Molti anni fa ho pubblicato, nell’introduzione al libro di Teresa Forcades Siamo tutti diversi (Castelvecchi Editore) il racconto Il mio nome è Farkunda, poi pubblicato nel 2018 su questo quotidiano [leggi Qui].
Dopo pochi anni ho pubblicato un romanzo che tratta il tema spinoso e controverso della maternità surrogata dal titolo Il mio nome è Maria Maddalena (Marlin Editore).
Non ricordavo di avere intitolato il racconto in questo modo e quando sono andata a ricercarlo, in occasione della tragica morte di Mahsa Amini, mi sono accorta della curiosa similitudine tra i due titoli.
Il mio nome è Farkhunda è dedicato alla giovane musulmana Farkhunda Malikzada, linciata a morte a Kabul, per aver predicato per ore nel cortile del santuario denunciando i traffici di finti amuleti.
Farkhunda studiava diritto islamico e lavorava come maestra volontaria, mentre Maria Maddalena, la protagonista del mio romanzo, è una giovane occidentale, che avventatamente si presta come madre surrogata per scoprire poi, a contatto con le popolazioni indigene dell’Amazzonia, quanto sia importante il sapere ancestrale che appartiene ai nostri corpi, che da millenni passa di generazione e in generazione.
Maria Maddalena si rende conto che abbandonare questo prezioso sapere nella mani della scienza e dei laboratori sia l’errore più grave che l’umanità possa fare, perché equivale a perdere per sempre il senso stesso di umanità.
Mi sono chiesta: “Perché dunque la somiglianza nel titolo se le storie che li hanno ispirati sono così diverse?” La risposta è semplice, dare il nome è il primo atto che facciamo quando nasce un bambino o una bambina. Il nome riconosce all’altro o all’altra la sua unicità.
Con il nome si entra nella comunità e si acquista lo status di autodeterminazione. Nelle mie ricerche femministe ho compreso che il concetto di autodeterminazione è alla radice di ogni pratica e ragionamento filosofico femminista.
L’autodeterminazione per le donne, in tutte le società, da sempre, però è sempre fortemente condizionata a comportamenti ‘morali’ dettati dal sistema patriarcale.
La lunga storia della liberazione femminile si muove in questo ambito ed è continuo oggetto di ricerca e di comprensione ancora oggi, proprio perché coniugare libertà e amore, libertà e comunione è una continua sfida.
Cosa significa autodeterminarsi? Per me agire in sintonia con il proprio essere all’interno della comunità in cui viviamo. Dunque autodeterminarsi è un atto in continuo divenire ed è sempre legato al dialogo che da dentro si sviluppa con il fuori: la famiglia, la comunità, la società, la nazione, il mondo.
Per le donne il dialogo con il fuori, con ciò che è pubblico, è sempre stato mediato dalla legge del Padre. Ecco dunque che le donne fanno parte dell’umanità ma sono ‘figlie di un dio minore’.
Il fatto di ricevere un nome alla nascita, però, ci ricorda che siamo unici e distinti e che c’è un confine inviolabile, quello della nostra coscienza, che appartiene solo a noi, neanche la legge lo può invadere. È quell’afflato dell’anima che, quando raggiunge la via della sua espressione attraverso l’incarnazione, guida le nostre azioni.
Mi chiederete dunque perché sono partita dai miei scritti per giungere a parlare di quanto sta avvenendo in Iran e di come la sua narrazione stia facendo il giro del mondo. Perché la tragica storia di Mahsa Amini, il cui nome questa volta ha fatto il giro del mondo, non è altro che la storia di moltissime donne alle quali non è permesso esprimersi in conformità al loro sentire.
Ciò che mi ha lasciato perplessa nella narrazione di Masha è stato il fatto che, in questa occasione, il suo nome è echeggiato in tutti i social, in tutti i media, nei telegiornali di tutto il mondo.
Ho ascoltato donne femministe islamiche felici di portare lo hijab, e non erano meno femministe di chi non lo vuole portare. Il tema non è lo hijab si o lo hijab no, ma il vero punto è se portare lo hijab ti corrisponda, a te singola donna, sia che tu sia iraniana, afghana, americana.
E il fatto, che qualunque sia la tua scelta, questa non comporti la perdita di diritti inviolabili quali l’autodeterminazione, perché l’autodeterminazione non è staccata dalle radici della terra madre che ci ha viste nascere, come ci insegna il lungo percorso, ancora in corso, della lotta all’autodeterminazione dei popoli indigeni.
Noi siamo figlie dell’ambiente che ci ha viste crescere, della storia e della cultura di quell’ambiente, ma siamo anche la spinta verso il nuovo mondo che contribuiremo a costruire e, in questo ‘nuovo’, rientra proprio la forza dell’atto di autodeterminarsi.
Non è dunque la verità occidentale ‘la verità assoluta’, ma è lo stare dentro le propria storia e cultura con la creatività delle nuove generazioni, che fa la differenza.
Per Farkunda avevo scritto ma, all’epoca, le era stato dedicato un trafiletto o poco più, e la lotta per l’abolizione universale della maternità surrogata conta tantissime storie di donne che hanno subito violenze inenarrabili nel silenzio più assoluto.
Ricevere da diversi amici e amiche che, poco o quasi mai, si sono interessati alle mie battaglie femministe il video di una giovane iraniana che parla di Mahsa Amini per attaccare direttamente il governo iraniano mi ha insospettito.
Quando l’occidente si muove compatto per condannare un governo attraverso l’uso strumentale della storia di una donna, io vedo in azione il patriarcato e non la difesa dei diritti delle donne.
Spero di non essere fraintesa; la storia di Mahsa Amini e dei milioni di ragazzi e ragazze iraniane schiacciati da un potere disumano, mi tocca nel profondo, ma l’ipocrisia del potere patriarcale occidentale, che utilizza una storia tragica a suo uso e consumo e contemporaneamente ti vende la maternità surrogata come un atto di amore e altruismo, quando è solo immettere sul mercato la maternità, senza la minima autocritica, mi pare ancora più disumano.
È da tempo che noto che, nelle democrazie progressiste, la rivendicazione dei diritti delle donne viene sempre ribadita quando è strumentale a certe logiche di potere.
D’altronde non c’è da stupirsi, il patriarcato appartiene anche alla nostra cultura e come dice bene la Guzman “il patriarcato è IL SISTEMA che produce tutte le oppressioni, tutte le discriminazioni e tutte le violenze che vive l’umanità e la natura, ed è costruito storicamente sopra il corpo delle donne!”
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Roberta Trucco
Commenti (3)
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Un crescendo di considerazioni lucide, umane e profonde. Il testo rasenta la suspense per come Roberta Trucco propone, una dopo l’altra, le sue argomentazioni.
Adriana Somigli
A mio parere “portare il velo” non è mai autodeterminazione. Se una donna decide di volerlo portare può sembrare una libera scelta , ma non lo è. Il velo non è un obbligo dell’Islam (ci sono milioni di donne islamiche che non lo portano), ma è il segno di “impurezza” della donna, serve infatti a coprire i capelli, che sono considerati elemento di seduzione per l’uomo; la donna percio’ deve nascondere ciò che potrebbe turbare e allontanare l’uomo da Dio, con la seduzione (il diavolo) sessuale. Con l’affermazione del velo o del fazzoletto si nega completamente la liberta’ delle donne di esprimere, in pubblico la propria sensualità perché ciò rappresenta qualcosa di completamente contrario alla religione. È sicuramente una visione “integralista” della religione, di origine “tribale” e “fortemente patriarcale”, che afferma un principio di potere e autorità dell’uomo maschio, sulla donna femmina. Com’era per le nostre nonne e mamme portare il fazzoletto o lo scialle per entrare in chiesa o anche solo per andare per strada, si diceva per “pudicizia”. Come se la donna, in quanto tale, facesse qualcosa di “sporco” nel mostrarsi, nel mostrare il capo. Non credo affatto alle femministe con lo jihab. Non è liberazione e tantomeno autodeterminazione. È adesione consapevole ad una disciplina lesiva della dignità della donna come persona umana e portatrice di valori positivi. Nella religione si sono codificati dei valori che rappresentano la paura del maschio del femminile, che deve essere perciò umiliato, represso se non può essere sfruttato per il piacere maschile. Il velo nei Paesi mussulmanie, da noi il fazzoletto, è un indumento simbolo fortemente discriminatorio nei confronti di noi donne, del nostro corpo e del nostro essere integrale,
per il principio stesso che rappresenta. Al di là di volerlo indossare consapevolmente o meno, per obbligo di un’autorita’ repressiva.
Il movimento delle donne ha tolto credibilità al patriarcato ed è accaduto non per caso. La libertà femminile avanza e il liberismo pure. La soggettività femminile e una nuova maschilità sono le nostre armi più potenti. Temo che per giovani donne iraniane e i giovani uomini si profili un massacro come è stato nel 2019 (1500 morti). I vecchi contro i giovani come sta accadendo nella guerra russo-ucraina..