Michela Murgia: tra parole e realtà
È una questione assai complessa quella che riguarda la decisione della scrittrice Michela Murgia affidata ad una intervista ad Aldo Cazzullo apparsa sul Corriere della Sera del 6 maggio 2023: “Mi restano mesi. E adesso mi sposo così potrò decidere il mio futuro”. Il terribile dilemma che espone con una franchezza totale, che può essere condivisa o rifiutata, riporta il discorso al MALE quello che non si osa pronunciare e che ancora nella vita comune si evita di esplicitare: cancro.
Ho conosciuto in tempi lontani Michela Murgia, alla quale fu attribuito il premio Dessì, e ne ho riportato un’ottima impressione proprio a causa di una intelligenza che non si nasconde sotto gli orpelli (spesso necessari) di chi esercita, come direbbe Pavese, il mestiere di scrittore. I suoi romanzi non mi hanno entusiasmato, ma nemmeno deluso. Insomma, una pedina vincente nell’intricato gioco degli scacchi della scrittura.
Giudicare o in questo caso porsi dalla parte o meno delle sue decisioni non mi sembra debba essere il senso del problema, quanto invece diventa fondamentale “sdoganare” la parola proibita, consegnarla alla realtà, non averne paura ma, anzi, accettandola, non renderla destino o più classicamente fato.
Esaminando le dichiarazioni di chi si pone a fianco della decisione di Murgia, assumono un’importanza straordinaria quelle di due ‘persone pubbliche’ assai presenti nello scambio culturale odierno: Paolo Crepet e Dacia Maraini.
Di Crepet, psichiatra, vorrei sottolineare un passaggio del suo intervento:
“Le parole di Michela Murgia sono laiche, rivoluzionarie. Così rappresenta e fa parlare i morituri, a cui non si dà una voce. Abbiamo raccontato storie strane e assurde ai nostri bambini sulla morte dei nonni, così il momento della fine per cultura, per tradizione, deve restare velato. Lei ha tolto il velo al patibolo. E lo ha fatto parlando di sé stessa e per farlo ci vuole coraggio.”
A sua volta Dacia Maraini, a cui mi lega una lunghissima amicizia che si perde nella giovinezza passata sulle colline di Bellosguardo a Firenze, commenta:
” Sono d’accordo con Paolo Crepet che sulla Stampa ha chiamato rivoluzionarie le parole di Michela. Tante volte l’ho scritto anch’io: creare come centro e punto di riferimento della rivoluzione cristiana un uomo morente in croce, non ha fatto bene alla nostra cultura. Non parlo dell’oggi, tempo di post illuminismo, ma dei lunghi secoli di totalitarismo religioso in cui si è insistito sulla morte dolorosa come l’unico atto sacro della esistenza umana. Non a caso i mistici ma soprattutto le mistiche, per dimostrare il proprio amore per Gesù, si imponevano di morire di fame. La morte come espiazione di una vita comunque colpevole è stata per troppo tempo la base di un pensiero condiviso.”
Dell’affermazione mi preme commentare il periodo posto in neretto.
Mi è lecito ora riallacciarmi alla mia esperienza individuale e familiare su ciò che un tempo era chiamato “male incurabile” e come sono riuscito a superare attraverso (lo ammetto) l’esperienza e il metodo impostomi dalla cultura il divieto, la proibizione il “non detto”.
La morte di mia madre rivelò che nella famiglia poteva geneticamente insediarsi il ‘ brutto male’ e la risposta dopo pochi anni la ebbi quando anch’io ne fui colpito e, assistito dalla schiera di valorosi medici-amici, cominciai dopo l’operazione a chiarificare e chiarificarmi come potevo sulla mia lotta-accettazione del male.
Le sedute divennero possibilità di scambio, fino a interrogarmi con una punta di stupore come era straordinaria la sanità pubblica italiana che mi offriva un medicinale dai costi proibitivi per i privati totalmente gratuito, a differenza di altri sistemi sanitari europei e americani e come fosse necessario difenderla e sostenerla. Allora mi fu chiaro che dire “cancro” non significava più sottomettersi al fato, ma prenderne coscienza e da parola renderlo realtà.
Condivido dunque la decisione di Murgia, anche se non la seguo sulla sua individuale e privata “queer family”, così come la difesa di una sinistra che le fa pronunciare la frase forse più sbagliata di tutte, quella cioè che vorrebbe lasciare il mondo “quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio”, che ha dato alla presidente un’ottima occasione di mandarle messaggi di conforto e nello stesso tempo di rassicurarla che non ci sarà alcuna imminenza nel trapasso della scrittrice, in quanto il governo meloniano durerà molto a lungo!
Penso dunque che compito fondamentale della Murgia sia quello di scrivere. Non importa per quanto, ma scrivere la salverà dalla dimenticanza e dalla soggezione al cancro.
Qualunque commento sulla possibilità che l’intervista sia stata concessa per pubblicizzare il suo ultimo romanzo, Tre ciotole, è così miserabile che solo dei seguaci della infelicità mentale possono avanzarla.
Cover: Michela Murgia su licenza di Wikimedia commons
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Gianni Venturi
Commenti (2)
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Una cosa è certa: Michela Murgia nel dibattito ‘pubblico’ non si è mai nascosta. Talvolta lo ha fatto in modo quasi provocatorio, come volendo scientemente rappresentare un bersaglio, e in un paio di casi personalmente l’ho trovato un atteggiamento quasi forzato. Non la conosco di persona, la apprezzo come scrittrice per quel poco che ho letto di suo. Stavolta credo abbia fatto una cosa laica, infrangendo un tabù insensato e fonte di ulteriori sofferenze, oltre a quelle date da una malattia fisica.
Professor Venturi, sono rimasto perplesso leggendo l’intervista di Michela Murgia sul Corriere della Sera, e non era solo perplessità, la mia, era anche disappunto. Commento con lei, professore con affetto e stima, ricordando la sua bontà a recensire qualche libro mio e di miei famigliari. Può recensire anche le note che sto scrivendo. La Murgia è una scrittrice che ho molto apprezzato e mi è cara per la laicità e la vocazione a trattare argomenti che nella letteratura sono ancora tabù. Su questo mi sento vicino. Le ricordo “Ave Mary”, sulla speculazione religiosa sul mito della Madonna, “Acabadora” sul tabù dell’eutanasia. Concordo con Crepet sul fatto che quelle della Murgia sono parole rivoluzionarie, che Dacia Maraini spiega nel rifiuto del concetto religioso-cristiano della morte dolorosa come espiazione dei peccati della vita. Ma oggi non sono d’accordo in tutto con la Murgia. Vuole laicizzare il cancro incurabile lo porta nella natura umana. Dice che il cancro è dentro di noi, connaturato con noi. Se è vero che la morte è connaturata con l’uomo (questo è certo), il Cancro no, non è connaturato. Questo è un errore madornale scientifico e umano. Se escludiamo i pochi tumori che trovano la spiegazione scientifica nella genetica, (e anche su quelli si può obiettare che ci sono alterazioni del DNA nella vita intrauterina), la stragrande maggioranza dei tumori È PATOLOGIA AMBIENTALE. Lo affermo da medico, ormai vecchio. Questo concetto non è spiegato e viene solo sussurrato negli studi della facoltà di Medicina. Ma ce lo spiegano bene gli operai dell’ex ILVA di Taranto, gli operai che si ammalano per inalazione o assunzione di sostanze tossiche cancerogene, lo spiega la cancerogenesi sperimentale da sostanze chimiche ambientali o la cancerogenesi legata a stili di vita, scelti o a volte costretti a seguire per ragioni di lavoro e/o sopravvivenza immediata. Purtroppo, non è comodo parlarne e il sistema in cui viviamo preferisce relegare la discussione del male incurabile alla cultura religiosa e mistica, come dice bene la Dacia Maraini, e delega la terapia alla organizzazione sanitaria sperando nella umanità degli operatori. Non mi dilungo più, professore. Ma il caso Murgia ha inevitabilmente innescato la discussione tra i laici. Forse la sua affermazione che il cancro è dentro di noi contraddice la tematica dei suoi libri. Spero che Michela vinca la sua battaglia contro questo INNATURALE corpo estraneo e continui a scrivere ancora su temi tabù. Un affettuoso saluto, professore.