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Perfect Days: tutto ciò che è noto viene amato e viene amato perché è noto

“Quale «nuovo» può valere quanto questa dolce monotonia, dove tutto è noto ed è «amato» proprio perché è noto?” .

È una citazione de Il mulino sulla Floss di George Eliot, pseudonimo maschile della scrittrice Mary Ann Evans.

Non trovo nulla di più appropriato di questa citazione per racchiudere, al modo di una perla in un’ostrica, l’ultimo film di Wim WendersPerfect days.

La felicità, la serenità – parrebbe dirci George Eliot – è qualcosa di monotono: è una ripetizione dello stesso. Il tempo sembrerebbe destinato a mettere in discussione proprio questo ritorno dell’identico e a strapparcelo dalle mani: nelle prime sequenze del film l’orologio appoggiato sulla mensola della casa del protagonista resta sempre, fermo, al suo posto.

Solo il giorno di riposo, Hirayama, indossa l’orologio prima di uscire di casa.

Il protagonista dell’ultimo, bellissimo film di Wim Wenders – Hirayama appunto – è un uomo taciturno e di poche parole. Ma già dai suoi semplici e incantevoli rituali mattutini capiamo molto di lui e  ci affezioniamo a lui tanto da non poter fare a meno di seguirlo per passare il nostro tempo con lui fino al punto di non chiederci più nulla o di aspettarci che accada qualcosa.

Perché il cinema di Wenders, da più di 50 anni, è una immane descrizione che coincide con la spiegazione cosicché anche nell’istante in cui non può succedere nulla, accade tutto. Accade che la vita si descrive, e si rivela nella sua semplicità e nella sua primigenia purezza.

Hirayama pulisce i bagni pubblici di Tokyo ed è contento del lavoro che fa. Lo fa con passione, scrupolo e rigore. Dopo il suo passaggio quotidiano, i bagni pubblici di Tokio diventano capolavori di architettura contemporanea. Hirayama lustra, lucida, pulisce. Ispeziona gli angoli dei wc con uno specchietto per rimuovere anche la minima traccia di sporco.

Hirayama ripete ogni giorno gli stessi gesti: si sveglia al fruscio della scopa di una spazzina che pulisce la strada davanti casa sua; ripiega il suo futon, si lava, si aggiusta i baffetti curatissimi, saluta le sue piante e i piccoli aceri di cui si prende amorevolmente cura, prende sempre gli stessi oggetti disposti sulla mensola e esce per andare a lavoro.

Nel suo furgone ascolta musica – tipicamente rock underground newyorchese- incisa su audiocassette e riprodotta con un vecchio “mangianastri”. Durante la pausa, consuma il pranzo frugale sulla panchina del parco, fotografa dal basso le chiome degli alberi con una piccola macchina fotografica analogica che porta sempre con sé nel taschino della tuta.

Al termine del turno lavorativo, si lava accuratamente in un bagno pubblico, consuma qualcosa al chiosco del mercato (la domenica si concede un pasto al ristorante della cui proprietaria sembra essere invaghito) e poi rincasa. Prima di dormire, sdraiato sul futon, legge Le palme selvagge di William FaulknerUrla d’amore di Patricia Highsmith. È un uomo colto, Hirayama. In un passaggio del film intuiamo anche che viene da una famiglia benestante con cui ha deciso di tagliare i ponti. “Il mondo – dice – è fatto da tanti mondi, alcuni sono collegati, altri no”.

Lui ha fatto una scelta filosofica:  vivere solo; vivere di musica, di libri, di piante. E di silenzi.

Vivere di piccole cose, un’esistenza minima. Essenziale.

Nel film non accade quasi nulla. Un giorno dopo l’altro tutto si ripete, anche le notti e i sogni. Il mondo onirico di Hirayama è popolato da ombre d’alberi e volti di donna, arabeschi, e origami di una bellezza e delicatezza tipica del sumi-e, la  pittura a inchiostro e acqua monocromatica  che utilizza solo inchiostro nero, in varie concentrazioni. Ombre, solo ombre: «ma se due ombre si sovrappongono, diventano più scure?», chiede Hirayama all’ex marito della proprietaria del ristorante della quale è invaghito.  Già: se esistono giorni così perfetti, potranno esistere notti a loro modo perfette?

Ed è in questa “invisibilità” di giorni perfetti e di notti altrettanto perfette che sboccia quella straordinaria monotonia che potrebbe  illuminare la citazione della Eliot che abbiamo posto all’inizio: tutto ciò che è noto viene amato e viene amato perché è noto.

Non c’è nulla di nuovo che possa valere di più della dolce monotonia perché  il crescente bene del mondo – direbbe ancora la Eliot- dipende in parte da atti non storici compiuti da quelle persone, come Hirayama, che vivono fedelmente una vita semplice e da registi come Wenders che delicatamente ce la mostrano, semplicemente, senza alcuna spiegazione.

Cover: sequenza daPerfect days”

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Giuseppe Ferrara

Giuseppe Ferrara – Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”: https://thestrawberrypost.blogspot.com/

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