NOI NON SIAMO UN TEMA
Vorrei approfondire alcune osservazioni emerse nel bellissimo articolo di Francesca Marcellan del 7 dicembre ”Se il femminicidio è un tabù linguistico” [Vedi qui].
Ovviamente non è solo un tabù a livello linguistico, come abbiamo potuto notare nelle omelie dei funerali in diretta televisiva, sostituito dalle più accettabili ed edulcorate espressioni “negazione della vita” e “immane tragedia”, ma lo è a livello di legittimazione esistenziale.
A buon ragione perché il termine é stato coniato negli anni ’90 dall’antropologa messicana Marcela Lagarde, per indicare la manifestazione estrema della violenza di genere, cioè la soppressione fisica violenta di una femmina da parte di un maschio. Termine dal connotato semantico orribile, difficilmente accettabile, in quanto prerogativa quasi esclusiva dell’homo sapiens contemporaneo, dato che le specie animali non ammazzano le femmine, se non in casi rarissimi.
Questo tipo di violenza , per rientrare nella categoria “femminicidio” deve proprio essere l’omicidio di una donna, in quanto donna, da parte di un maschio, mentre la morti femminili per altri motivi (rapina, mafia ecc.) rientrano nelle categorie più generiche della criminalità.
Il monitoraggio del fenomeno – a partire dalla Convenzione europea di Istanbul dell’11 maggio 2011, a cui l’Italia ha subito aderito – ha dato risultati estremamente preoccupanti, in quanto stabili nella ripetitività, spingendo le istituzioni a definirlo un elemento strutturale della nostra società e, dopo 179 femminicidi del 2013, a varare la legge n. 93 del 2013, che prevede alcune misure di prevenzione (centri antiviolenza , codice rosso, case protette, ecc,).
La parola femminicidio è quindi un relativo neologismo, mai del tutto accettato a livello semantico, o considerato un fenomeno marginale, calcolando in percentuale il numero di maschi che uccidono le femmine rispetto alla popolazione italiana globale. Il ragionamento contiene un evidente errore di valutazione della gravità della situazione, perché è come sostenere che le morti sul lavoro sono poche rispetto al numero dei lavoratori attivi.
Negazione della parola che corrisponde quindi alla negazione di un fenomeno esistente, stabile e aberrante.
Anche la parola femminismo subisce la stessa sorte di disconoscimento, occultamento, generalizzazione superficiale.
Anche il femminismo è un tabù quindi? In parte direi di sì. Si riferisce a qualcosa di inesistente al singolare, in quanto il pensiero teorico femminista si è autodefinito un movimento plurale, dinamico, contestualizzato storicamente.
Esistono i femminismi, non il femminismo. Diacronicamente e sincronicamene possiamo citare il femminismo emancipazionista, il femminismo della differenza, il femminismo LGBT, il femminismo queer, solo per dirne alcuni.
Quindi se devo dare una definizione personale del femminismo sono costretta ad utilizzare quella che in campo teologico è definita la “teologia negativa”. Come di Dio si può dire solo quello che non è, rispetto agli stereotipi dell’immaginario maschile posso solo indicare quello che non siamo: le femministe non sono tutte brutte, non sono tutte lesbiche, non sono tutte arriviste, non sono tutte aggressive.
Ma specialmente. non siamo un TEMA, da inserire nei programmi di partito, nelle commissioni di partiti e movimenti, nella associazioni, nelle trasmissioni televisive. Magari vicino agli ambientalisti, agli animalisti, ai salutisti, ai negazionisti…
Non siamo un tema , siamo uno sguardo sul mondo, un parola che taglia, un corpo che conta.
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Eleonora Graziani
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