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“In conclusione (pausa) signori delegati (pausa prolungata) e amici carissimi (pausa infinita) devo confessarvi che abbiamo finito tutte le nostre cartucce”. Il rappresentante USA nonché Segretario del Super Consiglio di Sicurezza si lasciò sprofondare (non senza enfasi) nella sua ampia poltrona di finta vera pelle. Ci pensasse la Cina, con tutta la vomitosa retorica del suo fottuto Impero della Terra di Mezzo e i suoi due miliardi di musi gialli a trovare una soluzione. Ma Il delegato del Partito Paleocomunista Cinese, per la prima volta nella storia, non trovò di meglio che accodarsi allo scoramento statunitense. “Sarebbe a dire?” – ruggì il presidente onorario MacNamara, spalancando le sue orbite color ghiaccio secco. “Sarebbe a dire – rispose il cinese con un placido sorriso confuciano – che anche noi abbiamo finito munizioni.”.
Nel linguaggio figurato del Super Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la gloriosa quanto fallimentare organizzazione che aveva appena celebrato in pompa magna i suoi primi cento anni di vita, le cartucce, ovvero le munizioni, alludevano alle sterminate risorse militari a disposizione dell’Alleanza Planetaria e alle geniali trovate diplomatiche degli strateghi militari. Anche queste ultime, come le ormai obsolete armi convenzionali e i nuovissimi droni micronucleari, stavano infatti dimostrando la loro totale inefficacia a fronteggiare l’emergenza.

A turno presero la parola gli altri membri del Consiglio, ma solo per rispettare la ritualità assembleare, perché né la Grande Santissima Russia, né l’Unione Sudamericana, né l’Impero delle Indie, né il Califfato Santo Riunito avevano uno straccio di soluzione da proporre. Mancava all’appello solo la Federazione Europea degli Stati Disuniti, la vecchia e saggia Europa. Erano però più di vent’anni che gli Stati Federati d’Europa non riuscivano a mettersi d’accordo su un nome condiviso per rappresentarli nel Consiglio di Sicurezza.

Fu ancora il vecchio Arthur Benjamin W. McNamara a reagire. Aveva fatto il generale per tutta una vita e in pensione da tre lustri, ma vivaddio, da generale non ci si dimette mai. “Facciamo entrare gli esperti”, ordinò McNamara, ed esibendo uno dei suoi celebri sorrisi rassicuranti, continuò: “vorrei ricordare a tutti i colleghi delegati due fatti incontrovertibili. Prima di tutto non ci dimentichiamo mai che noi siamo i buoni e loro i cattivi; e in più abbiamo un grande vantaggio dalla nostra parte, perché noi…” – qui la voce del vecchio generale infranse la barriera del suono minacciando l’integrità della grande vetrata della Sala Ovale – “noi, carissimi amici… NOI SIAMO VIVI! “.

Intanto nel campo avverso fervevano i preparativi per la battaglia. A dire il vero, fervevano anche troppo. Nello sconfinato salone del quartier generale regnava una sovrana baraonda. In piedi, o appoggiati con le mani o con i gomiti a un lungo tavolo malfermo, a voce altissima e difficilmente intellegibile, si confrontavano una trentina di uomini e una cinquina di donne. Erano gli alti ufficiali dell’esercito di liberazione, regolarmente eletti con l’antico e resuscitato metodo dei soviet.

Nel punto mediano della lunga frattina di noce – per intenderci, nella classica posizione del Nazareno nel Cenacolo di Leonardo – si scorgeva un po’ a fatica il comandante in capo. Vista la bassa statura, la trasandatezza dell’abito, la barba di una settimana e il viso a chiazze tipico dell’epatico, non si può dire che la sua figura dominasse la scena. Il generale di tutti i generali – riconoscibile solo per una benda rossa al braccio destro – non sembrava né Spartaco né un suo lontano parente, ma come non riconoscere al “Piccolo Corso” le qualità del grande stratega. Napoleone aveva già parlato, brevemente – ché lui era uomo del fare, non delle inutili chiacchiere – e ora continuava a guardarsi intorno, unico a bocca serrata in quel tripudio inestricabile di voci. Sorrideva, forse sogghignava, sicuro di potersi finalmente prendere una definitiva rivincita sulla battaglia più nota dei libri di storia. Si scosse infine dal suo allucinato mutismo e prese a confabulare con chi gli stava più vicino, il secondo e il terzo ufficiale, gli unici a cui concedeva una qualche stima, il giovane Alessandro di Macedonia che lo affiancava a sinistra e lo spelacchiato Caio Giulio alla sua destra.

Era un problema di alta strategia? Bisognava indovinare la tattica vincente? O si trattava solo di azzeccare al minuto secondo l’ora X?
Per qualsiasi commentatore esterno alla congrega, anche se ferrato in storia militare, sarebbe stato difficile dare un giudizio.  L’unico dato evidente era che il Comitato Trapassati Riuniti sembrava lontanissimo dal trovare un accordo. In compenso la sala traboccava ottimismo. Le parole con cui il Generale Giap aveva concluso il suo intervento, “Abbiamo dalla nostra un vantaggio incolmabile: NOI SIAMO MORTI!”, erano state salutate dal pubblico con una ola da stadio.

I morti, com’è noto, anche se presi a cannonate, non possono morire due volte. E c’era un ulteriore vantaggio, lo aveva ricordato il delegato Pitagora di Samo, sventolando un papiro zeppo di cifre davanti all’uditorio: “Non solo siamo morti, e tutti in buona salute, ma siamo anche molti di più di loro”. “E quanti siamo?”, aveva gridato uno sfacciato dal fondo della sala. E Pitagora: “Ho fatto e rifatto i conti; abbiamo superato quattro volte il numero dei nemici viventi. Volete sapere il numero preciso?”. Sicuro che lo volevano sapere. Gli ottomila delegati presenti (tutti regolarmente eletti e tutti regolarmente morti) aspettavano da anni, da secoli o qualcosa in più, quel numero liberatorio, che Pitagora scandì sillaba per sillaba e numero per numero: 99miliardi730milioni322milanovecentotrantatrèUn bel numerone, non c’è che dire. Un numero che cresceva inesorabilmente di minuto in minuto. E i nemici, voglio dire, i vivi? Quelli avevano smesso di crescere da almeno vent’anni.

Queste le forze in campo come si presentavano alla vigilia della Grande Battaglia. Come andò a finire è scritto su tutti i libri, tanto da rendere superflua una cronaca dettagliata degli eventi. Basterà riportare qualche scarna notizia e qualche cifra. Fu una guerra lampo, durò una sola notte. I vivi morirono tutti, come i Trecento delle Termopili, compreso il valoroso MacNamara, decisissimo a vendere cara la pelle. Ma la pelle gliela fecero eccome, a lui e a tutti gli altri. Nessun morto invece tra le file dei morti.

L’arma letale? La escogitò il solito Odisseo: non c’era bisogno di incrociare le spade, sarebbe bastata un po’ di messa in scena. E far leva sulla paura. Paura dei fantasmi, paura del buio, paura dei morti e della morte. Fu la paura il Cavallo di Troia, il Tallone di Achille, l’Uovo di Colombo. Alla paura non scampò nessuno, neppure gli atei militanti, gli agnostici, gli ufficiali di carriera, i marines e le teste di cuoio.

Alla fine, fu una scena davvero commovente, i morti vincitori e i vivi sconfitti – diventati all’istante ex vivi e morti novelli – si abbracciarono riconoscendosi fratelli. Il pianeta Terra trovava finalmente un po’ di pace. Eterna.

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it