Oriente
«È compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore e poi scegliere quello con tutte le forze» (Martin Buber [Qui]).
Cammino d’uomo, cammino di vangelo, sono stati una cosa sola per “Oriente” – il nome con cui il padre registrò all’anagrafe di Ferrara il figlio – a noi più familiare come Alberto Dioli, del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita: 28 settembre 1922 a Corlo.
Prete ferrarese, parroco a Mizzana e al Barco e poi, dal 1969, missionario fidei donum a Kamituga nella regione del Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, fino alla sua morte avvenuta a Ferrara, dopo una grave malattia, malaria celebrale, il 27 novembre 1989.
In quel nome, “Oriente”, riecheggia una vocazione a due mani, una tesa verso l’uomo e l’altra verso il vangelo, ma un unico cuore a servizio della promozione umana e dell’evangelizzazione.
Un nome misterioso che nascondeva due significati: “Oriens ex alto”, un sole che sorge dall’alto si legge in Luca 1, 78: nel testo greco anatolè che significa sorgendo all’orizzonte.
Ezechiele poi ricorda il venire della gloria di Dio da Oriente: «La gloria del Signore entrò nel tempio per la porta che guarda a Oriente» (43, 4). E l’evangelista Matteo dirà di Gesù, Figlio dell’uomo – venuto non per farsi servire, ma per servire e dare la vita – che egli «come la folgore viene da Oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo» (24, 27).
La luce del vangelo come quella del sole che sorge ad Oriente: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is. 9,1).
Ma nell’immaginario simbolico ed esistenziale di don Dioli si poteva intravvedere anche un altro sole. La famiglia già lo immaginava avviato a diventare bracciante, al lavoro nei campi o, tutt’al più, muratore o barbiere, come aveva ipotizzato il padre, ma quello di bracciante era un contesto di lotte sociali e rivendicazioni di giustizia.
Un’epoca in cui si nutriva molta speranza nel “sole dell’avvenire”, nel riscatto degli operai e dei braccianti grazie al movimento dell’Internazionale socialista.
Don Dioli non era certo insensibile a queste istanze (come si legge nel libro di Carlo Pagnoni, Don Alberto Dioli da Ferrara a Kamituga, Corbo, Ferrara, 1998 che costituisce una miniera preziosa di documentazione e analisi del conteso religioso italiano e ferrarese di quel periodo, non meno che della situazione internazionale nella Repubblica Dominicana del Congo, ex Zaire).
Tuttavia scelse di farsene carico diventando sacerdote il 6 aprile del 1946 nella parrocchia della B.V. del Perpetuo Soccorso; quando espresse, la sera prima dell’ordinazione, scrivendo alla madre e al padre – quasi un programma pastorale – la sua opzione preferenziale per i poveri:
«Domattina è la mia e vostra festa più bella … voglio … ringraziarvi per il molto bene che mi avete fatto … Ormai sono di Dio, la mia famiglia è costituita da migliaia di anime per le quali dovrò lavorare e consumare la mia vita … sono nato e vissuto povero… io e voi saremo sempre poveri… II Signore mi ha voluto sacerdote, voi lo sapete bene! Sia dunque benedetto e serviamo fedelmente, io come sacerdote voi come cristiani fedeli! Suona mezzanotte proverò a dormire» (Pagnoni, ivi, 65).
Con queste premesse, non sorprende la scelta di don Dioli per la missione, animato dall’intento di portare il vangelo della pace nel cuore dell’umanità, alla ricerca inesausta di una giustizia più grande, quella del Regno:
«Se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel Regno dei cieli» (Mt 5,20). Coloro infatti che avranno fame e sete di giustizia saranno saziati, dice la quarta beatitudine; e l’ultima ricorda che ai perseguitati per la giustizia – come ai poveri della prima beatitudine – appartiene (di essi è) il Regno dei cieli (Mt 5,3; 6;10).
Un prete libero e fedele
Un prete libero e fedele. Così il titolo di un libro di testimonianze curato dall’Associazione Amici di Kamituga, Ferrara 1999. Nell’introduzione dal titolo Seguendo Cristo libero e fedele, ricordavo: «Nel gesto di aprire un libro e di voltarne le pagine si celano e si svelano simbolicamente le nostre intenzioni ed energie più profonde. Il desiderio stesso di rinascere, di aprire e far entrare la vita.
Non solo gesto dell’aggrapparsi come per sopravvivere in un naufragio, oppure sguardo che cerca con affanno l’uscita di sicurezza come per sfuggire al fumo invasivo, ma gesto di “più vita” di “nuova vita”…
Una esperienza di “centrazione” ed insieme “orientamento” fuori di sé; evento non solo di memoria e di attesa, ma di presenza e di incontro, di viaggi, di partenze e di ritorni. E tuttavia non appena Ulisse, molto di più Abramo».
“Don Dioli fu come il sale nel cibo” scrive Tobie Kyamalinga, laico, collaboratore per vent’anni di don Alberto e leggendo la sua testimonianza è come aprire un altro libro che ne contiene molte altre.
Nel libro della missione si impara e si scrive lo stile di una libertà non ripiegata su se stessa, ma vissuta in relazione, che fa strada con gli altri restando loro fedeli con quella fedeltà irrevocabile che si attinge dal vangelo: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13, 1).
Cammino di libertà dapprima.
Scrive padre Zampese: “La sua passione pastorale, la sua determinazione e il suo sogno di eliminare tutti gli steccati di esclusione, e lottando contro una storia del passato che aveva messo anche in lui i germi dell’integralismo religioso allineato dietro ad una bandiera, l’ha portato a scegliere la libertà di coscienza capace di annunciare solo una Chiesa profezia nel mondo“.
Nodi e reti di fedeltà poi.
«Don Alberto è legato alla vita, alla gente, a Dio. Forse per questo sapeva essere semplice e forte, creativo. Sapeva intuire i percorsi della storia ma restava uno di noi, senza pretese, come un fratello che vede lontano e dà sicurezza». Così la testimonianza di padre Silvio Turazzi.
Radicalità ed equilibrio
Padre Silvio Turazzi, ancora giovane seminarista, si stupiva della novità di vita che veniva dall’insegnamento di don Dioli, costituita dalla radicalità del suo equilibro.
«Ci presentò un giorno il tema della povertà …. liberi da tutto, ma soprattutto un modo di essere tra la gente. La sua parola era viva, ma lui ne era l’immagine. È questa la novità! Radicalità e equilibrio trasparivano dai suoi occhi, nel suo modo di presentarsi.
Dio era la sua forza, la vera radice del suo coraggio e del suo equilibrio interiore, nei rapporti con il mondo operaio o con i professionisti della città. Non si può dimenticare, c’era alle sue spalle il pane amaro di una famiglia onesta che aveva conosciuto le atrocità e gli stenti della guerra, c’era una conoscenza e un’esperienza non comune nella difficile vita sociale, politica ed ecclesiale che ne seguì.
Parrocchia, scuola, Acli, gruppi di Rinascita, Azione Cattolica, lo vedevano “presente”, povero e forte insieme… Me lo rivedo accanto – continua padre Silvio anche lui missionario in Congo – colgo nei suoi occhi i problemi degli operai (l’indignazione per quel salario equivalente ad un uovo al giorno!), i rapporti difficili con la direzione della miniera, con cui non accettò mai compromessi e vantaggi, le difficoltà con le autorità locali legate al sopruso e alla corruzione.
Mi guarda e sorridendo mi insegna ad ascoltare, lungo la strada del villaggio, il rumore ritmato degli scalpelli … sono i minatori che tentano l’estrazione dell’oro con le pietre raccolte nei filoni abbandonati… Il Centro per gli handicappati lo ha sognato e curato. Penso fosse per lui l’espressione più significativa della fedeltà della comunità per i più deboli» (Prete libero e fedele, 91-92).
Una vita che parla
«La sua parola era viva, ma lui ne era l’immagine», ricordava sopra padre Silvio, come a dire: “una vita che parla”.
Così sono rimasto sorpreso dalla attualità dello stile missionario di don Dioli, che corrisponde perfettamente a quello che papa Francesco delinea come compito missionario di tutti i cristiani, chiamati ad essere per il battesimo missionari nella chiesa di oggi.
Siamo come tempo pastorale nell’ottobre missionario. Il tema nel messaggio per la giornata missionaria mondiale 2022 sembra pensato su misura di don Albero titola: “Di me sarete testimoni” (At 1,8).
«Vite che parlano»; che parlano di Cristo risorto e vivo, speranza per tutti gli uomini e le donne del mondo, a fianco e testimoni di quel Cristo, direbbe Pascal, che continua ad essere in agonia nell’umanità ancora sopraffatta da tante ingiustizie e violenze.
Affascinato da questa storia infinita che non conosce confini di cultura, di religione, di razze, di popoli, don Dioli così scrive ai suoi parrocchiani per dire le ragioni della sua partenza: «Si sceglie la missione per “condividere da poveri con i poveri, come Gesù”.
«Perché ho scelto le missioni?» Me lo hanno domandato in tanti in questi giorni: «Perché se ne va? Perché ci lascia?» È una domanda legittima alla quale posso dare soltanto risposte evasive, provvisorie, che non possono persuadere i miei interlocutori.
Dico prima di tutto, che non vado per farmi un’esperienza nuova, per conoscere una chiesa diversa, costumi e tradizioni lontanissime da noi. Nessun uomo può essere oggetto di sperimentazione: un missionario non è mai un esploratore, un giornalista, un raccoglitore di notizie. Neppure è un inviato incaricato dai ricchi di distribuire doni ai poveri.
Sarebbe troppo grave che egli accettasse di farsi così complice della oppressione e dell’ingiustizia, di un nuovo colonialismo odioso, benefico e ladro insieme. Il missionario va per «condividere», da povero con i poveri. Come Gesù che ha posto la sua tenda fra noi, uomo tra gli uomini, vittima con i deboli, perseguitato, percosso, disprezzato, abbandonato, malfattore crocifisso.
Questa storia meravigliosa mi ha sempre persuaso più di ogni altro argomento. So di poter fare molto poco, di non poter rimediare a niente, che non avrò mezzi o energie per questo. Ma una cosa mi rimane possibile, condividere. E questo mi dà pace e mi giustifica nella scelta che ho fatto, della quale sono stranamente contento.
Naturalmente continuo a sperare che qualcuno darà istruzione agli analfabeti, pane agli affamati, medicine agli ammalati, libertà e dignità agli oppressi» (Alberto Dioli, Fidei donum. Lettere e antologia di testi, vv. 1 e 2, a cura di A. Zerbini, Quaderni Cedoc SFR, 25-26, Ferrara 2014, 120).
Nel Bollettino parrocchiale del Barco, don Alberto spiegava anche ai suoi parrocchiani il perché di tanta lentezza nell’adeguare e trasformare la chiesa secondo la riforma che era stata delineata dal concilio Vaticano II.
Oggi a noi che siamo in un cammino sinodale per attuare più in profondità la riforma conciliare, specie nelle parti rimaste ancora inespresse e disattese, egli direbbe anche a noi: «I laici più avveduti si meraviglieranno che dopo tante solenni affermazioni, tutto rimanga come prima e che la loro voce sia così poco ascoltata, anzi che essi non abbiano praticamente nessuna voce come nel caso nostro.
Ma il concilio è terminato da appena due anni e il cammino è lungo. L’importante è che ci si muova in quella direzione, tra molte pene, contrasti, difficoltà.
Vale per tutti quello che scriveva un precursore del nostro tempo, il cardinale Newman [Qui], uno degli spiriti più grandi del suo secolo. È una frase che ho letto nella sua Apologia pro vita sua, a proposito del Vaticano I: «Poiché c’è il concilio, è tempo di soffrire» (Fidei donum 1, 116). Siamo avvisati dunque: anche per noi ci saranno fatiche e delusioni e lentezze per dare forma sinodale, coscienza partecipativa e ministeriale alle nostre comunità, una vita condivisa, una vita di più grande comunione.
“L’indifferenza verso il passato è una forma di ingiustizia”
Così scriveva Teodoreto di Cirro [Qui], vissuto nel V secolo e autore di una Storia Ecclesiastica, riferendosi a quella negligenza colpevole che induce a dimenticare nella chiesa il ricordo delle lotte e imprese ammirevoli dei cristiani.
E continuava: “Perciò io tenterò di scrivere ciò che della storia della Chiesa è trascurato, perché non ritengo cosa santa dimenticare la gloria di azioni molto splendide e di narrazioni utili, che sarebbero distrutte dall’oblio”.
E Paolo VI ricordava: “Non ignorare la propria storia non significa essere vincolati alle forme che ieri ne hanno tessute le vicende; significa piuttosto sperimentare la spinta, morale che da essa deriva, e cioè godere di una carica di esperienza, di ansia verso l’attualità e verso l’avvenire, di ricerca di sempre nuove e geniali originalità” (Discorso, 26 giugno 1971).
È con questo spirito che il Cedoc SFR lavora per custodire la memoria di coloro che ci hanno preceduto nel segno di umanità e di fede e per osare un passo, un altro passo ancora. Oltre ai testi citati sopra, l’impegno di questa memoria missionaria è testimoniato dai seguenti volumi:
- M. Turrini, Dalle “retrovie” delle missioni alla Chiesa tutta missionaria. Il Centro missionario diocesano di Ferrara-Comacchio (1929-2000), Quaderni Cedoc SFR, 40, Ferrara 2017.
- L’umiltà di navigare a vista. Memoria missionis, a cura di A. Zerbini, Quaderni Cedoc SFR, 41, Ferrara 2017.
- F. Franceschi, L’attesa dei popoli. Interventi sulla chiesa missionaria e diario, a cura di M. Turrini e A. Zerbini, postfazione di A. Zerbini, Quaderni Cedoc SFR, 44, Ferrara 2021.
- C. Pagnoni, Il Vangelo tra la gente. Missionari ferraresi nel mondo, Corbo, Ferrara 2003.
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Andrea Zerbini
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