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Olimpiadi 2024, Imane Khelif e Angela Carini: l’incolumità va tutelata, ma nella competizione sportiva la parità non esiste.

 

Imane Khelif è una pugile algerina iperandrogina: il suo corpo produce troppo testosterone. Si vocifera anche che abbia un’anomalia cromosomica (genotipo). Quel che pare certo è che il suo fenotipo è femminile: una femmina con tratti somatici mascolini, ma una femmina. Nel suo sport ha vinto molti incontri e ne ha persi alcuni. Quando ha perso, di solito ha perso contro donne non testosteroniche ma molto talentuose, tra le più forti della categoria. La prima domanda che mi sono fatto a proposito di questa atleta è: contro chi dovrebbe combattere? Maschi? O forse bisognerebbe creare una categoria di atlete con le stesse caratteristiche, che possono gareggiare solo tra di loro? (parliamo di un due per cento della popolazione mondiale)

Angela Carini è una pugile italiana. Ha partecipato a due Olimpiadi, quella di Tokyo e questa di Parigi, quindi è forte, si è allenata duramente, e solo per questo merita rispetto, non parole a vanvera. E’ salita sul ring olimpico contro Imane Khelif, ha preso due pugni molto forti sul naso, e ha deciso che era meglio salvaguardare la propria integrità fisica che combattere fino alla fine. Dopo circa 45 secondi ha gettato la spugna. La prima domanda che mi sono fatto a proposito di questa atleta è: quanto deve esserle costato abbandonare il ring olimpico dopo i sacrifici che avrà fatto negli anni per salirci?

Entrambe sono domande sbagliate, perché non contengono un giudizio. Il dibattito pubblico deve contenere invece due cose: l’indignazione morale manifestata dall’alto di qualche pulpito e la pulsione di sputare sentenze. Intanto sono ricomparsi tutti gli specialisti che hanno preso la pergamena su Google. Poi si sono subito create le tifoserie: a destra i difensori della donna italiana, a sinistra i paladini dell’inclusione. Questi dibattiti prima esplodevano al bar, adesso sui social, dove invece di partecipare in cinque partecipano da cinque a cinque milioni di individui: tutti genetisti, endocrinologi, fisioterapisti, ex pugilisti, dietrologi. La moltiplicazione dei pareri – spesso puri rimbalzi di stentoree filippiche altrui – e delle reazioni non produce una maggiore profondità di pensiero: è semplicemente come un sasso nello stagno che fa tanti cerchi invece che pochi, perché lo stagno è un mare, ma il sasso è sempre quello. Non una pietra preziosa, non una gemma. A Ferrara si direbbe un parduz. 

Per leggere un pezzo davvero interessante sul tema dell’intersessualità nello sport, consiglio di andarsi a leggere Ruth Padawer qui.

Per leggere parole in libertà invece spaziate pure da X a Facebook. Le affermazioni maggiormente prive di senso sono quelle che sostengono di prendere le mosse da un “principio”: bisogna che la competizione si svolga su un piano di parità. Quindi a Fausto Coppi, il cui cuore batteva trenta volte al minuto, dovevano proibire di salire su una bici da corsa. Quindi Michael Phelps, apertura di braccia due metri, mani come piatti da cucina, piede 48,5, non avrebbe mai dovuto mettere piede in una piscina. Idem Roland Matthes, che aveva una struttura ossea più leggera che gli consentiva di galleggiare come un sughero, e divenne il più forte dorsista della storia. Un ciclista che, senza doparsi, ha valori di ematocrito superiori agli altri e quindi organi più ossigenati e maggiore resistenza alla fatica, dovrebbe essere bandito dalle corse?

Quando mai una competizione sportiva si svolge su “un piano di parità”? Lo sport è crudele. La natura è spietata, brutale. Il doping non esiste solo per massimizzare il rendimento del singolo atleta: assolve (anche) all’esigenza di colmare un divario che la natura ha creato tra un atleta fisiologicamente più dotato e uno meno dotato. Chiunque fa sport anche a livelli dilettantistici sa che esistono i propri limiti individuali. Poi esiste l’ avversario rispetto al quale puoi essere nelle condizioni di allenamento ottimali, e nonostante questo sai che non riuscirai mai a raggiungerlo, a batterlo, a toccare il suo limite. Ci indigniamo quando scopriamo che un atleta si dopa per migliorare la propria prestazione, perché usa un trucco per avere un vantaggio rispetto agli altri. A parte che la storia della lotta al doping dimostra spesso che ciò che è considerato doping adesso, non era considerato doping prima. Quel che è indiscutibile, è che la “parità” di partenza non esiste: è la natura stessa che crea la disparità. C’è chi cerca di colmare o ridurre il proprio gap attraverso l’allenamento, c’è chi misura le prestazioni e aiuta a trovare il proprio limite un gradino più in alto di quanto l’atleta pensasse (suggerisco al proposito di leggere una bella intervista a Francesco Conconi, che è stato due volte Rettore dell’Università di Ferrara, qui)

Nel caso Khelif – Carini, questa disparità ha rischiato di fare danni all’incolumità della Carini, che ha ritenuto di abbandonare l’incontro. Evidentemente ha sentito che non avrebbe mai potuto vincere, e ha deciso di non farsi anche fisicamente danneggiare. Rispetto per lei (che non hanno quelli che la accusano di essere una commediante e quelli che la eleggono a paladina dei diritti delle donne) e per le sue parole del dopo gara, in cui ha augurato di vincere le Olimpiadi alla sua rivale sportiva e ha detto che non è suo compito giudicare. La tutela dell’incolumità delle atlete è un valore centrale: quindi, in sport di contatto come la boxe, stabilire un tetto al testosterone “naturale” prodotto da una atleta ha senso in funzione di questa finalità. Se la si mette sul piano delle “pari opportunità”, il palco cade: è la natura che consegna opportunità dispari, ad ognuno di noi.

La storia delle persone non si esaurisce nella competizione sportiva cui prendono parte, per quanto importante (per loro, in primis). La stessa caratteristica che conferisce a Imane Khelif un vantaggio competitivo nel suo sport, le ha causato e le causerà un bel po’ di problemi in altri campi della vita. Dovrà essere più forte come persona che come pugile.

 

 

Photo cover tratta dal profilo Instagram di Imane Khelif.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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