Niente da vedere. Cronache del Polesine ed altri spazi sconfinati
Il libro-documentario di Sandro Abruzzese
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Niente da vedere. Cronache del Polesine ed altri spazi sconfinati. Il libro-documentario di Sandro Abruzzese
L’ultimo libro-documentario di Sandro Abruzzese e Marco Belli Niente da vedere, pubblicato nella collana Che ci faccio qui di Rubbettino è un sofisticato esercizio di traduzione. Dietro (o avanti) la raccolta di Cronache del Polesine ed altri spazi sconfinati, come recita il sottotitolo, si nasconde altro, anzi si vede tutto il resto.
Questa narrazione foto-letteraria dei due autori a me è subito apparsa come un manifesto sul tema della “traduzione della realtà” in immagini o in parole.
Già dai titoli dei capitoli si coglie questa particolarità: l’istituirsi nel libro e grazie al libro di un intreccio, tra quelle “cose” che non vediamo ma che tentiamo di tradurre grazie ai linguaggi, con quelle altre “cose” che pur vedendole “concretamente”, non riusciamo a tradurre in alcun modo.
Forse appartiene solo alla poesia questa capacità di complementare questi due aspetti e creare l’intreccio del quale parlo; una poesia, per esempio, come quella di Angelo Andreotti, poeta di questi stessi spazi:
Così ogni transito, come ogni tragitto,
è sempre un attraversare alla cieca
un passaggio dal noto all’ignoto,
e ignoto è anche il passo che ancora
non tocca pietra. E tuttavia, sempre,
tutto ha più di una sintassi.
Il percorso non è mai lo stesso
il ruscello dissotterra le pietre
cambia l’assetto del camminamento
e la tenuta non è più sicura.
Si va a intuito. Si valuta.
Si sceglie, ma ogni giudizio
è una scommessa dall’esito incerto
comunque ineluttabile.
[Da Pietre di passo, pg.11, puntoacapo Editrice, 2023]
Tornando alla composizione fotografica di Belli e alla paratassi testuale di Abruzzese si ha questa stessa impressione di transito, quasi gli autori volessero spingerci continuamente a (ri)attraversare vere e proprie cornici narrative nella loro aspirazione (poetica) di sparire nell’azione.
Sono queste cornici, non necessariamente fisiche, che predispongono noi osservatori/lettori davanti allo scatto o al testo, quasi a invitarci a un posizionamento, mediante una inversione tra figura e sfondo, tra verticale e orizzontale, tra visione (reale o immaginaria) e linguaggio.
Un elemento compositivo questo, il cosiddetto doppio framing, che induce a ragionare sulla traduzione. In generale una cornice forza il posizionamento: si può guardare dentro o rimanere fuori, raccontare il sogno o solo osservarlo. Così come il fotografo che esita nello scatto per… farsi scattare; come fa l’autore nell’ascolto per… farsi parlare.
Le foto di Belli sono un buon esempio per chiarire il concetto.
Oltre al consueto formato fotografico, appare evidente in quasi tutte le foto una seconda cornice che, come insegna il magistero di Luigi Ghirri, necessariamente allinea e dirige lo sguardo. Quelle rappresentate da Belli sono però cornici… velate appositamente per evitare allo sguardo di indugiare su eventuali… interni: in questo modo non sembra esistere una realtà… nascosta, uno spazio successivo a quello mostrato. E forse neppure un tempo seguente.
No, la realtà è tutta lì esterna, ampia, aperta non ha bisogno di essere ulteriormente tradotta, così comprensibile quale è, quasi una visione onirica come quella di Kekulé che raccoglie l’intero saputo cosciente, tutto, e l’insaputo inconscio più di tutto. Una visione che spiega senza parlare. Un’ampia mappa che abbraccia l’intero territorio.
Come è noto la traduzione, in fotografia, è una operazione di esclusione: si esclude il resto del mondo per farne vedere solo un pezzettino. Ma qui si esaltano spazi sconfinati attraverso un piccolo scatto su piccole volumetrie chiuse o abbandonate.
A pg. 65 Abruzzese “confessa” il suo metodo di… traduzione: «…l’impreparazione è il motore del viaggio, guai a saperne qualcosa di più…Voglio dire che quando ci si prepara, non so come, ma si finisce per trovare solo conferme, oppure per vedere proprio ciò che avevamo studiato in precedenza e non altro. Per cui il mondo diventa un’ipotesi da verificare…».
Questi racconti quindi non sono un insieme di dati e di nozioni da sommare per dimostrare qualcosa (una nota realtà, una verità nascosta), ma tasselli di un puzzle necessari per comporre un immagine più grande, come quei volti giganteschi delle pubblicità formati da tantissime minuscole e irrisolvibili facce. L’espressione dell’enorme volto è il racconto delle singole espressioni. L’ampio spazio è formato da frammenti e la cornice piccola contiene, per così dire, quella più grande.
Bisogna tornare e ritornare sui singoli volti, muoversi lentamente tra le “foto tessere” (i singoli racconti), nel tentativo di ricomporre una realtà spaziale e dunque una fluidità temporale.
È attraverso questo gioco di doppie cornici – foto nella foto, racconti nel racconto – che la verità di questi luoghi resiste ad ogni cambiamento e in tal modo crea il fondamento di una presenza umana che pare sia qui per allontanarsi e contemporaneamente nascondersi, aprirsi in spazi sconfinati e ritirarsi nel filo di un campanile, esibirsi con sguardi invisibili e parole silenziose.
La verità è ciò che non possiamo cambiare e non possiamo tradurre, perché il cambiamento come la traduzione (in immagini o in parole) opera a posteriori una scrematura, una discriminazione che appartiene tanto alla foto che alla parola. La verità è proprio ciò che non possiamo vedere.
Ed è seguendo alla lettera il titolo del libro che gli autori ci aiutano almeno a non modificarla tale quale è. Non c’è niente da vedere perché la verità è tutta qui, in quello che non si può cambiare che non si può mostrare o raccontare: metaforicamente essa è la palude sulla quale stiamo e gli spazi infiniti tutto intorno.
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Giuseppe Ferrara
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