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Non è mio uso commemorare i defunti con post strappalacrime e strappa like sui social, tantomeno cercare di scrivere un pezzo ad ogni scomparsa eccellente. Ma oggi è diverso. Ieri all’età di 82 anni è morto il Re, colui che sta al calcio come Elvis sta alla musica. Scriviamolo per intero: Edson Arantes Do Nascimento, per tutto il mondo Pelé.

Non mi appassionano i paragoni tra giganti. Era più forte Maradona? Di Stefano? Crujiff? Eusebio? Messi o i due Ronaldo?
Non è importante, ognuno di noi appassionati o ex appassionati di calcio ha il proprio idolo personale. Ma Pelé era diverso. Un padre calciatore sfortunato, la miseria come status sociale, la fibra, tutti i tendini del suo corpo assorbiti dall’Africa, trasformatisi in strumenti di difesa per gli schiavi che scappavano alla ricerca della libertà nelle foreste del Brasile dominato dai Portoghesi. Quegli stessi schiavi che divennero comunità nella foresta Amazzonica, ritrovando in un altro continente i colori e i sapori della loro terra lontana. Ed è lì che nasce il calcio bailado, la musicalità come strumento contro l’oppressione, la danza e l’autodifesa mischiate assieme nella capoeira, un’ arte marziale che si basa fondamentalmente sulle acrobazie mischiate all’eleganza dei movimenti. Ecco, lì nasce il mito, tra quel groviglio di rami, radici, umidità e calore, si sviluppa il gioco che per quaranta anni Edson diffonderà via etere di là e di qua dall’oceano.

Certo, c’è chi dice che Pelé mai giocò in Europa, con una malcelata supponenza velata anche da una sorta di razzismo, ma chiedetelo a Burgnich che era stopper perfino nel nome, Tarcisio, oppure a Trapattoni, chi era quel numero dieci con la maglia verde-oro.

I numeri e i record sono su Wikipedia. L’età del suo esordio in nazionale e la Coppa Rimet vinta in Svezia a diciassette anni, le altre due coppe del mondo, i suoi mille e duecento e passa goal in partite ufficiali, la sua media vicina a un goal a partita.
Ma non sono i numeri che fanno grande Pelé, è la sua essenza, il calcio non come sport, ma come gioco, la ginga (attacco e schivata) come stile e riproposizione dei colpi che tutti noi bambini abbiamo cercato di imitare nei cortili e nelle strade. Palleggio, sombrero, tunnel, dribbling, rabona, non per coglionare gli avversari, ma per divertirsi e divertire. La suola come parte fondamentale del piede, il goal come apoteosi, come orgasmo che coinvolge una moltitudine.

Pelé ballava e con la palla ci faceva all’amore, non la calciava, la accarezzava. Il pallone era la sua ragione di vita, proprio come noi bambini degli anni ’70 vedevamo nel super Santos (appunto) il motivo della nostra felicità. Ancora un rimbalzo e la palla tocca il muro del cortile, dentro il contorno di una porta segnata con uno spezzone di laterizio. E da lì esplodeva la gioia.

Insomma, nulla a che vedere con quel simulacro di sport per culturisti miliardari che è diventato “il gioco più bello del mondo” negli ultimi trent’ anni. Soldi, doping, target, budget, plusvalenze, sceicchi, americani, dollari, petrolio, una poltiglia percolante che ha trasformato i tifosi in fruitori passivi di un servizio.  La passione derubricata a audience.

Lo stadio sostituito dal divano, il telecomando come simulacro di libertà, la finta partecipazione nascosta dietro agli schermi viola dei telefonini.

Ecco, Pelé con tutto questo non c’entra nulla, lui è il Re dalle movenze sfumate in bianco e nero, come gli unici colori che indossò in carriera, il Santos come religione e il suo numero dieci come Dio.

Nulla più, nulla meno.

Assurdità statistica: Pelé non vinse mai il pallone d’oro, così come Maradona. L’incoronazione del più forte, del più bravo è da sempre espressione del Capitale, di chi detiene il potere, decide e definisce i canoni. E quali sono i canoni? Lasciamo stare le decine di campionati Paulisti vinti, quelli Brasileiri e pure quello del soccer nord americano dove Edson andò a fine carriera a dollarizzare i suoi ultimi tocchi, ma tre campionati del mondo? Migliaia di goal, certo, alcuni in partite non ufficiali, e con ciò? Le decine di record?

Ma è ancora poco.

Magari sarà banale ricordare senza la finezza del sapiente tecnico calcistico, che il ragazzo nato nelle favelas di Três Corações non aveva un piede preferito, non aveva un ruolo definito, lo decideva il campo, il pallone cercava il suo padrone, la forza fisica, l’incredibile elevazione, il dribbling, la finta, l’acrobazia, la danza.

Perché sprecare tempo in similitudini, senza senso, ritorniamo alle parole di Tarcisio nostro dopo la finale persa dall’Italia a Città del Messico: “Prima dell’ingresso in campo pensai: è di carne e ossa come me, mi sbagliai”.

Il calcio è quello sport nato in Inghilterra alla metà dell’800 – forse ne esistevano tracce ataviche anche nelle ere precedenti – morto il 29 di dicembre del 2022 a San Paolo in Brasile.

Ma il pallone, una rovesciata in un campetto senza porte, un dribbling fatto in strada con una lattina di birra schiacciata, una maglia bianca con il numero dieci disegnato col pennarello, non moriranno mai, finché ci sarà un bambino di qualunque età che rincorrerà il rimbalzo di un super tele in una strada di periferia.

Lunga vita al Re.

La ginga

figlia della capoeira

arma di difesa degli schiavi,

nel sangue la libertà e la musica.

Sangue rosso

figlio dell’Africa

gioia di vivere

nata nel fango della favela.

Riscatto di un popolo

nel gioco del pallone

una danza acrobatica

sopra gli altri giocatori.

Piedi nudi e palleggio

coi frutti dolci dei tropici

poi scarpette nere

e una maglia bianca.

Tu sei il metro di misura

il paragone

a cui tutti dopo di te

hanno reso omaggio.

Arrivederci O’Rey

il calcio è morto

il sogno di un goal in rovesciata

invece, non morirà mai.

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Cristiano Mazzoni

Cristiano Mazzoni è nato in una borgata di Ferrara, nell’autunno caldo del 1969. Ha scritto qualche libro ma non è scrittore, compone parole in colonna ma non è poeta, collabora con alcune testate ma non è giornalista. E’ impiegato metalmeccanico e tifoso della Spal.

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