“Sarebbe un errore incasellare gli adolescenti di adesso come se fossero tutti degli hikikomori”, ammonisce Nicola Cavallini nell’articolo “Il virtuale è reale: non è vero che i ragazzi non comunicano più”, che reagisce a quello di Mauro Presini: “Che cosa APPrenderanno?”, entrambi apparsi su Periscopio qualche giorno fa. Mauro Presini esprimeva preoccupazione e critica alla vista di bambine e ragazzi insieme al ristorante, ma ognuna assorbita dal proprio telefono in apparente isolamento dagli altri. Compresenza fisica ma assenza di comunicazione.
Voglio dire la mia, in difesa dei ragazzi e delle ragazze, con questo articolo, e in difesa dei genitori, nel prossimo.
Condivido essenzialmente il discorso di Nicola Cavallini ma penso che la figura dell’hikikomori, da lui evocata, meriti una precisazione che può servire anche a rassicurare sull’uso della rete: questi ragazzi e ragazze si isolano, ma non per attrazione di Internet, al contrario, lo fanno per rifiuto delle convenzioni sociali che li vogliono tutti omologati, competitivi e performanti.
Si isolano per timore di non farcela, perché non si vedono corrispondenti alle richieste sociali. Su Internet le relazioni non hanno bisogno di un corpo prestante, né di mettersi visivamente in mostra, basta la mente, basta la tua vera anima e puoi sperimentare quanto ti pare, fino a trovare la tua identità autentica e coloro che, simili a te, la apprezzano. Internet è cura, in questo caso, non malattia. La rete consente di allacciare delle relazioni che non sono virtuali ma reali, concretamente affettive. Anche se la carne e le ossa sono lontane all’inizio, poi con il tempo si possono organizzare viaggi e incontri di persona che portano all’uscita dall’isolamento.
Per saperne di più, il sito Hikikomori Italia, indicato nell’articolo, è quello giusto, nel senso che è quello di riferimento per le famiglie che hanno un figlio o una figlia in isolamento sociale, quello che dà le indicazioni più corrette, che offre una chat per genitori molto utile, che lavora con le istituzioni e le scuole, che è collegato ad una associazione che coordina gruppi di auto aiuto locali.
Concordo con Nicola Cavallini sul fatto che la rete offra altri linguaggi e altre modalità di stare in relazione, ma confesso che l’ho appreso in un secondo tempo, quando ho dovuto confrontarmi con un problema reale e doloroso. D’altronde sono d’accordo anche sul fatto che basti pensare alle stesse nostre abitudini di adulti: personalmente non ho mai scritto e non ho mai espresso pubblicamente le mie opinioni tanto quanto negli ultimi due anni in cui sono in pensione ed ho tempo di frequentare Facebook e i social, dove non riesco a trattenermi dall’intervenire su temi per me scottanti. Come sto facendo in questo momento.
Di questo attivismo digitale fa parte anche la creazione del blog, unascuolafuoriclasse.it, dove provo a condividere i miei approfondimenti con insegnanti e genitori, convinta che occorra operare quel dislocamento del punto di vista a cui ci sollecita Nicola Cavallini. Con questo non intendo dire che non condivido quello che scrive Mauro Presini, ma penso che sia rischioso limitare il discorso alla sola osservazione o, peggio, dargli una connotazione moralistica individuale, la responsabilità dei genitori, oppure riferirsi solo ai pericoli della modernità.
Ci fu qualche mese fa a Tutta la Città Ne Parla, su Radio3, una puntata dedicata ai pericoli della rete.
Entrambi gli specialisti, Federico Tonioni, psichiatra, responsabile, al Policlinico Gemelli di Roma del centro pediatrico che si occupa di dipendenza da Internet, e Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, docente universitario, esperto della dipendenza da Internet in adolescenza, dopo mezz’ora di trasmissione in cui giornalisti e altri intervenuti avevano parlato del web come origine del disagio e della necessità di controllare, proibire, correggere, poterono finalmente confutare tutto il discorso: non è la rete che va vietata, sono gli adulti che si devono attrezzare, ascoltando, dando spazio, cambiando la scuola perché, come dice Nicola Cavallini, non si può pretendere di continuare a chiedere ai e alle giovani di adattarsi a una didattica obsoleta dicendo loro che altrimenti sono sbagliati.
Matteo Lancini provocatoriamente afferma che Internet dovrebbe essere proibito ai maggiori di trent’anni, mentre le scuole dovrebbero essere tutte connesse e ogni alunna e alunno dovrebbe poter navigare liberamente per costruire il proprio sapere. Lui, dice, odia i social, e viene rimproverato dai suoi editori per questo, ma la società, adulta, funziona solo su di essi, salvo volerli proibire ai giovani. Mi permetto un aneddoto, che mi consente anche di indicare all’attenzione un suo memorabile intervento, un accorato, indignato, sarcastico appello proprio contro la proibizione del telefonino a scuola. Il video lo trovate su Linkedin, che forse qualcuna di voi non riuscirà nemmeno a raggiungere perché non è un social molto usato. Mi ha divertito leggervi sotto un commento che, appunto, faceva notare che purtroppo pochi avrebbero visto quel video. Penso proprio che Lancini lo abbia fatto nell’impeto del dolore per quella vicenda, usando l’unico strumento che aveva a disposizione, essendo poco pratico di dispositivi. Da esperto, sostiene anche che non esiste la dipendenza da Internet come diagnosi, nel senso che gli specialisti non riescono ad individuare parametri incontrovertibili per definirne le eventuali caratteristiche.
Anche nella trasmissione di Tutta la Città Ne Parla, Lancini ha ripetuto la sua convinzione di doversi occupare degli adulti, che sono fragili, in difficoltà e che riversano il loro bisogno di sicurezza sui figli e sulle figlie, le quali devono confermare loro che sono bravi genitori, non mostrando la propria sofferenza. Di questo tratta il suo libro L’età tradita, un testo divulgativo che rovescia i luoghi comuni sui giovani e analizza le storture sociali che li condannano.
Cosa deve fare un genitore allora? Dovrebbe essere capace di aiutare a tollerare il fallimento: ce lo vedete uno che ne sia capace? Nel libro infatti si inquadra uno stile educativo genitoriale diffuso che ne è lontano. Ma lo è anche la scuola: non solo istituzionalmente, con il rilievo dato al merito, quindi al risultato, alla performance, anziché al percorso, all’unicità, ma anche con la pratica convinta degli e delle insegnanti di una didattica trasmissiva, omologante e classificante, che non rispetta i tempi, le modalità di apprendimento personali, che non apprezza la ricerca, che non insegna a farsi domande, ma solo a rispondere a domande, fatte da altri, con una ripetizione pedissequa di ciò che viene presentato, già preconfezionato.
Tutto ciò si scontra con i veri bisogni delle e degli adolescenti, che necessitano di misurarsi, di mettersi alla prova, di sbagliare per capire quale direzione prendere e imparare ad apprezzarsi, senza essere immediatamente declassificati o cancellati dai registri irrimediabilmente. Occorre vedere il vero valore dei giovani, senza giudicare quanto diversi siano da noi, ma scoprire e riconoscere quello che valgono veramente, interessandoci alle loro modalità per quanto a noi ignote o apparentemente futili.
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Daniela Cataldo
Commenti (4)
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Grazie Daniela per l intervento preciso e “appassionato”. Azzardo una richiesta un po’ provocatoria, in nome di quella dislocazione del pensiero evocata da Cavallini : se è vero che in primis è la scuola come ente educativo primario che deve cambiare, non si salva nulla del corpo insegnante? Perché con questo devi comunque ripartire!
Penso che la scuola sia così, se presa nel suo insieme. Comunque non lo rilevo solo io, riferivo anche ciò che ho sentito da Daniela Lucangeli, Matteo Lancini, Federico Tonioni, Giovanni Fioravanti, Marco Crepaldi…. Le singole e i singoli insegnanti che lavorano in modo eccellente, che costruiscono realtà interessanti, fanno purtroppo fatica a fare la differenza, perchè sono troppo isolati nel loro contesto. Comunque, io stessa non ho trovato facile arrivare a queste riflessioni, che obbligano a mettere da parte tutte le certezze su cui un’insegnante, un genitore, fa riferimento e che richiedono altresì di stare vicino al dolore dei ragazzi, cosa che non è per nulla semplice. Nella scuola italiana manca la formazione: gli insegnanti sono eccezionali dal punto di vista disciplinare, ma nessuno richiede loro di sapere alcunché sull’adolescenza o sulle scienze dell’educazione o psicologiche.
Riflessione profonda, documentata ed equilibrata, che mi offre tanti spunti. Grazie Daniela.
Bellissimo articolo Daniela e perfettamente centrato. L’ossessione degli adulti di “educare” i giovani, in quanto non adulti, sta all’origine del fallimento come genitori e come scuola. Ma questo ahimè è ancora il format che prevale.
Cambiare il paradigma, questo è il problema! Ma articoli, come questo tuo, lasciano aperta la porta alla speranza.