniquità hanno scavato un solco fra voi e il vostro Dio…”.

E poi «Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te». Come a dire: “Diventa luce, sii luce: illuminata illumina”. Non è da meno il profeta Baruc, colui che porta il nome di benedizione, quando si rivolge alla città dicendo: «Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre» (5,1-3).

Una donna vestita di sole

«Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto» (12,1-2). L’immagine si presenta ad una interpretazione a più livelli.

In questa donna è da riconoscersi dapprima la “Figlia di Sion”, il popolo di Dio e le sue 12 tribù, che genera il Messia e i credenti. Nell’interpretazione patristica, liturgica e artistica essa designa soprattutto, Maria la madre di Gesù; ma non senza un riferimento alla comunità cristiana, alla chiesa che ha in Maria il suo modello esemplare in quanto, al pari di quest’ultima, è la chiesa, incinta della Parola, che porta ora nella storia il vangelo, come una gestazione; ed è nelle doglie e nel travaglio del parto per farla nascere nel cuore del mondo con l’annuncio e la testimonianza.

Scrive Malachia, il cui nome significa ‘mio messaggero’: «Ecco, sta per venire il giorno rovente come un forno. “Per voi, che avete a cuore e nel cuore il mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (3,20). Così alle parole dell’angelo nunziante: «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo», fanno eco quelle della liturgia negli inni delle lodi mattutine: “Il sole di giustizia, il Verbo del Dio vivente”, irradia la sua luce rivestendo i credenti ed ogni cosa del suo splendore; e ancora: «luce e salvezza del mondo,/ in te crediamo./ Cibo e bevanda di vita,/ balsamo, Veste, dimora,/ forza, rifugio, conforto,/ in te speriamo./ Illumina col tuo Spirito/ l’oscura notte del male,/ orienta il nostro cammino/ incontro al Padre».

Secondo il Corano, Maria giovanissima ha scelto la via della luce, perché si incamminò verso Oriente/sharqiyyan (Corano 19,16). Là dove sorge il sole: «Rammenta Maria, quando si allontanò dalla famiglia in un luogo a oriente», e andandogli incontro in questo cammino Maria divenne la donna vestita di sole: trasparente alla luce, senza ombra alcuna, si lascia attraversare interamente dalla luce dell’intimità di Dio.

Il nome Maria richiama termini ebraici come “mara”= ‘afflitta, addolorata’ e “Myriam”= ‘veggente o signora’; ma anche “mar” e “yâm”= ‘stilla, goccia di mare’, da cui “stella maris”. Alcuni interpretano il nome Miriam, la sorella di Mosè, rifacendosi alla radice egizia “mry” che significa “colui/colei che è ben amata”. Chi è amato ed ama è come chi opera la verità dice Gesù nel vangelo di Giovanni, costui «va verso la luce perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3, 21).

Scrive David Maria Turoldo:

E la tua notte
non era notte: non era
finestra aperta su alcun mistero,
e nemmeno presagio di quiete.
Eri Tu il mistero, la radiosa Notte
che racchiudeva il Giorno,
che avrebbe rivestito di carne la Luce
e dato un suono al Silenzio.
Tu non guardavi mai fuori.
Di fuori per te la pietra
era pietra, l’albero albero
e la voce dell’usignolo era
come acqua chiara.
Ma dentro Tu eri
una riviera spalancata sull’oceano
(Preghiera alla Vergine in O sensi miei…, Rizzoli, Milano 1997, 169).

Secondo la tradizione giudaica riguardante il libro della Genesi, i progenitori avevano una veste di luce prima di essere rivestiti da Dio nella loro nudità con abiti di pelle. Vestiti di luce erano trasparenti l’un l’altro, così da trasfigurare l’intera creazione.

Questa trasparenza era la loro gioia. Le Odi di Salomone, una raccolta di testi battesimali di origine giudeo-cristiana, riportano la corrispondenza tra la veste battesimale e la luce. Vi si legge: «Il Signore mi rinnovò nella sua veste e mi avvolse nella sua luce… Mi sono tolta l’oscurità e ho rivestito la luce». Viene in mente così la fonte di questa luce nel racconto del Tabor della trasfigurazione: «E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17, 2).

Rivestiti dei colori della luce

La luce che si rifrange in arcobaleno e si ricompone poi nel prisma, bianchissima è quella della vita buona, si riveste degli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, della sua carità che tutti i colori, come una veste bianca, ricompone.

Dice infatti Paolo: «Vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato… Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, – colori della vita buona – sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro.

Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!» (Col 3, 9-10; 12-17).

La veste bianca

Una delle sette beatitudini nell’Apocalisse dice: «Beato chi veglia e custodisce le sue vesti» (16,15). E Giovanni vede che, sia il Cristo come i credenti in lui sono rivestiti di vesti bianche, a testimonianza del legame che li unisce della corrispondenza profonda, dell’intima trasfigurazione e comunione di vita che li accomuna.

Papa Montini, “poeta della modernità”, cantore della gioia cristiana quando era ancora arcivescovo di Milano, nella lettera per la Quaresima del 1962, intitolata Pensiamo al Concilio, chiese alla sua chiesa di spogliarsi da ogni forma di opacità, di paludamenti falsamente evangelici, impedimenti all’incontro, al dialogo con la modernità perché gli uomini e le donne di oggi potessero volgere di nuovo lo sguardo e desiderassero ancora rivestire la veste bianca battesimale, l’abito nuziale della parabola evangelica:

«Per questo [la Chiesa] cercherà di farsi sorella e madre degli uomini; cercherà di essere povera, semplice, umile, amabile nel suo linguaggio e nel suo costume. Per questo cercherà di farsi comprendere, e di dare agli uomini di oggi facoltà di ascoltarla e di parlarle con facile ed usato linguaggio.

Per questo ripeterà al mondo le sue sapienti parole di dignità umana, di lealtà, di libertà, d’amore, di serietà morale, di coraggio e di sacrificio. Per questo, come si diceva, vedrà di “aggiornarsi” spogliandosi, se occorre, di qualche vecchio mantello regale rimasto sulle sue spalle sovrane, per rivestirsi di più semplici forme reclamate dal gusto moderno» (Discorsi e scritti sul Concilio (1959-1963), Quaderni dell’Istituto Paolo VI, 3, Brescia, Roma, 1983, 102-103).

Veste bianca per me è il Signore,
veste di salvezza
lavata nel fiume della morte.
Veste bianca.
Veste di gioia per me è il Signore,
veste delle nozze
tessuta con filo di amore.
Mi vesto di lui.

Manto di luce per me è il Signore,
manto della grazia
senza macchia né ombra di male.
Manto di luce.
Manto di pace per me è il Signore,
manto di giustizia
tessuto di misericordia.
Mi vesto di lui.

Una corona per me è il Signore,
corona della vita
forgiata dal fuoco dello Spirito.
Una corona.
Corona di gloria per me è il Signore,
mia corona regale
di figlio amato da Dio.
Mi vesto di lui.
(A.M. Galliano, Veste bianca, in Questa non è notte. Poeti per dire, cantare, pregare, Marietti, Genova 1989, 24)

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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