“Desiderio desideravi”
«Quando fu l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui. E disse: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione”.»
(Lc 22,15)
Gli voli un desiderio, [Un desiderio che gli voli v.]
Quando toccato avrà la terra
Incarnerà la sofferenza…
Un vagante raggio ebbe la luce,
Tenue filo dell’anima
Del mio bacio donato
Solo dal desiderio.
Ma dall’esilio ci libererà
L’ostinato mio amore
(Giuseppe Ungaretti)
Il desiderio di Gesù, ci dice Luca, è la nuova Pasqua; attorno a quella mensa si manifesta tutto il suo desiderio di noi. Desiderare è fissare attentamente le stelle: “de-siderare”. Attratto dai suoi, dai loro volti, attratto da noi, come colui che è attratto da ciò che gli manca di più e fissa lo sguardo alle stelle (sidera).
Nella sua Pasqua si dispiegano tutti i suoi desideri come le stelle nel firmamento, e questo firmamento l’evangelista Giovanni lo indica nella preghiera di Gesù al Padre prima dell’arresto, che precedette la passione e la morte. Quanti desideri in quella preghiera! Pregare è ardentemente desiderare l’altro, desiderio di donarsi e unirsi a lui.
“Desiderio desideravi”; questo il desiderio desiderante di Gesù prima di essere sottratto ai suoi. Egli alzò gli occhi alle stelle, proteso al Padre nostro che è nei cieli. E ancora una volta il suo desiderio siamo noi:
«Quindi alzati gli occhi al cielo disse: “Non prego solo per questi, (i Dodici) ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 20-21).
Un gemito desiderante, passione di amore è quello di Gesù, il suo desiderio è azione che ci fa liberi e amanti, come narra nei Canti ultimi David Maria Turoldo [Qui]:
Care ti siano queste parole
che la mia bocca ora ti canta, Signore:
Gemito sei dell’intera natura
il desiderio che ci fa verticali:
passione di esistere di tutte le vite.
Il desiderio è l’anelito, il turbine avvolgente creativo dello spirito. Il desiderio, come lo spirito, è legame sostanziale, ciò che tiene l’esistenza alla totalità dell’essere, la corporeità al suo soffio attirandola verso l’oltre.
Così ancora Giuseppe Ungaretti [Qui]:
Nel molle giro di un sorriso
ci sentiamo legare da un turbine
di germogli di desiderio
Ci vendemmia il sole
Chiudiamo gli occhi
per vedere nuotare in un lago
infinite promesse
Ci rinveniamo a marcare la terra
con questo corpo
che ora troppo ci pesa
(G. Ungaretti, Fase d’Oriente, 1916)
La cena della nuova Pasqua risveglia in Gesù nella sosta conviviale, come il tramonto nel poeta, spazi di un desiderio nomade d’amore:
Il carnato del cielo
sveglia oasi
al nomade d’amore
(G. Ungaretti, Tramonto, 1916)
Una liturgia fatta desiderio
Una liturgia fatta desiderio dunque, perché luogo del venire tra i suoi del Maestro, nomade d’amore, fattosi tutto desiderio. Una liturgia plasmata dal suo anelito, luogo dell’accadere e ripresentarsi dello stupore del mistero pasquale, dello scambio conviviale, irruzione dello spirito desiderante di Gesù, che ci raccoglie e ci riunisce di nuovo, fa di molti un corpo solo, come di sementi un pane, di chicchi d’uva un vino: liturgia, culmine e fonte di un ostinato, incessante e risorgente amore.
Così mi è venuto da pensare e da interrogarmi quale fosse il posto del desiderio nelle celebrazioni delle nostre comunità. Il discernimento mi è giunto da papa Francesco:
«L’assemblea ha diritto di poter sentire in quei gesti e in quelle parole il desiderio che il Signore ha, oggi come nell’ultima Cena, di continuare a mangiare la Pasqua con noi. Il Risorto è, dunque, il protagonista, non lo sono di sicuro le nostre immaturità (coloro che celebrano) che cercano, assumendo un ruolo e un atteggiamento, una presentabilità che non possono avere.
Il presbitero stesso è sopraffatto da questo desiderio di comunione che il Signore ha verso ciascuno: è come se fosse posto in mezzo tra il cuore ardente d’amore di Gesù e il cuore di ogni fedele, l’oggetto del suo amore.
Presiedere l’Eucaristia è stare immersi nella fornace dell’amore di Dio. Quando ci viene dato di comprendere, o anche solo di intuire, questa realtà, non abbiamo di certo più bisogno di un direttorio che ci imponga un comportamento adeguato. Se di questo abbiamo bisogno è per la durezza del nostro cuore» (DD 57).
DD sta per Desiderio desideravi, la lettera di papa Francesco, del 29 giugno 2022, alla chiesa sulla formazione liturgica del popolo di Dio. Condizione di questa formazione è l’umiltà dei piccoli, perché è questa condizione che sola può aprire allo stupore, accendendo il desiderio di lasciarsi attrare e coinvolgere nell’azione liturgica da cui principia e attinge sempre di nuovo la vita cristiana.
È necessaria così una celebrazione che evangelizzi; altrimenti perde di autenticità come «non è autentico un annuncio che non porta all’incontro con il Risorto nella celebrazione: entrambi, poi, senza la testimonianza della carità, sono come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita» (DD 37).
Con questa lettera papa Francesco continua la riflessione sull’attuazione della riforma liturgica del concilio. Già nel 2021 aveva scritto la lettera: Traditionis Custodes sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, con cui il papa ha voluto ristabilire pur nella varietà delle lingue una celebrazione e “una sola e identica preghiera che potesse esprimere l’unità della chiesa”.
Il motu proprio ha determinato una forte ripresa del disegno conciliare che superasse il lungo periodo di esitazione che aveva segnato la chiesa circa l’uso della liturgia romana anteriore al concilio.
Egli ha inteso così riprendere l’intenzione profonda della riforma liturgica volta a sottolineare il carattere “comune” dell’azione liturgica, anzitutto quella eucaristica, perché uno è Cristo ed una la chiesa.
Questa lettera invece non è un’istruzione pratica o un direttorio, come la precedente. Semmai una meditazione che aiuta a comprendere la bellezza della celebrazione liturgica.
Scrive papa Francesco: «la liturgia non ha nulla a che vedere con il moralismo ascetico. L’incontro con Dio non è il frutto di una ricerca interiore individuale del Cristo, ma è evento donato, che appartiene e coinvolge tutta la totalità dei fedeli riuniti in Lui. La comunità ecclesiale entra nel Cenacolo per la forza di attrazione del desiderio di Gesù che vuole mangiare la Pasqua con noi» (DD 20).
Con questa lettera papa Francesco desidera pure recuperare il valore simbolico, relazionale della celebrazione, non solo tra le persone, ma tenendo unite spiritualità e corporeità di coloro che partecipano all’assemblea domenicale.
La formazione liturgica deve così sviluppare nelle persone la capacità di comprendere di nuovo il linguaggio simbolico dei segni liturgici, perché quello simbolico è lo stesso linguaggio con cui si esprime e si relaziona la nostra vita.
Se il linguaggio liturgico diventa didascalico, rubricistico non sarà mai capace di comunicare il mistero di vita che racchiude. Senza simboli, la liturgia muore. È la liturgia che fa i simboli, ma sono pure i simboli che danno forma alla liturgia. Allo stesso modo noi facciamo la liturgia, ma è la liturgia che forma noi. Nondimeno formarsi alla liturgia – dice papa Francesco – è funzionale all’essere formati dalla liturgia.
Citando poi Romano Guardini [Qui], egli ricorda che si deve diventare di nuovo capaci di comprendere e vivere i simboli. E ciò accadrà, nella misura di un discepolato, se si saprà sottoporsi ad una disciplina, quella del simbolo, che è maestro di apertura, di raccordo e raccoglimento; colui che unisce gli opposti, ci fa comprendere il reale come un vivente concreto:
«Non si tratta di dover seguire un galateo liturgico: si tratta piuttosto di una “disciplina” – nel senso usato da Guardini – che, se osservata con autenticità, ci forma: sono gesti e parole che mettono ordine dentro il nostro mondo interiore facendoci vivere sentimenti, atteggiamenti, comportamenti.
Non sono l’enunciazione di un ideale al quale cercare di ispirarci, ma sono un’azione che coinvolge il corpo nella sua totalità, vale a dire nel suo essere unità di anima e di corpo.
Tra i gesti rituali che appartengono a tutta l’assemblea occupa un posto di assoluta importanza il silenzio. Il silenzio liturgico è il simbolo della presenza e dell’azione dello Spirito Santo che anima tutta l’azione celebrativa, per questo motivo spesso costituisce il culmine di una sequenza rituale. Proprio perché simbolo dello Spirito ha la forza di esprimere la sua multiforme azione.
Così il silenzio muove al pentimento e al desiderio di conversione; suscita l’ascolto della Parola e la preghiera; dispone all’adorazione del Corpo e del Sangue di Cristo; suggerisce a ciascuno, nell’intimità della comunione, ciò che lo Spirito vuole operare nella vita per conformarci al Pane spezzato. Per questo siamo chiamati a compiere con estrema cura il gesto simbolico del silenzio: in esso lo Spirito ci dà forma». (DD 51-52)
La liturgia: complexa realitas
Realtà complessa come la vita è la liturgia. È detto infatti: vivere la liturgia, non l’evento, ma dentro l’evento, non dal di fuori, spettatori, ma partecipi della complessità delle sue polarità contrapposte, per cui il reale è il vivere concreto nella sua complessità.
Potremmo affermare lo stesso del desiderio e del simbolo. Entrambi dicono, come la liturgia, la qualità della relazione, l’esserci dentro la realtà, prendere parte all’agire che unisce gli opposti senza mescolarli o respingerli, ma tenendo distinte e arricchendo le loro differenze.
Occorre vivere la liturgia come alla scuola interattiva, esperienziale del simbolo; così impareremo a collegare le parti, gli ambiti della complessità del reale, tenendo insieme il dentro e il fuori della realtà: oggettività e soggettività, pensiero ed emozione, immanenza e trascendenza, spirituale e corporale, dolore e gioia, desiderio e gratitudine, pensiero e azione, il già e il non ancora, l’in-avanti della storia e la sua trascendenza, il Cristo già venuto eppure atteso: il presente.
Complexa realitas è termine che compare nell’ecclesiologia conciliare al n. 8 della Lumen gentium là dove si vuol esprimere la realtà della chiesa, assemblea visibile e comunità spirituale.
Dice la complessità della relazione tra ciò che in essa è visibile e ciò che in essa è mistero, come il volto e il corpo in relazione alla propria interiorità, formano un’unità complessa, uno spazio e cantiere di comunione.
In quanto comunità di fede, di speranza e di carità, la chiesa è organismo visibile, sociale, ma è pure segno, sacramento, volto che rivela l’invisibile dono dello Spirito che l’abita. Questi due aspetti «non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola ‘complessa realtà’».
Complessità dunque che deriva alla liturgia dal mistero stesso della chiesa; la liturgia è il cuore generativo, culmine e fonte di questa complessità di relazione e di azione comunionale, che tende alla comunione piena:
«Nella liturgia non è il singolo che agisce e che prega. E neppure il complesso di una molteplicità di persone… Il soggetto, l’io, della liturgia è piuttosto l’unione della comunità credente come tale, è qualcosa che trascende la semplice somma dei singoli credenti, è insomma la Chiesa» (R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Morcelliana, Brescia 1996, 17-18).
L’esortazione finale di papa Francesco: «Abbandoniamo le polemiche per ascoltare insieme che cosa lo Spirito dice alla Chiesa, custodiamo la comunione, continuiamo a stupirci per la bellezza della Liturgia. Ci è stata donata la Pasqua, lasciamoci custodire dal desiderio che il Signore continua ad avere di poterla mangiare con noi» (DD 65)
Domani, e le domeniche che seguiranno, non lasciamo appassire i fiori e le palme e gli ulivi dell’ultima cena; pur senza vita essi custodiscono ancora memoria, anelito del Suo desiderio. Osiamo ancora dire “dove vai?”, “vengo con te”, ma non “Addio”.
Il desiderio del suo cuore rimane con noi. “Andiamo”, allora, affrettiamoci anzi, come desideranti desiderati, pure noi verso quel «Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar» che ci cammina sempre d’innanzi.
La fine dell’ultima cena
Triste l’anima mia sino alla morte.
Eppure ardentemente
l’anima mia desiderava
questo momento
e ancora un poco
stare con voi
finché venga la sera
e la grande ombra.
Tu non temere,
piccolo gregge.
Il tuo pastore pascolo perenne
si fa per te:
qui le limpide acque
e la frescura
e la voce che chiama nella sera
ed il quieto calore dell’ovile.
Ecco che vi ho lasciato
il sangue mio
e la mia carne.
E il cuore che vi ama,
il cuore mio
non lo porto con me.
Ma nessuno mi chiede
“dove vai”,
nessuno che mi dica
“vengo con te”
o solamente “addio”.
Ah come
scende la sera.
È l’ora. Andiamo.
E forse per le strade
stanno ancora
appassiti
i fiori che per me furono colti
e le palme e gli ulivi.
(Elena Bono [Qui], Alzati Orfeo, Milano I958, 116-117)
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