Skip to main content

Elisa Sansovino e le poete perse d’amor perduto

Elisa Sansovino (eteronimo di Beppe Salvia, Potenza, 10 Ottobre 1954-Roma, 6 Aprile 1985). Poeta italiano

 Come le pennellate minuziose e maniacali di un pittore, le singole parole che compongono i versi di Beppe Salvia sono ossessivamente risolte come pixels intermittenti sul foglio o luminose infiorescenze primaverili che appena sbocciate subito rimandano all’autunno.
Lui stesso scrive in una pagina, quasi testamentaria, di Elemosine eleusine:

«…in mia vita ho scritto versi di quattro stagioni. inverno fu la prima, e dello scrivere nemico. venne dunque l’estate, d’Elisa Sansovino. e per la primavera un semplice e celeste quadernetto, cieli celesti suo poverissimo titolo. l’autunno ahimè io non l’ho scritto. perché, come per tutta la poesia grande, esso è l’implicito, sta dietro assai a tutti quanti i miei versi, nella mia vita vana».

Beppe Salvia fu conosciuto dal grande pubblico solo dopo la sua morte avvenuta nella vigilia di Pasqua del 1985 dopo un‘ultima occhiata al mondo. In quello stesso anno fu pubblicata una silloge poetica di una giovane poeta, Elisa Sansovino, dal titolo Estate, curata proprio da Beppe Salvia.

La raccolta, poco più di un quadernetto, recava al suo interno una foto della ragazza insieme a sue compagne di liceo: il curatore si premurava di informare che la silloge era già stata stampata privatamente nel 1949 in “cinquecento copie, legate in brossura e con la copertina di colore grigio”. Continuando questo gioco di rimandi, Salvia segnalava che nella fotografia, con in prima piano una motoretta  e quattro ragazze sedute sul sellino, Elisa era quella con il vestito bianco, la meno carina.

In effetti la raccolta a una prima lettura distratta restituisce la sensazione del diario in versi di un primo amore e, pertanto, la poesia risulta ingenua proprio come quella che ci si può attendere da un ragazzina. Poi, inoltrandosi più attentamente nei testi, si scopre un lessico capace di slanci e ricercatezze che denotano conoscenze ben superiori a quelle di un’adolescente.

Così in quel 1985 si scoprì un po’ alla volta che c’erano già stati altri componimenti poetici di Beppe Salvia sotto eteronimi femminili, come le poesie di Silvia Isola, fatta nascere nel 1962 e pubblicate nella rivista L’oca parlante. E Elisa Sansovino, Silvia Isola e altri eteronimi maschili, a poco a poco, cominciarono a restituire “l’identità” di un vero e nuovo Poeta.

Andrea Zanzotto fu uno dei primi a riconoscere e a definire l’identità di Beppe Salvia :

«…la sua poesia che ha una luce di giovinezza e di alba e nello stesso tempo qualcosa appunto di terribilmente teso  verso lontananze imprendibili, lascia una parola lacerata fra gli uomini e la volontà di prendere contatto con il “cuore” del mondo…[questa poesia] si è fatta subito notare per una straordinaria limpidezza dello spalancarsi di una potenza e di un’unità lirica. Tutto resta preso come in un abbraccio di una sconcertante luce, che da una parte sorregge e dall’altra , però, crea un inquietante sfondo di allontanamento».

Dopo queste parole, le poesie di Estate non solo non sembrano più scritte da una ragazzina di 16 anni ma neanche da un giovane uomo di 10 anni più vecchio di quella ragazzina.

Quelle poesie sembravano davvero essere scritte da un antico poeta cinese che come disse Attilio Bertolucci  guardava fuori, una delle sue ultime ore :

la sdraio a strisce piane
è accanto alla vetrata

e a quelle vane bande
colorate posa accanto

 smesso un abito sgargiante
bianco

Anche in questi versi ci pare di cogliere una luce di sillabe, e il ritocco maniacale delle parole, quasi di una loro disposizione su una tela.

Così come accade per i colori in un quadro di Pierre Bonnard, torna anche qui un’analoga sapienza per le sillabe, “una più vasta scienza”, agognata come un frutto infantile.  È la medesima arte, lo stesso sguardo sulla crescita naturale di colori e sillabe, di un mondo vasto e libero visto dalla terrazza di una  casa e il medesimo tentativo di cogliere la vita in ogni suo dettaglio. E torna quella fatidica impossibilità di contenere tutte le stagioni, quella necessità di dover osare maniacalmente la perfezione riconoscendo, in fondo,  che il cuore, è invaso da un segreto, una segregazione (un autunno) che uccide.

Pochi ricordano che Estate terminava con una poesia mancante nella prima edizione del 1949, quella di Elisa Sansovino, una poesia aggiunta da Beppe che nell’ultima occhiata dalla…terrazza duplica il gioco e lo rovescia.

Elisa/Beppe/Saggio Cinese dedica i suoi ultimi versi a un interlocutore lontano , oltre il quadro, oltre la pagina. Oltre:

vorrei darti conforto, 

ma mi mancasti prima e spesso io
ti cerco invano…

Questi versi versati non importa da chi sembrano diretti ora proprio a chi li ha versati; a chi, con i suoi colori, con le sue parole e con le sue maschere, intendeva celare il suo amore per la vita, alla morte. Riuscendoci per poco.

  

Helle Busacca (S. Piero Patti , Messina, 21 Dicembre 1915-Firenze, 15 Gennaio 1996).
Poeta, pittrice e narratrice italiana.

In un suo curriculum vitae del 1988 Helle Busacca scriveva: «La poesia è il culmine delle infinite stratificazioni che dal primo bang ci hanno creati come siamo: per questo, a memoria d’uomo, possiamo ritrovarci in essa. Dove non ci ritroviamo non c’è poesia».

La coscienza del contesto: questo è ciò che colpisce in queste parole. La poesia è dunque il risultato di un processo evolutivo che dal (primo) Big Bang ha portato alla creazione di specie viventi su un pianeta di un sistema solare remoto in una delle innumerevoli galassie di questo universo che non è forse il primo e né sarà l’ultimo. Anzi la poesia è proprio il culmine di questa evoluzione che conferisce all’uomo, o meglio, lo “costringe” (per la sua stessa natura) a una certezza potremmo dire di specie: quella di ritrovarsi, di conoscersi solo nella poesia e grazie ad essa.

Ma da ben altro bang, di più corte coordinate e scale temporali, è creata la poesia di Helle. Ed è in questo “universetto” e nel suo parlato “telefonico” che Helle continua a riconoscersi e ritrovarsi. Una particolare stratificazione della sua vita… le apparve così importante da non poter essere lasciata cadere nell’oblio: la scomparsa tragica del suo amatissimo fratello Aldo.

Non solo questa fu una dolorosa esperienza personale ma anche la scoperta che la poesia non è mai cosa soggettiva. Quanto più essa prende le mosse da eventi personali e privati, nascosti come se fossero i nodi del retro di un arazzo, tanto più sembra assumere una figura chiara e distinta sul fronte, una risultante necessaria ch’emerge dall’intrecciarsi di tutti i fili che compongono e guardano il mondo.

Da questo momento la sua opera si trasforma in una grande liturgia laica nella quale nodi mediterranei sottostanti

per lui i tappeti

chiari e le finestre piene di cielo

per lui sul terrazzo le azalee vive

e i crochi i voli

 

sorreggono e fanno emergere l’arazzo cosmico

Sì, credo che scrivo un poema

dopo undicimila anni forse è il momento

di inviare un messaggio verso le stelle

…scrivo un poema io donna

che scrive perché è stato assassinato un uomo

 

Come i canti di una commedia postmoderna, le sezioni del libro sono denominati Quanti quasi fossero icone di fenomeni energetici simultaneamente corpuscolari e ondulatori dove la certezza di fissare la qualità della parola si equilibra all’incertezza di catturare una quantità di pathos.

I Quanti dell’integrazione, quelli della rottura, della desolazione fino ai Quanti della discriminazione, del rifiuto e della visione, rappresentano i nodi retrostanti all’arazzo della vita del fratello Aldo, anzi di aldo (come lo fissa, con l’iniziale minuscola, sulla pagina) e quindi di tutti i fratelli. Ne deriva così una sorta di breviario laico che ricercando le tracce del fratello lo individua nella vittima sacrificale di un sistema ambiguo, competitivo/nepotistico, baronale/meritocratico insieme, come lo sono quello accademico e quello lavorativo che risolvono tutte queste ambiguità con gli stessi strumenti di sempre: la furbizia, il sopruso, la prevaricazione, le complicità familistiche e clientelari.

Helle ambienta la sua comedia sull’isola di Creta al lido di Mallia, noto rifugio dei “capelloni”. Tra questi ragazzi idealisti e pacifici lei canta il ricordo del suo amato fratello e dunque di ogni fratello annunciando la scomparsa di molte specie viventi tra le quali, appunto, homo. (Che dire dell’attualità del messaggio, oggi che sono i giovani a ricordare ai “grandi” i pericoli che incombono sugli ecosistemi non più in grado di sostenere – meglio: sopportare – l’umanità?).

Qui i giovani la interrogheranno su ogni specie scomparsa e alla fine le chiedono

aldo? come era?

Helle guarda con tenerezza quei giovani che non si avvedono della scomparsa dei pesci dal mare, degli uccelli dal cielo; che non si accorgono delle foreste che già venivano distrutte, dei mari e dei fiumi che venivano inquinati e si limiterà a rispondere:

Era l’Uomo. E l’Uomo era meraviglioso.

Quando lui c’era c’era anche Dio.    

 

Amelia Rosselli (Parigi, 28 marzo 1930 – Roma, 11 febbraio 1996).
Poeta, organista ed etnomusicologa italiana.

 Nel 1953, a soli trent’anni, Rocco Scotellaro, il poeta-contadino lucano, muore d’infarto.

Da quel momento “i suoi contadini”, come raccontato da Carlo Levi, avrebbero continuato, ogni sera e per altri dieci anni ancora, ad accendere un lumino di cera alle finestre del paese e delle campagne materane. Nel 1953 Amelia Rosselli ha 23 anni e aveva conosciuto Rocco tre anni prima. A 14 anni i fascisti le avevano ucciso il padre, Carlo, e lo zio, Nello e lei e Rocco si conobbero a bordo di un battello a Venezia,  proprio in occasione di un convegno sui fratelli Rosselli.

Tra i due scattò subito una forte intesa. Amelia dopo il rifiuto verso il mondo borghese delle città, ritrovò la sua libertà, grazie a Rocco, in Lucania. E fu proprio in questi tre anni che maturò il suo interesse etnologico. Tra lei che ancora non aveva scritto nulla e il “poeta-contadino” che già scriveva della sua terra e dei suoi affetti, si stabilì un legame fatto di richieste ed esigenze profonde.

Rocco cercava qualcuno al quale svelare la bellezza di un mondo arcaico e contadino fatto di umiltà, semplicità e stagionalità. Inoltre aveva un urgente bisogno di  ricevere stimoli e incoraggiamenti per la sua poesia del mondo ridotto, letteralmente, a terra. Amelia cercava un eden primitivo ed innocente dentro al quale sentirsi a casa, uno spazio rassicurante e protettivo. Entrambi, per motivi diversi, soffrivano di un male inestinguibile: sentirsi legati a radici certe, non  doversene allontanare e cantare in versi quel dilemma dell’erranza che si fa restanza, come dice l’antropologo Vito Teti, e della restanza che si fa esilio. Questi i motivi profondi della poesia e del senso delle loro vite.

Al funerale di Rocco, Amelia perse la memoria e fu rinchiusa in un manicomio in Svizzera, subì l’elettroshock, finché tornò in Italia e cominciò la sua attività poetica in lingua italiana.

Del mondo scriveva:

«è sottile e piano: / pochi elefanti vi girano, ottusi».

Con la morte di Rocco, Amelia inizia a identificarsi con lui, esattamente come successe anni prima quando morì sua madre, e lei cominciò a farsi chiamare Marion. È proprio da questa identificazione che nasce Cantilena (poesie per Rocco Scotellaro), i primi testi della Rosselli in italiano, che fino a quel momento aveva scritto e “cantato” in inglese e in francese. Grazie all’amore per Rocco, quindi, Amelia “cantò” l’italiano per la prima volta.

Questa è la cantilena d’amore e morte per Rocco

Dopo che la luna fu immediatamente calata

ti presi tra le braccia, morto

Un Cristo piccolino

a cui m’inchino

non crocefisso ma dolcemente abbandonato

disincantato

Come un lago nella memoria

i nostri incontri

come un’ombra appena

il tuo volto affilato

un’arpa la tua voce

e le mani suonano

tamburelli

Sposo nel cielo

ti ho tutto circondato

ma sei tu che comandi

e sono tua sposa d’infanzia

sposa trasparente

Poi si gonfierà

il sacco delle lacrime

ma non si spillerà

lo metterò in un vasetto

greco-latino

me lo porterò a casa

trionfante elefante di pena

Tu salito nella bruma

ti vedo lontano che ti aggiri

consigliando

che ne è di me e di te ora dopo la morte

tu, sui colli

Lasciatemi

ho il battito al cuore

donna a cavallo di galli e di maiali

Rocco vestito di perla

come il grigiore dei colli vicino al tuo paese

mostrami la via che conduce

non so dove

nuovo anno

arrivi

teneramente

ossequioso

 

Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Maria Angelica Marcella Cristina Guerrini, Bologna, 28 aprile 1923 – Roma, 10 gennaio 1977).
Poeta, scrittrice e traduttrice italiana.

È un fatto: alcune volte Dio ci sembra molto lontano, anzi come aveva ”bestemmiato” Giobbe, ci appare come un nemico, una…tigre mimetizzata tra l’erba alta della jungla in attesa di assalirci e dilaniarci attraverso la sofferenza e la prova. Quanto evidente risulta questo fatto, oggi, in un’epoca ancora di peste e guerre!

Oh quanto ci sei duro

Maestro e Signore!

Con quanti denti il tuo amore

ci morde…

Così scriveva Cristina Campo, poetessa morta nel 1977 che visse tutta la sua vita con un distacco e una discrezione quasi eremitici. Fu lei stessa a scrivere di sé in un risvolto di copertina:

«Ha scritto poco e vorrebbe aver scritto ancora meno».

Il suo vero nome era un altro ma volle chiamarsi cristina da Cristo, suo segreto e profondo amore, e campo così evocativo del Signore che lavora la terra per vederla fiorire di tutti i suoi frutti. Una donna apparentemente mistica e appartenente a un’epoca medievale ma che nella realtà fu traduttrice, scrittrice e poetessa inafferrabile, di salute cagionevole ma di mente raffinatissima , dalle letture vastissime  e profonda conoscitrice  di tradizioni sapienziali ed esoteriche. Per tutto questo annotò tra le sue frasi preferite il detto di Pascal:

«Un po’ di sapere può allontanare da Dio, ma molto sapere vi può ricondurre».

Incontrare l’Amore può essere drammatico e a volte può comportare tanta sofferenza e lacerazione come dice nel suo frammento Cristina. I denti e gli artigli di questa “tigre” ci mordono, ci lacerano nell’intimo e ci fanno sanguinare ma ecco che l’Amore stesso disvela il mistero del Suo assalto: quei denti e quegli artigli hanno la capacità di ferire e di baciare:

con quanti denti il tuo amore ci morde…

E dunque l’immagine acquista un valore sorprendente lasciando intravvedere (meglio sarebbe dire : infrasentire) fra dolore, ferite e ostilità, il loro controcanto: l’ebrezza di un abbraccio, la pace ritrovata, l’intimità di una certezza.

Bisogna continuare a cercare nei morsi del dolore e tra il sangue delle ferite i segni di un senso dell’Amore, del progetto che Dio ha su ognuno di noi. Bisogna cioè sforzarsi di comprendere il significato delle beatitudini  (Beati i poveri…gli afflitti…gli affamati…i perseguitati…).

Il piccolissimo corpus poetico campiano è costituito da: 11 composizioni che videro la luce presso Scheiwiller nel 1956 nella sola raccolta, Passo d’addio, pubblicata dall’autrice; 6 poesie recuperate dal quadernetto che Cristina inviò all’amica Margherita Pieracci Harwell, quale dono per il Natale del 1954 più 11 testi che formano la sezione delle poesie sparse.

Passo d’addio è un canzoniere delicatamente strutturato secondo una calcolata architettura “quasi” perfetta. La raccolta è imperniata sulla misura temporale dell’anno e del suo ritorno al punto di partenza,  al termine del dodicesimo mese. Le 11 composizioni sono dunque una voluta approssimazione per difetto della…perfezione costituita dai 12 mesi.

Ogni lirica appare come un…passo di avvicinamento al congedo finale: non si dimentichi che il passo d’addio è una prova di danza che un’allieva esegue per le altre allieve al termine del loro percorso comune.

Congedarsi significa preparare la propria anima, il “tu”, all’incontro con il proprio Amore: il Tu. E lo si deve fare intrecciando il filo tematico dell’addio con quello temporale che è insieme esterno e interiore. Così attraverso un cammino avviato in sordina e nascosto sotto una semplice poesia di fine estate si giunge alla richiesta di una folgorazione sulla via di Damasco e all’epilogo finale. Il passo… d’avvìo.

(X)

E la mia valle rosata dagli uliveti

e la città intricata dei miei amor

siano richiuse come breve palmo,

il mio palmo segnato da tutte le mie morti.

 

O Medio Oriente disteso dalla sua voce,

voglio destarmi sulla via di Damasco –

né mai lo sguardo aver levato a un cielo

altro dal suo, da tanta gioia in croce.

 

(XI)

Devota come ramo

curvato da molte nevi

allegra come falò

per colline d’oblio.

 

Su acutissime lame

in bianca lama d’ortiche,

ti insegnerò, mia anima,

questo passo d’addio…

 

Sitografia

http://www.lamacchinasognante.com/versi-di-tre-stagioni-sulla-poesia-di-beppe-salvia-giuseppe-ferrara/

https://www.archiviodistato.firenze.it/memoriadonne/bio_busacca.htm

https://biografieonline.it/biografia-amelia-rosselli

http://www.cristinacampo.it/

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

sostieni periscopio

Sostieni periscopio!

tag:

Giuseppe Ferrara

Giuseppe Ferrara – Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”: https://thestrawberrypost.blogspot.com/

Commenti (1)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *



Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it

SOSTIENI PERISCOPIO!

Prima di lasciarci...

Aiuta la nostra testata indipendente donando oggi stesso!