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Presto di mattina. Ansia per l’uomo

Ansia per l’uomo fuori rotta

Poesia è la vita
che attraversiamo in ansia
aspettando colui che porta
la nostra barca senza rotta.
(F. G. Lorca, Tutte le poesie e tutto il teatro, Newton, ebook Roma 2011,

Nel mare del dubbio in cui remo
non so neppure in cosa credo;
tuttavia queste ansie mi dicono
che io porto in me
alcunché di divino.
(Gustavo Adolfo Bécquer, da Rimas)

“Nel mare del dubbio in cui remo”, anche noi navighiamo senza rotta verso un dove, un orizzonte che non si vede ancora, confine lontano, invisibile. E tuttavia quel che saremo e dove andremo, un qualche approdo deve pur esserci, mi dico.

Ce lo dice anzi l’inquietudine che ci anima, il fatto che siamo viandanti sospinti dal vento dell’ansia che mai si quieta. Da dentro sento mancante sempre qualcosa, che come un’onda si abbassa nel fondo in un gemito e scompare per poi rialzarsi in un sospiro d’infinito.

Prima ancora del vangelo la poesia è remo che batte onde di speranza fatte di spasimi e aneliti, ma che attende inesausta il Passatore della vita, della barca senza quiete. Queste ansie mi dicono che porto in me qualcuno che non procede da me, presente nella forma di una parola udita, eco di risacca che fu alla partenza, promessa portata dal vento che gonfia le onde e che si rinnova ad ogni spruzzo del mare che si frange sulla chiglia.

Ansia dell’uomo per la pace

Ansia per l’uomo (Morcelliana, Brescia 1969) è il titolo di un libro di Romano Guardini in cui si fa corrispondere a quella dell’uomo «l’ansia dell’uomo per la pace». Questa diventa una questione vitale: non solo una questione di saggezza ma di audacia. Non fa ripiegare, ma si fa resistenza che nascostamente avanza.

L’ansia per l’uomo ci fa osare la pace per evitare «la consumazione dell’uomo per mezzo della sua propria opera», che avviene quando la tecnica, imponendosi come assoluto, si sostituisce a lui; quando la sua opera, con cui edifica la realtà grande del mondo e della vita, da strumento diventa il fine, capovolgendo o annullando il suo orizzonte di senso e di valori per imporre se stessa e il suo potere svincolato dall’uomo e dalla sua dignità.

La tecnica diviene così il valore assoluto, al di sopra dell’uomo stesso, un mondo altro in posizione di dominio, a cui l’uomo è sottomesso, assoggettato, uno strumento, un esperimento del suo stesso potere tecnico.

Tutto il potere dell’uomo diventerà suo nemico se non lo si collocherà di nuovo in dialogo e nella relazione con l’umano. Così l’ansia per l’uomo sta lì come scolta in cerca di tracce per uscire dalla rassegnazione e indicare sentieri di senso che riportino l’uomo a riconciliarsi con la sua opera.

Sottomettendo alla necessità l’uomo, la tecnica lo scalza dalla sua stessa dignità, limita e compromette la sua libertà di significare, orientare, valorizzare la vita. E, nel mondo della tecnica e nel cuore umano confinato ai margini, anche la guerra diventa necessaria per accrescere un potere risvegliato alle sue proprie esigenze di assolutezza.

Si domanda così Guardini: «Questo uomo cresce? Non lo vediamo forse invece nel pericolo di diventare sempre meno libero, sempre più esposto direttamente o indirettamente all’inesorabilità del processo scientifico, tecnico, sociale? La falda vitale, da cui l’uomo vive, non si assottiglia forse sempre più? Il suo contatto con la grande realtà non diviene sempre più insicuro, egli perciò sempre meno capace di percepire avvertimenti, di afferrare indicazioni e di sentire che l’ora giusta per qualcosa è venuta?

Le forze della contemplazione non diminuiscono sempre più, e la tranquillità interiore, il raccoglimento, l’energia dell’intimo rinnovamento? Non cade sempre più la capacità di porsi in distanza, di liberarsi dalle costrizioni d’ogni specie, di percepire nel corso del divenire la mano di Dio?», (Guardini, 21- 22).

La mano di Dio

Va qui ricordata l’immagine di Teofilo di Antiochia, nel testo Ad Autolico, 1,5-7 che spiega la simbolica della mano di Dio: «Come la melagrana, avvolta dalla buccia, contiene dentro di sé molte cellette e alveoli separati da membrane e innumerevoli granelli, così l’intera creazione è circondata dallo spirito di Dio che, a sua volta, insieme con la creazione è circondato dalla mano di Dio.

E come il granello della melagrana, rinchiuso dentro, non può vedere ciò che si trova fuori della buccia, proprio perché sta dentro, così pure l’uomo, circondato con l’intera creazione dalla mano di Dio, non può vedere Dio.»

Penso pure alla “mano di Dio”, quella scolpita da August Rodin, che rappresenta la creazione di Adamo ed Eva. Il poeta Rainer Maria Rilke lo definì il “sognatore il cui sogno saliva lungo le mani”, a simboleggiare il processo creativo dell’artista, dell’uomo che comprende e si comprende in relazione al tutto; in Rodin un itinerario creativo espresso dalla forma dialogica dei personaggi o delle mani, compattezza di forme e quell’impossibilità di disgiungersi. Mai la materia è sembrata raggiungere il profondo di sé e manifestarlo, e il marmo narra visivamente, senza verbo, ciò che vi è ancora di nascosto.

Libertà e responsabilità sacrificate alla necessità

«Se nella guerra moderna va svelandosi sempre più chiaramente qualcosa di incondizionato, questione di vita e di morte per l’uomo, allora anche la pace deve acquisire un carattere che prima non aveva. Questa guerra assume via via una caratteristica sempre più acutamente rilevata.

Soprattutto confluisce in essa tutto ciò che va sotto il nome di tecnica: il dominio scientificamente fondato delle energie naturali e dell’uomo. Così essa acquista quel carattere che è proprio del pensiero ispirato alle scienze naturali e dell’attività tecnica: il rapporto con la necessità.

La libertà perde il proprio spazio. L’individuo cessa di essere combattente nel senso antico e diviene funzionario addetto alla macchina. Si impone la logica dei rapporti tecnici, economici e sociologici. La guerra stessa appare sempre più come un processo che emerge da tensioni date e che, una volta avviato, non può più essere fermato finché non si sia concluso. Ciò non vuol dire che tale processo sia anche realmente così.

Se gli eventi passati dovevano di necessità generare una conoscenza, di certo essa è questa: la formula “Doveva succedere così” è menzogna e viltà. In realtà è successo così, perché lo si è voluto o non lo si è impedito.

Tuttavia il processo ha a tal punto il carattere di un divenire autonomo che ne nasce una tentazione infinita di sottrarsi alla responsabilità con il pretesto della necessità. Nella guerra è vero che ci sono sempre uomini a prendere la risoluzione; ma la struttura degli avvenimenti è tale che sembra si debbano ricondurre non a persone ma a necessità. Tutto ciò si collega senza dubbio con il carattere della responsabilità» (Guardini, 11-12).

Lasciarsi raggiungere dalla mediazione dell’esperienza umana

Nel suo libro L’etica del viandante Umberto Galimberti mostra come questa si opponga all’etica antropologica del dominio della Terra, ammonendoci che l’umanesimo del dominio è un umanesimo senza futuro.

Quella del viandante «è un’etica che non si appella al diritto, ma all’esperienza, perché, a differenza dell’uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante non può vivere senza elaborare la diversità dell’esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava “nel cielo stellato e nella legge morale”, che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la sua vita in tensione».

Ricordando poi che l’uomo è “un’esistenza possibile”, viandante appunto, ciò che è possibile, in quanto possibilità, diventare reale. E questo “possibile realizzabile” è la fraternità.

«Per questo la fraternità, estesa a tutte le creature, sarà il terreno su cui far crescere le decisioni etiche in grado di porre fine alle leggi del territorio che, dopo aver spartito in un clima di ostilità non solo la terra ma anche il cielo e il mare, hanno reso impossibile la nascita di quell’uomo più difficile da collocare, perché viandante inarrestabile, in uno spazio che può essere dischiuso solo da quello sguardo che vede la Terra non più come semplice materia prima da usare fino all’usura, ma come nostra dimora da salvaguardare, perché, lo ripetiamo, qui e non altrove ci è concesso di vivere» (ivi, 58).

È interessante notare come anche Galimberti porti la sua analisi sulla tecnica, chiamata a prendere il posto all’uomo, riducendo l’orizzonte della sua libertà ed esperienza ad una funzione che non ritrova il suo scopo, il suo senso.

«Così la tecnica da mezzo diventa fine, non perché la tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si prefiggono non si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione tecnica. A questo punto la tecnica non è più un mezzo, ma un mondo, e il concetto di “mezzo” è radicalmente diverso dal concetto di “mondo”. La tecnica si sostituisce all’uomo che, in una simile situazione, può scegliere solo all’interno delle possibilità che la tecnica rende disponibili» (ivi, 23).

«Il viandante non incontra il prossimo, si fa prossimo»

Perché rispondere a qualcuno è già rispondere di qualcuno e farsi carico della sua sorte (E. Lévinas): «L’etica del viandante suggerisce un’altra strada lungo la quale io riconosco la differenza tra la mia e la tua cultura, ma riconosco anche le vittime del mio e del tuo sistema di valori». Queste vittime sono chiamate da Lévinas il “Terzo” che scuote le certezze poste alla base del rapporto bilaterale tra me e te, e fa di tutti noi degli stranieri alla ricerca del vero e del giusto, di ciò che ci divide e di ciò che ci unisce.

Questa ricerca del prossimo, «questa ricerca non può avvenire tramite la guerra, ma tramite quell’incontro che trova la sua espressione istituzionale nella politica. Per “politica” non si deve intendere l’accordo tra me e te, che può avvenire su qualsiasi base, fatti salvi i nostri interessi, ma quell’accordo tra me e te che si fa carico di quel “Terzo” che sono le vittime del tuo e del mio sistema» (ivi, 367-368).

E Guardini riferendosi alla risposta di Gesù al dottore della legge afferma che «il tuo prossimo è colui che necessita del tuo aiuto. Ma, poiché allora il precetto diventerebbe illimitato, il concetto di prossimo deve essere determinato ancora più precisamente, cioè praticamente, dagli avvenimenti concreti e quindi significa: Il tuo prossimo è colui che ti è assegnato dalla situazione concreta» (Guardini, 79).

Continuiamo insieme ad affinare i sensi e ad acuire l’ascolto

La direzione dei miei passi ubriachi. Racconti e poesie (Nuovecarte, Ferrara 2019) è un testo di un caro amico, Daniele Borghini, edito postumo. Ogni volta che scriveva un racconto o una poesia mi mandava il testo via mail, e così la raccolta cresceva, e con essa l’amicizia. Ho ritrovato nel computer la lettera che gli scrissi in occasione della poesia che allego in chiusura e che fa eco d’onda a quelle dell’inizio: Passi ubriachi e tuttavia non privi di direzione, né senza una meta.

«Caro Daniele

ho ricevuto il tuo testo poetico: ed è sempre una sorpresa che stupisce sentire come le tue parole aderiscano alla realtà, rinchiusa dietro muri e silenzi, prigioniera, invisibile, afona, e tuttavia riportata libera allo sguardo e ai sensi di chi legge.

È con gratitudine vedere che tu centri una questione che è di tutti i credenti e che coglie ciò che è patrimonio dell’ansia di tutti; questa capacità di portare alla luce ciò che ci accomuna nell’umano e nel credere quando altri non riescono è proprio, io credo, di colui che fa poesia, di colui che non smette di affinare i sensi e di porsi in ascolto profondo per sé e per gli altri.

Viene alla luce così il dramma che è l’esperienza assenza/presenza di Qualcuno che ci viene incontro e si fa vicino, come aquila alla nube, come un sentiero appena tracciato nel cielo o scoprirlo intrecciato al proprio inquieto respiro.

Continuiamo insieme ad affinare i sensi e ad acuire l’ascolto, perché i simboli reali del pane del vino e della Parola, dei respiri soffocati, crocifissi, risalendo alla luce con le parole creino consapevolezza e spessore di vita. Non vi è ricercatezza estetica nei tuoi testi, ma quella che si scopre è una figura di bellezza la quarta virtù teologica la chiama Cristina Campo: “la segreta, quella che fluisce dall’una e dall’altra delle tre palesi”».

Muri e silenzi
mi accerchiano e mi sfiniscono
L’aquila compie traiettorie
limpide e cristalline
mentre io mi disperdo
come una nuvola
sfilacciata da un vento di tempesta
caotico a me stesso
Dove sei
Messia consolatore?
Mi attendi alla fine dei tempi
quando i giochi sono fatti
o sei presente
già e ancora
intrecciando il Tuo respiro col mio
crocifisso alla scaturigine delle mie ansie
per dar loro un senso?
Se solo potessi avere una risposta
nel Pane e nel Vino
o nella Parola
che sembrano venire da così lontano!
Affinerò i sensi
acuirò l’ascolto
o sarò albero rinsecchito e senza frutto.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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