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Presto di mattina. Dignità infinita

Una domanda infinita

L’arte del domandare è quella che principia, che apre ogni ora come se fosse la prima ora, quando non si sapeva ancora niente e che cosa era questo e quello, di fronte a tutta quell’immensità dischiusa agli occhi. Lo stupore è il suo maestro, le relazioni i luoghi che va scoprendo, domanda dopo domanda.

Così essa principia dal mattino, e quando giunge la sera neppure allora si quieta. Si allunga invece dentro la notte e interroga e chiede dentro le sue ombre e con inquietudine il domandare non si ferma. Come a guardar le stelle, dopo averne vista una, subito un’altra appare accanto ed un’altra ancora. Perché non si esaurisce mai il sapere in che modo vivere e la conoscenza esatta di sé, dell’altro e degli altri mondi: «Bisognerebbe / esistere molto a lungo / decisamente più a lungo / del mondo stesso».

Fare domande costituisce non solo la trama ma pure il punto sorgivo dell’arte poetica di Wisława Szymborska (1923-2012) scrittrice polacca premio Nobel per la letteratura nel 1996. La sua cifra stilistica è proprio quella di aderire alla realtà interrogandola e interrogandosi.

La complessità del reale lo si affronta partendo da un dettaglio, appunto da una domanda e poi un’altra domanda ancora, come un passo, un altro passo, avventurandosi dentro la molteplicità delle relazioni e degli avvenimenti, passando dalla semplicità della domanda alla complessità delle risposte per avviare un colloquio, un dialogo infiniti.

Nella capacità di interrogare ogni giorno il mondo con stupore, nell’accettare la vita malgrado la sua tenebra anche quando assale l’inquieta malinconia: qui sta la sua poesia, la sua arte, perché lo stupore non divide il reale, ma vede nel dettaglio l’interezza che nasconde, scorge nel frammento il tutto di cui è parte, penetra oltre l’opacità e lo spessore imperscrutabile che ricopre la vita, oscurando ciò che la rende degna di essere vissuta.

Anche così in Szymborska lo stupore resta come l’ombra di un chiaroscuro, come il volo di tre piume, l’insieme di tre piccole parole immerse nell’abisso perché “non tutto muore” (Orazio).

Ora mattutina

L’ora mattutina sempre domanda e chiede attenzione per ripristinare il contatto fra il quotidiano e l’assoluto, per fare corpo con la poesia tra il riso leggero e il cuore pesante, tra il dettaglio e l’infinito.

In corpo e poesia.
Da un lato la gola, il riso dall’altro,
un riso leggero, di già soffocato.
Qui il cuore pesante, là non omnis moriar,
tre piccole parole, soltanto, tre piume d’un volo.
L’abisso non ci divide.
L’abisso circonda

Sto ancora dormendo,
ma nel frattempo accadono fatti.
le tenebre sfumano nel grigio,
la stanza emerge dallo spazio indistinto,
vi cercano appoggio ombre pallide, vacillanti.
Albeggiano le distanze tra gli oggetti,
i primi bagliori cinguettano
sulla bottiglia, sulla maniglia.
Ma attenti, attenti, attenti,
ci sono molti indizi che stanno tornando i colori
e anche la minima cosa riacquista il proprio,
insieme a una sfumatura d’ombra.
Ciò mi stupisce troppo di rado, ma dovrebbe.
Di solito mi sveglio nel ruolo di testimone in ritardo,
quando il miracolo è già avvenuto,
il giorno già costituito
e il mattinale magistralmente mutato in mattutino.
(La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, Milano 2009, 191; 338-339).

Scrive Pietro Marchesani (1942-2011), curatore dell’opera poetica della Szymborska e per il quale tradurre un autore significava “starci assieme”: «La sua riflessione sul senso dell’esistere − espressa sempre in forma di domanda, o meglio, di catene di domande − è caratterizzata da una “semplicità complessa”, dalla capacità di interrogarsi con formulazioni chiare, che non necessitano del sostegno delle “grandi costruzioni”.

Una riflessione che muove dalla quotidianità, dai dettagli come ha dichiarato in una recente intervista la Szymborska: “Le persone si istupidiscono all’ingrosso, e rinsaviscono al dettaglio. Dunque amiamo e sosteniamo i casi al dettaglio”.

Poesia feriale” – come è stata definita – la sua, senza concessioni al letterario o al sublime, aliena da ogni retorica: “Uno sbaraccamento dell’antropocentrismo e dei suoi miti, uno sbaraccamento del Sublime” (Valeria Rossella), e a cui si accompagna una notevole dose d’arguzia e ironia (che è una delle categorie centrali della sua poetica).

La attrae solo ciò che è singolo, particolare… In essa prevale l’accettazione affettuosa e stupita della vita, a partire dalle forme più semplici – anch’esse miracolose – del suo manifestarsi. L’accezione più comune della parola “stupore” è quella di “sensazione di profonda o intensa meraviglia, di sorpresa o anche di smarrimento di fronte a fatti, circostanze, oggetti straordinari, insoliti o inaspettati, e fenomeni ed eventi inspiegabili ed eccezionali”» (ivi, 10-11).

“Come vivere?”

Sarà allora e sempre la domanda sottesa, latente, in ogni domanda anche per l’inizio tragico del secondo millennio.

Doveva essere migliore degli altri il nostro ventesimo secolo.
Non farà più in tempo a dimostrarlo,
ha gli anni contati,
il passo malfermo,
il fiato corto.
Sono ormai successe troppe cose
che non dovevano succedere,
e quel che doveva arrivare
non è arrivato.
Ci si doveva avviare verso la primavera
e la felicità, tra l’altro.
La paura doveva abbandonare i monti e le valli.
La verità doveva raggiungere la meta
prima della menzogna.
Alcune sciagure
non dovevano più accadere,
ad esempio la guerra
e la fame, e così via.
Doveva essere rispettata
L’inermità degli inermi,
la fiducia e via dicendo.
Chi voleva gioire del mondo
si trova di fronte a un’impresa
impossibile.
La stupidità non è ridicola.
La saggezza non è allegra.
La speranza
non è più quella giovane ragazza
et cetera, purtroppo.
Dio doveva finalmente credere nell’uomo
buono e forte,
ma il buono e il forte
restano due esseri distinti.
Come vivere? – mi ha scritto qualcuno
a cui io intendevo fare
la stessa domanda.
Da capo, e allo stesso modo di sempre,
come si è visto sopra,
non ci sono domande più pressanti
delle domande ingenue.
(ivi, 257-258)

Una dignità infinita

L’orizzonte di una dignità infinita è allora quello che si dischiude dalla domanda infinita della Szymborska. Dignità infinita della vita, perché è l’unica cosa che fa battere il cuore, per cui vale la pena vivere, perché è il valore più grande quello «dell’irripetibile singolarità dell’essere umano, anche se impastato di contraddizioni, oscurità e conflitti “In noi ignoto e selve / di pelle appena coperti, / interni d’inferno, / violenta anatomia”» (ivi, 10).

Domanda uscita da uno stupore infinito, da occhi ben aperti, rivolti non altrove che sulla vita, giungendo a vedere in ciò che è scontato l’insolito, nel banale l’enigmatico, nel quotidiano il prodigioso, una via d’uscita: un’altra domanda, una domanda ancora.

La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore
(ivi, 168).

Una dignità infinita appare anche in quella oscurata o negata, che non è più; affiora nel momento in cui la poetica della Szymborska fa trasparire nell’io il noi, un sentire gli altri come se stessi, l’estraneo fratello, che è la compassione.

Piccoli annunci:
CHIUNQUE sappia dove sia finita
la compassione (immaginazione del cuore)
– si faccia avanti! Si faccia avanti!
Lo canti a voce spiegata
e danzi come un folle
gioendo sotto l’esile betulla,
sempre pronta al pianto.
Insegno il silenzio
in tutte le lingue
mediante l’osservazione
del cielo stellato,
delle mandibole del Sinanthropus,
del salto della cavalletta,
delle unghie del neonato,
del plancton,
d’un fiocco di neve.
Ripristino l’amore.
Si cerca persona qualificata
per piangere
i vecchi che muoiono
negli ospizi. Si prega
di candidarsi senza certificati
e offerte scritte
(ivi, 55-56).

Dignitatis humanae

È l’incipit di una dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa che ha determinato una svolta nella riflessione ecclesiale e nella dottrina sociale della chiesa. Nello stesso anno, 1965, la riflessione venne sviluppata nella costituzione Gaudium et Spes (nn. 12-22; 26) che parla dell’«eminente dignità della persona umana, superiore a tutte le cose e i cui diritti e doveri sono universali e inviolabili».

Ora il tema è stato riproposto nel contesto e nei mutamenti attuali in un documento della Congregazione della fede del 25 marzo 2024 dal titolo: Dignitatis infinita.

La redazione del documento era iniziata il 15 marzo 2019 subito dopo la Dichiarazione sulla Fratellanza umana di Abu Dhabi, del 4 febbraio 2019, tra papa Francesco e Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb; come a dire che la dignità umana si radica nella fratellanza umana e che tuttavia da essa prende corpo e si sviluppa:

«Riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere fra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità» (Fratelli tutti n. 8). Così dichiarando l’impegno a favore della fratellanza umana e adottando la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo, ci si è impegnati pure per il riconoscimento, il rispetto e la tutela della dignità umana.

Ci impegnano in nome di chi? È questa la domanda

«In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace.

In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera.

In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante.

In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna.

In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre.

In nome della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali.

In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini.

In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa.

In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede.

In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni angolo della terra»
(Dichiarazione di Abu Dhabi).

Dignitatis infinita

Leggiamo nel documento (n. 6): «Fin dagli inizi del suo pontificato, Papa Francesco ha invitato la Chiesa a “confessare un Padre che ama infinitamente ciascun essere umano” ed a “scoprire che con ciò stesso gli conferisce una dignità infinita”, sottolineando con forza che tale immensa dignità rappresenta un dato originario da riconoscere con lealtà e da accogliere con gratitudine.

Proprio su tale riconoscimento ed accoglienza è possibile fondare una nuova coesistenza fra gli esseri umani, che declini la socialità in un orizzonte di autentica fraternità: unicamente “riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere fra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità”.

Secondo Papa Francesco “questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo”, ma è pure una convinzione alla quale la ragione umana può arrivare attraverso la riflessione e il dialogo, dato che “se bisogna rispettare in ogni situazione la dignità degli altri, è perché noi non inventiamo o supponiamo tale dignità, ma perché c’è effettivamente in essi un valore superiore rispetto alle cose materiali e alle circostanze, che esige siano trattati in un altro modo.

Che ogni essere umano possiede una dignità inalienabile è una verità corrispondente alla natura umana al di là di qualsiasi cambiamento culturale”. In verità, conclude Papa Francesco, “l’essere umano possiede la medesima dignità inviolabile in qualunque epoca storica e nessuno può sentirsi autorizzato dalle circostanze a negare questa convinzione o a non agire di conseguenza. In tal orizzonte, la sua enciclica Fratelli tutti costituisce già una sorta di Magna Charta dei compiti odierni volti a salvaguardare e promuovere la dignità umana».

“Solo ciò che è umano può essere davvero straniero”

Così interpreto questa intrigante, vivace provocazione del penultimo versetto di questa poesia Salmo della Szymborska dicendo: «Mai senza l’altro» (Michel de Certeau). Una domanda infinita non fa caso ai confini, come le nuvole e le sabbie dei deserti, come la polvere che non si divide o le foglie di ligustro che passano da una riva all’altra dei fiumi.

Il domandare rende di fatto l’uomo straniero, fuori da sé, questionante, questuante, umano appunto, passatore di confini, oltre le frontiere e le identità raggiunte; errante, permeabile all’ignoto; umanità straniera a se stessa per restare fedele a se stessa, alla domanda inesausta e ancora grandemente inevasa di fraternità.

Oh, come sono permeabili le frontiere umane!
Quante nuvole vi scorrono sopra impunemente,
quanta sabbia del deserto passa da un paese all’altro,
quanti ciottoli di montagna rotolano su terre altrui
con provocanti saltelli!
Devo menzionare qui uno a uno gli uccelli
che trasvolano,
o che si posano sulla sbarra abbassata?
Foss’anche un passero – la sua coda è già all’estero,
benché il becco sia ancora in patria. E per giunta,
quanto si agita!
Tra gli innumerevoli insetti mi limiterò alla formica,
che tra la scarpa sinistra e la destra del doganiere
non si sente tenuta a rispondere alle domande
«Da dove?» e «Dove?».
Oh, afferrare con un solo sguardo tutta questa confusione,
su tutti i continenti!
Non è forse il ligustro che dalla sponda opposta
contrabbanda attraverso il fiume la sua
centomillesima foglia?
E chi se non la piovra, con le lunghe braccia sfrontate,
viola i sacri limiti delle acque territoriali?
Come si può parlare d’un qualche ordine,
se non è nemmeno possibile scostare le stelle
e sapere per chi brilla ciascuna?
E poi questo riprovevole diffondersi della nebbia!
E la polvere che si posa su tutta la steppa,
come se non fosse affatto divisa a metà!
E il risuonare delle voci sulle servizievoli onde dell’aria:
quei pigolii seducenti e gorgoglii allusivi!
Solo ciò che è umano può essere davvero straniero.
Il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento.
(ivi, 205-206).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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