Un report che ha anzitutto affermato due verità. La prima è che la metalmeccanica è un settore in espansione: nel 2023, infatti, l’occupazione è cresciuta di 103 mila unità, passando da 2 milioni 572 mila lavoratori a 2 milioni 675 mila. La seconda è che è un settore molto significativo per l’economia italiana: nel 2022 il suo peso, rispetto al totale delle attività economiche nazionali, è stato dell’8,16% in termini di valore aggiunto e del 9,14 come investimenti fissi lordi.
Raddoppiano gli utili, calano gli investimenti
Il report inizialmente si concentra sulle principali voci del “conto economico” nel periodo 2019-2023. A fronte di un incremento del 33,47% del valore della produzione, gli utili netti sono aumentati del 91,56% (rispetto al 2019 sono quindi quasi raddoppiati), mentre i costi per il personale hanno registrato una crescita soltanto del 19,48. Tanto per essere chiari: nel 2023 le imprese metalmeccaniche hanno realizzato oltre 30 miliardi di euro di utili.
La ricchezza prodotta va a vantaggio solo dei profitti
La quota di valore aggiunto che va ai lavoratori è diminuita tra il 2019 e il 2023 di 7,34 punti percentuali, mentre la quota di profitti lordi (Ebitda) è aumentata di 7,63 punti percentuali. Cosa vuole dire? Che la distribuzione della ricchezza prodotta è andata a vantaggio dei profitti e a totale discapito dei salari.
Va segnalato, inoltre, che il valore aggiunto per ora lavorata in Italia è superiore alla media Ue (nella metallurgia, ad esempio, è del 70,83% contro il 35,33). Di contro, il costo del lavoro è più basso della media Ue: sempre nella metallurgia, è del 30,95% contro una media europea del 31,33. Se poi calcoliamo l’incidenza del costo del lavoro sul valore aggiunto, continuando a prendere la metallurgia come esempio, in Italia è del 43,70% contro una media Ue del 58,75.
Migliaia i posti di lavoro persi, boom della cassa integrazione
Partiamo dagli ammortizzatori sociali. Nei primi otto mesi del 2024 (ossia da gennaio ad agosto) le ore di cassa integrazione hanno abbondantemente superato i 19 milioni (per la precisione: 19.467.052), registrando un balzo in avanti di oltre cinque milioni nel medesimo periodo del 2023 (erano 14.042.229).
Venendo ai 38 tavoli di crisi attivati al ministero delle Imprese presi in considerazione dal report, il primo dato è che dall’origine della crisi (il cui anno è diverso da azienda ad azienda) il numero di posti di lavoro persi è pari a 11.452. Il numero di addetti attualmente coinvolti in situazioni difficili (cioè con esuberi dichiarati e/o lavoratori in ammortizzatori sociali) è pari a 18.055: il 44,5% del personale attualmente in forza a tali aziende.
Il primo comparto maggiormente in difficoltà è quella della siderurgia, con 8.240 addetti coinvolti. Dall’origine delle crisi a oggi in questo settore sono stati persi 5.177 posti di lavoro, mentre il totale dei lavoratori coinvolti costituisce il 54,4% dei dipendenti attuali. Qui si segnalano i casi delle Acciaierie d’Italia (ex Ilva) con 5.650 lavoratori coinvolti, cui seguono Jsw Steel Italia (1.488) e Berco (550).
Il secondo comparto è l’elettrodomestico, con 2.618 addetti coinvolti. Dall’origine delle crisi a oggi qui sono stati persi 1.766 posti di lavoro; il totale dei lavoratori coinvolti costituisce il 27% dei dipendenti attuali. I casi principali sono quelli della Beko (ex Whirlpool), con 1.935 addetti coinvolti, cui seguono Italian Green Factory (ex Whirlpool), con 295 addetti coinvolti ed Electrolux (283). Il terzo comparto è quello delle telecomunicazioni ed elettronica (2.362), cui seguono l’automotive (2.299, escludendo Stellantis), altri mezzi di trasporto (1.509) e l’energia (1.027).
Riguardo l’automotive, dall’origine delle crisi a oggi sono stati persi 1.372 posti di lavoro, mentre il totale degli addetti coinvolti costituisce il 35,5% dei lavoratori attuali. Si segnalano i casi della Tecnologie Diesel (700 dipendenti), cui seguono Lear Corporation (390), Speedline (270), ex Blutec (210) e Denso Manufacturing Italia (200).
Il caso Stellantis
Partiamo dall’esorbitante differenza di stipendi. Nel 2023 l’amministratore delegato Carlos Tavares (ora ex ceo di Stellantis) ha guadagnato 23,5 milioni di euro. Nello stesso anno la paga mensile media di un operaio è stata di 2.100 euro lordi, che scende a 1.200 euro netti nei periodi di cassa integrazione.
Il 53,31% dei lavoratori ex Fiat è attualmente coinvolto in ammortizzatori sociali, praticamente non c’è stabilimento che non sia alle prese con riduzioni di orario e di stipendi. Segnaliamo solo i casi più eclatanti, a partire da Melfi (Potenza), dove 5.361 lavoratori (su complessivi 5.400) sono in contratto di solidarietà fino al 26 giugno 2025.
Passiamo poi all’impianto di Pomigliano d’Arco (Napoli) dove sono in ammortizzatori sociali tutti i 4.001 lavoratori per le ultime 24 settimane, con la cassa integrazione ordinaria chiesta appunto per tutti. Vi è Termoli (Campobasso), con 1.931 addetti (su complessivi 2.020) in ammortizzatori sociali: di questi, 887 della unità Fire sono in contratti di solidarietà al 90 per cento fino al 1° agosto 2025.
A Cassino (Frosinone) 1.960 lavoratori (su complessivi 2.450) sono in contratti di solidarietà, mediamente all’80 per cento, fino al 25 aprile 2025. Nell’impianto di Atessa 1.500 lavoratori (su 4.830) sono in cassa integrazione ordinaria fino al 19 gennaio 2025, ma questa potrebbe essere prorogata fino a giugno 2025. A Pratola Serra tutti i 1.500 lavoratori sono in cassa integrazione ordinaria fino a giugno 2025.
Concludiamo con lo stabilimento torinese di Mirafiori. In contratti di solidarietà, dal 7 gennaio prossimo al 2 agosto 2025, sono gli 804 lavoratori (su 1.005) delle Carrozzerie 500 Bev, i 635 (su 794) delle Carrozzerie Maserati, i 267 (su 334) della ex Pcma di San Benigno, i 240 (su 300) delle Presse e i 76 (su 96) della Costruzione Stampi. In cassa, ma per ora fino al 14 febbraio 2025, i 203 lavoratori (su 254) del reparto Preassembly & Logistic.
De Palma, Fiom: “Bloccare i licenziamenti, aumentare i salari”
“Questi numeri ci dicono che l’Italia, senza l’industria, non farebbe parte del G7, non sarebbe nei consessi internazionali. Pensiamo, proprio partendo da questo, che occorra rimettere al centro il ruolo dell’industria metalmeccanica”, dice il segretario generale Fiom Cgil: “Abbiamo bisogno di lavorare a un’autonomia del nostro sistema industriale, a una sovranità italiana ed europea dell’industria, perché i beni e i mezzi che noi produciamo sono quelli che determinano il futuro della nostra società”.
“Work now for the future”, questo il piano presentato oggi dalla Fiom. “La prima cosa da fare è impedire il processo di distruzione in atto della struttura industriale nazionale ed europea”, spiega De Palma: “Noi importiamo acciaio dall’Indonesia e dalla Turchia, auto dalla Turchia e dall’Algeria. Il processo di finanziarizzazione dell’economia sta mettendo in discussione l’industria europea, con il risultato che le aziende fanno profitti ma mancano sia gli investimenti sia le risorse per i salari”.
Con il sindacato continentale la Fiom ha costruito una proposta fondata su due elementi. “Abbiamo anzitutto bisogno di mantenere la capacità produttiva installata, che è quella che ci ha consentito di ripartire dopo l’emergenza Covid”, illustra il leader sindacale: “E abbiamo bisogno di uscire dalla competizione tra Paesi europei e, guardando all’Italia, dalla dinamica competitiva tra regioni, approdando invece a un sistema cooperativo di politiche pubbliche”.
Serve, dunque, un confronto tra il sistema delle imprese, l’Unione Europea e il governo nazionale per realizzare un “agreement for labour and environment”. Per De Palma “è del tutto evidente che il modello continentale basato sull’export degli anni passati non regge a causa delle attuali crisi geopolitiche. Occorre far ripartire la domanda interna all’Europa, e questo si deve fare allargando la base occupazionale e aumentando i salari”.
Da un punto di vista industriale, il segretario generale Fiom rileva la necessità di “accorciare le filiere produttive e fare investimenti in ricerca e sviluppo per ridurre il dumping con altri sistemi industriali, come quelli di Cina e Stati Uniti”. Altrettanto indispensabili sono alcuni interventi straordinari: “Pensiamo a tre fondi pubblici. Il primo di investimento nei settori strategici, il secondo per realizzare l’aggregazione delle piccole e medie imprese delle filiere che lavorano sullo stesso prodotto, il terzo per dare vita a un’agenzia di ricerca e sviluppo”.
Ma c’è di più. “Occorre avviare – conclude De Palma – un osservatorio nazionale dell’industria metalmeccanica e bloccare i licenziamenti. Occorre, infine, istituire uno strumento straordinario quinquennale per accompagnare i lavoratori nell’attuale fase di transizione ecologica e tecnologica, da realizzare con un mix tra contratto di espansione per favorire l’assunzione di giovani, la formazione e la riduzione dell’orario di lavoro”.
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