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Il muro

Vicino alla casa di mia madre a Cremantello c’era casa Viscioli. Una casa molto belle ed elegante, colorata di rosso, squadrata, su tre piani, con un grande cortile di terra, una stalla e l’orto.

La separazione tra Casa Viscioli e la casa di mia madre era sancita da un vecchio muro di pietra che spartiva i due cortili e gli orti. Tale muro aveva un’apertura che permetteva agli abitanti delle due case di comunicare senza uscire dalle proprietà e passare sulla strada.

Quel pertugio aveva permesso, nell’inverno del 1955, di far transitare cibo caldo da casa Viscioli a casa Ghepardi, perché la nonna Adelina si era ammalata di pleurite e non poté alzarsi dal letto per due mesi.

Il muro di mattoni rossi era abitato d’estate da ragni, gechi e lucertole e d’inverno da muschio spesso che andava benissimo per il presepio ed era magnifico da accarezzare, trasmetteva alle mani una bella sensazione di morbido, fresco e vivo, tutt’assieme. Attaccate ai mattoni c’erano anche le felci e alcuni ciuffi d’erba particolarmente resistenti all’umidità estiva e al rigore di quegli inverni padani.

Mi ricordo anch’io quel muro. Peccato che ero troppo piccola per coglierne il valore e soprattutto per memorizzare ogni dettaglio di quella vecchia costruzione. Non sapevo che a un certo punto sarebbe stato sostituito da un muro squadrato, perpendicolare al terreno, dritto e di cemento armato. Tutt’altra storia iniziata molti anni dopo.

Nel 1959 molte vicende erano già state raccontate e nascoste da quelle mura. Tante persone avevano pianto e riso guardandosi nel buco che metteva in comunicazione le due case. Tanti drammi si erano consumati mentre quei mattoni invecchiavano e perdevano un po’ di polvere rossa ogni giorno, ogni mese, ogni anno.

L’erosione del tempo aveva attribuito a quel muro la sua stravagante forma, con alcune parti un po’ più scavate e bitorzolute e con alcuni fori che permettevano visioni surreali e parziali della vita tumultuosa che si svolgeva aldilà e aldiquà di quel confine.

I confini sanciscono sempre delle separazioni e ciò che trova unità oltre la frattura è come se fosse sempre un po’ zoppo, fragile e insicuro. I confini spezzano legami che altrimenti potrebbero essere parentali e amicali per farli diventare cordiali e rispettosi, nel migliore dei casi.

Il clan, la famiglia e la tribù ergono muri per riconoscere i vincoli interni e attribuire loro essenzialità e, allo stesso tempo, per conferire a ciò che resta fuori, un maggiore carattere di precarietà e una decisa connotazione di superfluità.

Carolina

Carolina Viscioli era la più vecchia delle tre sorelle che abitavano aldilà del muro. Anche la più “bruttarella”, purtroppo. Aveva gli occhi sporgenti e le gambe storte.

Per quella strana forma dei suoi arti inferiori, camminava sempre un po’ traballante e con le gambe un po’ aperte. Sembrava che ogni giorno inaugurasse una specie di marcia personale per la riconquista di casa Viscioli quando, di fatto, non c’era nulla da conquistare se non i sorrisi della gente e l’indifferenza delle sue sorelle.

Questo suo aspetto poco invitante non era migliorato dai suoi modi un po’ rozzi. Diceva un sacco di parolacce e quando litigava con una delle sue sorelle le aggrediva verbalmente con insulti di vario genere. Amava particolarmente la parola “scema”.

Sei scema! Sei una scema! Scema, di una scema, di una scema, di una scema”. Questo era il suo improperio preferito quando le budella della vacca non erano ben pulite e bisognava ripulirle.

Le Viscioli facevano le macellaie. Avevano ereditato il negozio e la macelleria dal papà e avevano continuato la professione con un discreto successo, sufficiente per garantire loro una vita senza preoccupazioni economiche.

“Brutta scema, brutta scema, brutta scema” andava ripetendo Carolina, e intanto il tempo passava tra una vacca da macellare, dei pezzi di carne da vendere e qualche osso di mucca o ala di pollo da far bollire, per preparare enormi pentoloni di brodo che servivano per i pranzi della sua famiglia e per quelli di molte altre famiglie bisognose, che loro aiutavano.

Le Viscioli erano persone generose e, soprattutto di quei tempi, le persone che ricorrevano a loro per necessità impellenti, quali trovare un pranzo per i figli, tante.

L’orologio

Carolina da giovane aveva avuto un amante. Un gerarca fascista le aveva promesso la felicità appena prima di dover partire per Roma e non farsi mai più vedere. E pensare che la povera Carolina gli aveva regalato un bell’orologio d’oro per il viaggio, convinta che l’avrebbe riabbracciato presto.

Era andata in una oreficeria di Casalrossano, con il cavallo e il biroccio di famiglia, e si era fatta consigliare dal gioielliere per sceglierne uno davvero bello, adatto al ruolo pubblico del suo innamorato. Uno orologio d’oro giallo, con il quadrante rotondo e il cinturino a maglia. Tutto luccicante.

Regalato l’orologio e sparito il nuovo proprietario fu un tutt’uno e la povera donna si trovò senza futuro, felice e alleggerita dei suoi risparmi in un batter d’ali. “Scemo, di uno scemo, di uno scemo, crepa sulla forca.” E così la storia era stata dimenticata e non si sapeva se ce ne fossero mai state altre, sicuramente non erano mai stati acquistati altri orologi da regalare.

D’estate andava sempre in giro con delle vestaglie a fiorellini e le ciabatte. Aveva sempre la pelle un po’ arrossata e screpolata e usava la nivea per non peggiorare la situazione.

I capelli erano rossicci e tagliati corti. Sulla sua testa non ci stavano i riccioli e nemmeno le piacevano i capelli raccolti in eleganti chignon sulla nuca, come la maggioranza delle signorine benestanti portava allora. Li portava semplicemente così com’erano, tagliati corti e diritti sulla testa.

Il dito

Le mancava anche la falange di un dito, era stata troncata di netto da uno di quegli enormi e affilatissimi coltelli che lei usava tutti i giorni. La povera falange era finita sottoterra nell’orto. Non esistevano contenitori per lo smaltimento dei rifiuti speciali e non esistevano reparti chirurgici in grado di riattaccare dita, come invece succede adesso.

A volte la nonna Adelina raccontava la storia di quel dito mozzato della povera Carolina e diceva sempre che era stata una brutta giornata, che si erano spaventati tutti e che purtroppo non si era potuto fare niente, se non darle delle gocce di laudano, l’unico antidolorifico disponibile.

Poi era arrivato il medico condotto e le aveva dato alcuni punti di sutura, le aveva fasciato la parte di dito rimasto e l’aveva mestamente salutata dicendo che sarebbe tornato il giorno dopo per vedere come stava.

Le aveva anche detto di non preoccuparsi se aveva l’impressione che il suo dito ci fosse ancora tutto. Le terminazioni nervose non si rassegnano subito alla nuova situazione e simulano la parte mancate, creando così una dolorosa illusione. La povera macellaia patì così tanto male, che per una settimana non disse più nemmeno una parolaccia, con molta preoccupazione di tutti.

Le scoperte della medicina, sugli antidolorifici e le cure palliative, sono una testimonianza tangibile del progresso dell’umanità, una delle cose di cui andare davvero fieri. Gli eccessi di dolore non temprano e non migliorano nessuno, semplicemente lo fanno star male e gli rovinano la vita, l’autostima e le aspettative per il futuro.

A Carolina erano stati destinati i lavori più pesanti della macelleria: segare ossa, lavare la trippa e d’inverno, quando faceva un freddo cane, andare avanti e indietro dalla cella frigorifera per prendere i pezzi di vacca che servivano in negozio. Si caricava degli interi quarti di mucca congelata sulle spalle e li portava nel retrobottega dove venivano ridotti, con seghe e coltelli, a porzioni adatte alle famiglie Cremantellesi.

Non ho mai saputo quale fosse il motivo di quella spartizione dei lavori ma di certo alla povera Carolina non era capitato il meglio e, se a volte se la prendeva col mondo, qualche ragione l’aveva. E’ spesso così, le persone più incattivite con la vita sono quelle che la vita non ha trattato bene.

A Carolina piaceva ascoltare la radio, in modo particolare la politica e poi ingaggiava con le sue sorelle e anche con altre persone disposte ad ascoltarla, delle discussioni su quei temi di res publica a lei particolarmente cari.

Una volta, presa dalla rabbia per un discorso politico che non le era affatto piaciuto, aveva disintegrata la radio a terra e, quando le fu chiesto che cosa fosse stato a farla arrabbiare, la risposta era stata: – Non capiscono niente quei cretini – e nulla più.

2022 – Cremantello

Ancora adesso, nel 2022, la casa è là con tutti i suoi muri e le sue tante finestre, ma le tre sorelle Viscioli sono morte da molto tempo.

Tutti i miei parenti si ricordano molto bene quelle tre signorine, in modo particolare le mie cugine Ines e Bella che, essendo vissute sempre a Cremantello, le hanno frequentate fino agli ultimi momenti della loro lunga vita.

Suor Guenda è andata al funerale di Carolina e, per nulla turbata dalle parolacce che si ricordava di averle sentito dire, ha pregato in silenzio per la sua anima.

Del resto, un po’ di ragione Carolina l’aveva. Non tutto a questo mondo è bello e qualche cretino, sulla strada della vita, lo si trova sempre: “Scemo, di uno scemo, di uno scemo!”.

N.d.A. I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore.

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Costanza Del Re

E’ una scrittrice lombarda che racconta della vita della sua famiglia e della gente del suo paese, facendo viaggi avanti e indietro nel tempo. Con la Costanza piccola e lei stessa novantenne, si vive la storia di un’epoca con le sue infinite contraddizioni, i suoi drammi ma anche con le sue gioie e straordinarie scoperte.

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