Presto di mattina /
Don Alessandro Denti che ci guarda con gli occhi di Pasqua
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Presto di mattina. Don Alessandro Denti che ci guarda con gli occhi di Pasqua
Da sette anni ormai, caro don Alessandro ci guardi con gli occhi della Pasqua. Sette è il numero dei giorni della creazione quando Dio si riposò; nel settimo giorno del creato saranno in pienezza in ogni vivente; sette sono i doni dello Spirito che mai cesseranno di spirare vita perché non ci rassegniamo alla morte. Sette nell’Apocalisse le lettere alle sette chiese dell’Asia e a tutte le chiese anche oggi perché siano comunità cristiane in uscita tra la gente:
«Ecco, ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere. Per quanto tu abbia poca forza, hai però custodito la mia parola e non hai rinnegato il mio nome» (Ap 3,8).
Ci guarda con gli occhi di Pasqua
Ora la terra è imporporata di sangue,
una sposa vestita a nozze.
il sole si è levato sulla casa di tutti
da quando egli ha finito di piangere
e Gesù, ancora più santo,
mai finito di morire per noi.
Ora nessuna nascita è più senza musica,
nessuna tomba senza lucerna
da quando egli ha detto:
«Io lo vedrò, io stesso: questi
occhi lo vedranno e non altri;
ultimo si ergerà sulla polvere».
Allora rinverdirà ogni carne umiliata
e gli andremo incontro con rami nuovi:
una selva sola, la terra, di mani.
(D. M. Turoldo, O sensi miei … Rizzoli, Milano, 1997, 249).
Così dopo sette anni ritrovo immutate e vive quelle parole a ridestare ciò che solo resta: amore; parole già seminate nel libro Don Alessandro Denti. Tutto passa, solo l’amore resta e che tornano a rispuntare.
«Signore, tu vedi quanto sono stanco/ di risuscitare, di morire e di vivere./ Prendi tutto, ma di questa rosa rossa/ possa sentire ancora la freschezza» (Anna Achmatova, In memoria di Bulgakov, 1940).
In questi intensi versi vedo di nuovo illuminarsi il volto, la vita, la storia di don Alessandro: il suo pieno abbandono all’amore. Cos’è infatti amore se non ciò che non va perduto: «le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo» (Ct 8,7), come la freschezza di una rosa rossa che resta. Lasciarsi guidare dall’amore, così egli scriveva: «Lasciare a Dio la guida della propria vita. Tutto passa, solo l’amore resta».
Così pure il suo ministero può di nuovo essere compreso nel cono di luce di questo testo poetico di Clemente Rebora: «“Amor dammi l’Amore!”: un mormorio/ Di gente in pena. L’Ostia, in alto, casta/ Attrae i cuori: “Sì, vivere è Cristo”» (Le poesie, Milano 1988, 271).
Spiritualità samaritana
La spiritualità è discendere tra gente in pena e insieme a loro lasciarsi attrarre il cuore dal Risorto dai morti: il Vivente. Uomo spirituale è colui che sprofonda nella realtà umana per trasformarla come lievito nella pasta, questo è stato il morire e il vivere di Cristo e dei suoi: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Così don Alessandro delinea la figura di una spiritualità viva degna dell’umano: «“Hacerse cargo, cargar con y, encargarse de la realidad” (“Farsi carico della realtà, caricarsi della realtà, patire nella realtà, incaricarsi della realtà”) è la frase di P. Ignacio Ellacuria che forse più rimane impressa.
Victor Codina, in un articolo del 1990, così riprende: “farsi carico della realtà, ossia conoscerla realmente e viverla, soffrirla, per poterla così scoprire intellettualmente; incaricarsi della realtà, cioè assumere il compito di trasformarla, mettendo l’intelligenza a servizio della prassi; caricarsi della realtà accettando la responsabilità etica della funzione intellettuale, e la durezza di questo rapporto” […]
Il primo passo mi sembra sia proprio questo: non stancarsi mai di riflettere, di pensare, compiendo questo viaggio intorno e dentro l’uomo, con l’intenzione di conoscerlo, amarlo, servirlo, senza rinunciare a quella luce che viene dal Vangelo, in un dialogo sincero e appassionato con tutti coloro che si sentono cercatori di vita, rispondendo in particolare a quella chiamata concreta ed esigente, che nasce dove la dignità della persona umana viene negata» (A. Denti, Farsi carico della realtà, in Bollettino di Rinascita Cristiana di Ferrara, Novembre 2009).
Cercatore e trovatore
Don Alessandro “cercatore di vita”, perché la parola di Dio si è incarnata nella vita, essa come il regno di Dio è nascosta come un tesoro nel campo della realtà, in essa ci è dato incontrarli; c’è pure un vangelo nascosto in noi e negli altri, una buona notizia che ci fa cercatori di Dio tra gli uomini: «Scoprire il tesoro nascosto: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova …” (Mt 13,44)
Ebbene, questo tesoro è in noi. “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te … è molto vicino a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratica” (Dt 30, 11-14).
Decidere della propria vita, significa cercare e trovare questo tesoro nascosto, il nostro desiderio profondo. Per ogni piccola decisione noi ci avviciniamo, con l’intuizione di un rabdomante, alla nostra fonte segreta, al meglio che Dio ha messo in noi» (A. Denti, Rinascita, riscopri il tuo tesoro, in Bollettino di Rinascita Cristiana di Ferrara”, Agosto 2011).
Sì, dire spiritualità è come dire “vangelo nascosto”, ora quello di don Alessandro ha certamente la connotazione della spiritualità del “Servo sofferente” descritta da Isaia nei suoi Carmi e portata a compimento dallo stesso Gesù nel suo mistero pasquale di passione, morte e risurrezione.
Così don Alessandro la descrive: «Spiritualità del servo sofferente. Nel discorso pronunciato da Oscar Romero all’Università di Lovanio, prima di essere insignito della laurea honoris causa, troviamo questo passaggio: “la speranza che predichiamo ai poveri, la predichiamo per restituire loro dignità e per incoraggiarli ad essere essi stessi gli autori del loro destino…”.
In altre parole, i poveri, o meglio, gli impoveriti, coloro che vengono privati senza motivo della loro dignità, sono coloro che ci educano e ci dicono cos’è la polis, la città, e come dovrebbe essere la Chiesa e il mondo. Allora, dove si realizzano luoghi in cui si ricomincia a vivere, dove i poveri ricominciano a liberarsi, dove gli uomini sono capaci di sedersi attorno ad una tavola per condividere ciò che sono e ciò che hanno, lì è presente la vita e il Dio della vita.
Nello stile e nelle modalità che il “Servo Sofferente di JHWH” ci lascia, nasce la consapevolezza che le situazioni in cui la dignità della persona è negata, sono situazioni che vanno tolte, attraverso uno “stile di compagnia” e di “consolazione”, che diventano il segno più autentico di un rinnovamento umano e sociale, oggi più che mai necessario… Quale la disponibilità ad una reale condivisione con i più poveri?» (A. Denti, Farsi carico della realtà, ivi).
Beatitudini del pastore
Alla spiritualità del “Servo sofferente del Signore” corrisponde nella dinamica del mistero pasquale di sofferenza e di glorificazione, quella delle Beatitudini. Sono le Beatitudini l’altra faccia del vangelo nascosto che don Alessandro ha manifestato con la sua vita battesimale e sacerdotale.
Così mi piace ora dispiegarla con le parole di Papa Francesco, che ha fatto dono ai vescovi italiani del testo delle Beatitudini riscrivendole in rapporto alla loro vita di pastori:
«Beato il Pastore che fa della povertà e della condivisione il suo stile di vita, perché con la sua testimonianza sta costruendo il regno dei cieli.
Beato il Pastore che non teme di rigare il suo volto con le lacrime, affinché in esse possano specchiarsi i dolori della gente, le fatiche dei presbiteri, trovando nell’abbraccio con chi soffre la consolazione di Dio.
Beato il Pastore che considera il suo ministero un servizio e non un potere, facendo della mitezza la sua forza, dando a tutti diritto di cittadinanza nel proprio cuore, per abitare la terra promessa ai miti.
Beato il Pastore che non si chiude nei palazzi del governo, che non diventa un burocrate attento più alle statistiche che ai volti, alle procedure che alle storie, cercando di lottare al fianco dell’uomo per il sogno di giustizia di Dio perché il Signore, incontrato nel silenzio della preghiera quotidiana, sarà il suo nutrimento.
Beato il Pastore che ha cuore per la miseria del mondo, che non teme di sporcarsi le mani con il fango dell’animo umano per trovarvi l’oro di Dio, che non si scandalizza del peccato e della fragilità altrui perché consapevole della propria miseria, perché lo sguardo del Crocifisso Risorto sarà per lui sigillo di infinito perdono.
Beato il Pastore che allontana la doppiezza del cuore, che evita ogni dinamica ambigua, che sogna il bene anche in mezzo al male, perché sarà capace di gioire del volto di Dio, scovandone il riflesso in ogni pozzanghera della città degli uomini.
Beato il Pastore che opera la pace, che accompagna i cammini di riconciliazione, che semina nel cuore il germe della comunione, che accompagna una società divisa sul sentiero della riconciliazione, che prende per mano ogni uomo e ogni donna di buona volontà per costruire fraternità: Dio lo riconoscerà come suo figlio.
Beato il Pastore che per il Vangelo non teme di andare controcorrente, rendendo la sua faccia “dura” come quella del Cristo diretto a Gerusalemme, senza lasciarsi frenare dalle incomprensioni e dagli ostacoli perché sa che il Regno di Dio avanza nella contraddizione del mondo».
Manda, Signore, ancora profeti,
uomini certi di Dio,
uomini dal cuore in fiamme.
E tu a parlare dai loro roveti
sulle macerie delle nostre parole,
dentro il deserto dei templi:
a dire ai poveri
di sperare ancora.
Che siano appena tua voce,
voce di Dio dentro la folgore,
voce di Dio che schianta la pietra
(D. M. Turoldo, O sensi miei…, 570).
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