Kimia Yousofi, Julio Velasco: come fare politica senza essere politici
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Kimia Yousofi, Julio Velasco: come fare politica senza essere politici.
Di Imane Khelif, ora fresca medaglia d’oro del pugilato algerino, questo giornale si è già occupato qui. Oltre a lei, ci sono altre due figure dell’Olimpiade di Parigi appena terminata che si stagliano nette sopra l’orizzonte virtuale di Periscopio.
La prima è quella di Kimia Yousofi, atleta afgana portata a Parigi dalla federazione australiana, nazione dove vive attualmente. Nel 2021 a Tokyo aveva fatto da portabandiera ufficiale dell’Afghanistan. Subito dopo la fine di quelle Olimpiadi, il suo paese tornò nelle mani oscurantiste e feroci dei talebani. A Parigi è stata eletta nuovamente portabandiera del suo paese, ma stavolta ad opera di un “comitato olimpico afghano” in esilio, ed ha corso una batteria dei 100 metri arrivando nettamente ultima. Al termine della gara, ha rovesciato il pettorale e, a favore delle telecamere, ha mostrato cosa ci aveva scritto sopra: “Istruzione, i nostri diritti“. Ai microfoni ha poi rincarato la dose: “Non mi sono mai occupata di politica, faccio solo ciò che ritengo sia vero e giusto. Posso parlare con i media. Posso essere la voce delle ragazze afghane. Posso dire cosa vogliono: vogliono diritti fondamentali, istruzione e sport. Questa è la mia bandiera, questo è il mio paese”.
Attraverso un gesto elementare come scrivere quattro parole a penna, Kimia Yousofi ha compiuto un atto politico di portata enorme. Ha utilizzato un palcoscenico globale per rivendicare quello che le donne afghane chiedono ma senza poterlo fare, se non a rischio della vita. Ha riacceso un faro sulla tragica situazione dell’Afghanistan, del quale i media mainstream non parlano più da quando il potere è tornato ad essere talebano. La potenza del suo gesto è paragonabile a quella, forse ancora più dirompente, di Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo per gli Stati Uniti ai 200 metri maschili delle Olimpiadi del 1968, che alzarono un pugno chiuso guantato di nero sul podio durante l’inno americano. “Quei pugni alzati erano dedicati a tutti quelli che erano a casa, nei quartieri poveri di Chicago, Oakland e Detroit, a chi stava nel Queens e a Brooklyn, a tutti i fratelli e le sorelle, i padri e le madri a Birmingham, Atlanta, Dallas, Houston, St Louis, New Orleans” dichiarò Tommie Smith nella sua autobiografia. Il gesto è del 16 ottobre: ricordiamo che il 4 aprile dello stesso anno fu assassinato Martin Luther King.
Uno dei propositi dichiarati di Periscopio è quello di fare un’informazione “verticale”. Tecnicamente, nel gergo aziendale, la comunicazione verticale è quella che trasmette informazioni tra diversi livelli della struttura organizzativa. Julio Velasco, allenatore della nazionale femminile di pallavolo vincitrice dell’oro a Parigi, è un esperto di comunicazione verticale. Talmente esperto che molte aziende lo chiamano per tenere seminari ai capi su come si costruisce e si gestisce un gruppo di lavoro.
La stampa e i media sono intasati in questi giorni soprattutto dal riportato delle frasi di Velasco, che vengono circondate da un’aura profetica che lo accredita come una sorta di santone laico: etichetta che lo stesso coach argentino si incarica di togliersi di dosso, ogni volta che riafferma il contrario di quello che gli vorrebbero mettere in bocca i giornalisti: che non è un maestro di vita; che non ha chiuso nessun cerchio, non avendo rimuginato affatto in questi anni sulla circostanza di non avere ancora vinto un’Olimpiade; che la stampa italiana deve piantarla di nutrire un’ossessione per la vittoria che genera solo ansia. Un elemento di curiosità nella storia dell’argentino trapiantato in Italia è sicuramente il passaggio da militante comunista negli anni immediatamente precedenti l’avvento della sanguinaria dittatura di Videla, a “precettore” di manager che vogliono carpire dalle sue labbra i segreti per essere un buon leader. Il cerchio che si chiude allora potrebbe essere: da precettore destituito (ai tempi di Videla, per ragioni politiche) a precettore osannato (e ben pagato) dai padroni del vapore. Infatti sospetto che, più che nella filosofia – se uno ha studiato filosofia non deve essere per forza il nuovo Immanuel Kant – lui eccella in senso pratico. Alla domanda su come si sopravvive alla dittatura, risponde: “Dipende dal tipo di dittatura. Innanzitutto, non bisogna mai perdere le misure di sicurezza, altrimenti si rischia di non raccontarla. In Argentina, molta della gente uccisa le aveva sottovalutate. Ad esempio, mio fratello fu preso a casa di mia madre. Non militava più e si sentiva sicuro. Sbagliava. In secondo luogo, resistere. Non solo politicamente. Nelle piccole cose. Bisogna sforzarsi di non diventare come gli altri, come quelli che fanno da sostegno alle dittature. Quindi è fondamentale essere onesti e accettare le differenze. Di ogni tipo”. Accettare e comprendere le differenze, altra dimostrazione di pragmatismo: una volta capito che certe leve (ad esempio, l’orgoglio) funzionavano sui maschi ma non sulle femmine ha avuto l’intelligenza di cambiare approccio, investendo energie sulla componente affettiva e togliendo un po’ della polvere dei secoli di educazione patriarcale che condizionano l’agire femminile: la donna non deve rischiare, e non deve fare errori (altro motivo per non rischiare). L’autorevolezza che gli viene riconosciuta ben oltre i suoi eccellenti trascorsi agonistici, deriva anche dal fatto di saper ascoltare e modulare le proprie convinzioni sulla situazione concreta. Come è tipico delle grandi personalità (e quindi anche raro), mentre è lui che esce da se stesso per incontrare l’altro (per usare le sue parole), sembra essere il mondo ad andare verso Velasco.
La cosa che mi sento di rimproverare non a lui, che appare davvero una magnifica persona, ma al velaschismo modaiolo aziendalista, è che quello che è riuscito a fare con le azzurre di volley, ovvero cementare un gruppo lacerato da alcuni ego ipertrofici, può essere un ottimo insegnamento anche per le aziende, a condizione che si comprenda che un’azienda non è una squadra di pallavolo o di calcio, e che la competizione aziendale non equivale alla competizione agonistica. Quando Velasco racconta ai manager che teneva bassi i compensi fissi e massimizzava i premi di risultato per selezionare i giocatori sulla base della loro disponibilità incondizionata – cioè non condizionata da un compenso economico sicuro – un brivido mi corre lungo la schiena: non per disistima verso l’oratore, ma per la capacità di equivocare del suo uditorio. L’aneddoto ha senso in un contesto agonistico in cui la performance è parte integrante del contenuto della prestazione, ma può essere molto pericoloso se calato bovinamente nelle aziende: ci sono già troppi fenomeni che rappresentano il lavoro quotidiano come un torneo, dove però a vincere sono solo gli amministratori delegati e i grandi azionisti.
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Nicola Cavallini
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