L’ombra della luce
L’ombra sta alla ferialità dei giorni come la luce alla festività. Ombra della luce è allora l’avvento, come pure la poesia: il dono di una benedizione attesa, un seme nella mano da sparpagliare nei solchi del quotidiano.
Scambio occhiate nervose
con l’uomo che vende
semi di cocomero a mia figlia.
L’ombra di un uccello passa
sopra le nostre mani.
Il venditore alza la frusta e
parte in fretta, dietro il vecchio cavallo
in direzione di Beersheba.
Mi offri di scegliere i semi che voglio.
Hai già dimenticato l’uomo
il cavallo
e anche i cocomeri e
l’ombra era qualcosa non vista
tra me e il venditore.
Accetto il tuo dono qui
sulla strada asciutta.
Allungo la mano per ricevere
la tua benedizione.
(Semi, Orientarsi con le stelle. Tutte le poesie di Raymond Carver, minimum fax, Roma 2016, 463)
Un feriale, quotidiano avvento − ho pensato − quello tutto dispiegato nell’opera poetica di Raymond Carver (1938-1988).
La quotidianità è il luogo in cui esso ha preso forma: un attendere a parole e a racconti fissando l’attimo passante nello scorrere dei giorni, senza pretese di stupire. Sulle prime si ha l’impressione siano parole radenti la banalità. Giorno dopo giorno, quelle stesse parole paiono invece segnate dal mistero latente in ogni cosa, oggetti, persone e avvenimenti raccolti nel momento del loro accadere.
Perché dire ‘quotidiano’ è come dire usuale, prevedibile, dimesso, proprio come paiono le poesie di Carver. Del resto, per dirla con le parole di madonna Fiammetta, in un racconto del Boccaccio, una poesia «semplicemente è di feriali vestimenti vestita». Una poesia in compagnia delle sue più nobili compagne, che «rifiutando li già voluti onori», trovi «umile, ne più bassi luoghi». Tale è stata anche l’esperienza poetica ed esistenziale dello scrittore Carver.
Fu segnato dall’inquietudine fin dalla giovinezza per le difficoltà materiali dovute alla povertà. Ciò non gli impedì tuttavia di coltivare la sua passione per la letteratura. Leggeva testi di Isaak Babel, Ernst Hemingway e Anton Čechov, ma anche Thomas Mann, Hermann Broch, Elias Canetti. All’inizio scriveva in qualunque posto si trovasse: in cucina, in garage, nella macchina parcheggiata. Poi ovunque la solitudine gli facesse compagnia.
Nel 1963 tra molte difficoltà riuscì a laurearsi. Passò attraverso l’alcolismo, ma ne uscì grazie all’incontro con la poetessa Tess Gallagher che divenne in poi sua moglie. Grazie a lei ottenne la cattedra di Letteratura inglese presso la Syracuse University, così da potersi dedicare anche alla scrittura. Arte che insegnò pure a molti apprendisti scrittori.
Suo è il testo Il mestiere di scrivere, un’iniziazione alla scrittura creativa attraverso il racconto della sua breve esperienza umana e letteraria (morì ancora giovane a 50 anni per una grave malattia). Nell’introduzione di Tess al libro leggiamo: «Quando soffriamo, torniamo sulle sponde di certi fiumi» (Czesław Miłosz). E secondo me, per Ray anche le poesie, come i fiumi, erano luoghi dove riconoscersi e guarire:
[…] A un certo punto mi sono sdraiato sulla sponda
e ho chiuso gli occhi per ascoltare il rumore che faceva l’acqua
e il vento che fischiava sulla cima degli alberi. Lo stesso vento
che soffia giù nello Stretto, eppure è diverso.
Per un po’ mi son lasciato immaginare che ero morto
e mi stava bene anche quello, almeno per un paio
di minuti, finché non me ne sono ben reso conto: Morto.
Mentre me ne stavo lì sdraiato a occhi chiusi,
dopo essermi immaginato come sarebbe stato
se non avessi davvero potuto più rialzarmi, ho pensato a te.
Ho aperto gli occhi e mi sono alzato subito
e son ritornato a esser contento.
È che te ne sono grato, capisci. E te lo volevo dire»
(ivi, 26).
Essenzialità, sobrietà, povertà del tracciato testuale non sono sinonimi di improvvisazione e trascuratezza. Nascono al contrario dalle continue rifiniture, cambiamenti che egli apportava ai testi per toglierne il superfluo e risaltare la prossimità, più prossima, tra parole e l’accaduto.
Come nella luna calante la limpidezza del cielo notturno fa intravedere anche la parte in ombra del disco lunare, così l’atto di scrittura che riduce al minimo la realtà per farla stare nelle parole, in un certo modo la eclissa, la oscura, sino a manifestarne non tanto la luminosità, ma la forma d’ombra.
Chissà cosa avranno pensato i vicini
vedendo una famiglia lasciare la casa
nel cuore della notte?
La lanterna che si muoveva dietro le finestre
senza tendine. Le ombre che si spostavano di stanza
in stanza raccogliendo le proprie cose in scatoloni.
L’ho visto di persona
come può ridurre un uomo la frustrazione.
Può farlo piangere, può fargli sfondare
una parete a pugni. Può fargli sognare
una casa tutta sua
alla fine di una lunga strada. Una casa
piena di musica, agio e generosità.
Una casa che non è stata ancora vissuta
(ivi, 124)
Così si sta nella poesia di Raymond Carver: come nell’ombra della luce. Il sublime della luce è presente attraverso e nella sua ombra, come la festività è presente nella ferialità del quotidiano quale suo principio e alimento.
Così lo ricorda la moglie e curatrice dei suoi testi Tess Gallagher: «Ray voleva innestare la lingua all’esperienza in tutta la sua tenace vitalità, nella sua crudezza» (ivi, 21).
Come eravamo saliti.
Strisciando alla cieca tra gli arbusti, scavalcando i tronchi caduti,
inoltrandoci tra i cespugli. Le ombre scendevano dagli alberi
ormai sulle rocce piatte ancora calde di sole. E anche i serpenti.
(ivi, 135)
E prosegue: «Ricordo un commento sulla vita e l’opera di Emily Dickinson in cui le sue poesie venivano descritte come scaturite in modo così diretto dalle esigenze dell’anima da infrangere persino il concetto stesso di poesia come prodotto strutturato della lingua…
Ray faceva sembrare ciò che è estatico una cosa comune, alla portata di tutti. Sapeva anche qualcosa di essenziale, che troppo spesso viene sacrificato a preoccupazioni minori: che la poesia non è semplicemente reticenza servita al posto di ciò che intendevamo dire. È un luogo dove essere aperti e riconoscenti, per fare spazio e accogliere quegli avvenimenti e quelle persone che più sono vicine al nostro cuore. “Te lo volevo dire”. E lo ha fatto» (ivi, 18; 26).
Così, seguitando la lettura, scopri l’ombra della luce vivente
Per addentrarti nel mistero dell’Avvento, come dentro una Poesia, occorre l’ostinazione di continuare a provare: perché leggere come scrivere, credere come sperare equivale a disegnare una finestra su un muro d’ombra, per poi provare ad aprirla.
“L’ombra della luce vivente” è una espressione molto cara alla monaca e mistica medievale Ildegarda di Bingen, dotata di una rara qualità visionaria. Nella sua simbologia l’ombra della luce è l’umanità, e viene utilizzata non già per affermarne l’inconsistenza davanti a Dio, ma per esprimere la sua origine. L’ombra non ha pertanto valenza negativa; piuttosto l’umanità e la mistica sono per Ildegarda ombra della luce vivente perché originate dalla luce increata, create e informate dalla luce inaccessibile in cui abita Dio:
«Si chiama ombra della luce vivente, e come il sole, la luna e le stelle si vedono nell’acqua, così le sacre scritture, i sermoni, le virtù e certe opere degli esseri umani mi si manifestano risplendendo come immagini in essa… Non posso assolutamente vedere che forma abbia questo splendore, allo stesso modo in cui non passò guardare fissamente la sfera del sole.
Tuttavia qualche volta riesco a scorgere in esso una luce diversa, che per me si chiama luce vivente. E quando vedo questa luce mi si sgombra la memoria di ogni tristezza e dolore e allora mi comporto come una ragazzina nella sua semplicità, e non come una donna anziana» (Michela Pereira, Ildegarda di Bingen, Verona 1917, 20).
L’assist a seguitare il cammino nell’ombra nei testi di Carver mi è venuto dal gesuita Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica e studioso del poeta, che in un’intervista ha dichiarato: «La poesia di Carver è una poesia che usa un linguaggio assolutamente ordinario, e quindi mi parvero all’inizio abbastanza banali. Cominciai perciò a leggere, un po’ stupito, quasi infastidito.
Però, continuando a leggere, mi resi conto che lì c’era vera poesia, cioè mi resi conto che i miei occhi, la mia mente, la mia attenzione erano incollati alla pagina: sentivo l’emozione che scaturiva da quel linguaggio tanto ordinario.
Rimasi sorpreso dalla forza che percepivo leggendo, da quei versi e dalla assoluta semplicità della parola, quello che Carver definisce understatement of emotion. (Eufemismo: quando qualcosa o qualcuno, un sentimento. un’emozione, un fatto vengono minimizzati rispetto al loro valore intrinseco per facilitare la comprensione della parola). Proprio questo patto profondo, direi quasi biografico, si stabilisce tra il lettore e lo scrittore, grazie a un linguaggio che non fa infrazione rispetto alla norma ordinaria né è particolarmente sperimentale. Sentivo che lì c’era della vita» (Pangea, Dialoghi, 22.5. 2022).
Scrivere per essere pronti alla tenerezza
Questa mattina c’è neve dappertutto. Lo notiamo entrambi.
Mi dici che non hai dormito bene. Ti confesso
che nemmeno io. Hai passato una nottataccia. «Anch’io».
Siamo straordinariamente calmi e teneri l’un con l’altra
come se avvertissimo il nostro traballante stato mentale.
Come se ognuno sapesse cosa prova l’altro. Anche se,
naturalmente, non lo sappiamo. Non lo si sa mai. Non importa.
È la tenerezza che mi preme. È questo il dono
che mi commuove e mi prende tutto questa mattina.
Come tutte le mattine
(ivi, 337).
Proseguendo ancora tra le righe de Il mestiere di scrivere. Esercizi, lezioni, saggi di scrittura creativa, (Einaudi Torino 1997) la finestra nell’ombra ha dischiuso ancora il lume della tenerezza; si è aperta sopra: Meditazione su una frase di Santa Teresa, che fu l’ultimo discorso di Carver tenuto in pubblico, il 15 maggio 1988, in occasione della cerimonia in cui gli fu conferita la Laurea in Lettere honoris causa dall’Università di Hartford, Connecticut:
«C’è una frase negli scritti di Santa Teresa che, nel preparare questo discorso, mi è sembrata via via sempre più adatta all’occasione. È stata usata come epigrafe per una recente raccolta di poesie di Tess Gallagher, la mia cara amica e compagna che oggi è qui con me, ed è dal contesto di questa epigrafe che cito la frase.
Santa Teresa, questa donna straordinaria vissuta 373 anni fa, ha detto: “Le parole conducono ai fatti […] Preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza”. Così espresso, questo pensiero è limpido e bellissimo. Lo ripeterò un’altra volta perché, in un sentimento portato alla nostra attenzione a questa distanza, in un’epoca che è sicuramente meno disponibile a sostenere questo importante collegamento tra ciò che diciamo e ciò che facciamo, c’è anche qualcosa di strano, di esotico: «Le parole conducono ai fatti […] Preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza.
C’è qualcosa che è più che misterioso, per non dire – perdonatemi – addirittura mistico, in queste parole… di “Tenerezza” – ecco un’altra parola che non sentiamo tanto spesso oggigiorno e specialmente in un’occasione pubblica e gioiosa come questa. Pensateci un attimo: quando è stata l’ultima volta che l’avete usata o l’avete sentita usare?
È altrettanto rara quanto l’altra parola, “anima”. Nel racconto di Cechov II reparto n. 6, c’è un personaggio di nome Mojsèjka, stupendamente delineato, che per quanto ricoverato nel settore dell’ospedale riservato ai malati di mente, ha assunto l’abitudine di praticare una particolare specie di tenerezza. Ecco cosa scrive Cechov: «A Mojsèjka piace rendersi utile. Porta l’acqua ai suoi compagni, li copre quando s’addormentano; promette a ciascuno di portargli un copeco o di fargli un berretto nuovo; ed è lui che imbocca con il cucchiaio il suo vicino di sinistra, che è paralizzato».
Parole che rimangono nell’aria come azioni: un lavoro da compiere
Così sorpreso e ammirato di questo supplemento di coscienza e di lume ho esclamato dentro: “Avvento, cammino di tenerezza; avvento: passante di valico dal dire al fare, al modo dell’ombra che risale alla sua luce vivente“.
Alla scuola di scrittura di Raymond Carver, questo sabato.
In dono: l’aura del suo lavoro.
Il mio lavoro
Alzo lo sguardo e li vedo incamminarsi
giù per la spiaggia. Il giovanotto
ha sulle spalle uno zaino con il bambino.
Questo gli lascia le mani libere
per poter prendere la mano della moglie
nella sua e dondolare l’altra. Chiunque può vedere
quanto sono felici. E intimi. E costanti.
Sono più felici di chiunque altro e lo sanno.
La cosa li rende allegri e modesti.
Vanno fino alla fine della spiaggia
e scompaiono alla vista. Ecco fatto, penso,
e ritorno a questa cosa che governa
la mia vita. Ma dopo qualche minuto
ecco che tornano a passeggiare sulla spiaggia.
L’unica differenza
è che hanno cambiato lato.
Lui è dall’altra parte ora rispetto a lei,
dalla parte dell’oceano. Lei, da questa parte.
Ma si tengono ancora per mano. Ancor più
innamorati, se possibile. E lo è.
Lo sono stato anch’io per tanto tempo.
La loro è stata una modesta passeggiata, quindici minuti
all’andata, quindici al ritorno.
Hanno dovuto farsi strada
tra gli scogli e aggirare grossi tronchi
sbattuti qui quando il mare ha fatto il matto.
Camminano in silenzio, lentamente, tenendosi per mano.
Sanno che l’acqua è lì, a due passi,
ma sono così felici che la ignorano.
L’amore sui loro volti giovani. La sua aura.
Magari durerà davvero per sempre. Se sono fortunati,
e buoni, e tolleranti. E attenti. Se riusciranno
a continuare ad amarsi senza risparmio.
E a essere sinceri l’uno con l’altro – soprattutto questo.
E lo saranno, naturalmente, lo saranno,
sanno benissimo che lo saranno.
Torno al mio lavoro. Il mio lavoro torna a me.
E il vento si alza un po’ sull’acqua.
(ivi, 209-220).
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Andrea Zerbini
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