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L’OPERAZIONE BERGOGLIO: DAL PALAZZO ALLA TENDA – II parte

Il senso del conclave del 2013 può essere leggibile nella doppia consapevolezza che un’intera strategia ecclesiale durata (almeno) mezzo secolo era arrivata al capolinea, da un lato, e che valeva la pena tentare di riprendere i fili dell’aggiornamento conciliare nella piena accezione roncalliana, dall’altro.

In questa chiave interpretativa si possono ricordare fra le ultime parole del card. Carlo Maria Martini (morto il 31 agosto 2012) che, come una sorta di testamento, consegnò in un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera (Chiesa indietro di 200 anni, 1° settembre 2012): “Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza”.

Quelle parole, rilette a distanza di anni, mantengono tutta la forza di un vero e proprio programma per iniziare a colmare il ritardo di una “Chiesa rimasta indietro di 200 anni”.

In particolare, risultano tuttora attualissimi i tre strumenti che Martini indicava: la conversione (“la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento”), la Parola di Dio (“Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici”) e i sacramenti (“Per chi sono i sacramenti? (…) non sono uno strumento per la disciplina ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita”).

Proprio in questo terzo strumento, le parole del cardinale gesuita proponevano la fuoriuscita dal loro reiterato utilizzo come dogana della grazia di una chiesa in stallo da minoranza creativa, per indicare una nuova postura sulla linea dell’aggiornamento: “Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti (sic!) i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. (…) Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura”.

Che l’argentino Jorge Mario Bergoglio potesse essere l’uomo giusto per questa operazione di rinnovamento ce lo possono dire almeno tre suoi riferimenti biografici, in grado di raccontare, in breve, da quale percorso proviene.

Nell’intervista rilasciata al direttore de La Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro, nel settembre 2013, papa Francesco ricorda la figura di Pietro Favre, fra quelle che più lo hanno colpito nella sua formazione.

Pietro Favre, nato a Villaret in Savoia nel 1506, condivise, al Collège Saint Barbe di Parigi la stanza con Ignazio di Loyola e Francesco Saverio, diventando membro del nucleo originario della Compagnia di Gesù.

Dopo la sua morte (1546) il suo nome cadde nell’oblio fino a quando Michel de Certeau, nell’ambito delle riviste gesuite francesi Christus ed Études, cura nel 1960 una traduzione francese del Memorial di Favre. Traduzione che Bergoglio ha più volte affermato di amare particolarmente, tanto da promuoverne una edizione in spagnolo nel 1983, quando era superiore provinciale a Buenos Aires. L’edizione argentina fa proprio riferimento alla traduzione di de Certeau, cui Bergoglio fa ripetutamente riferimento per le sue numerose citazioni.

Favre è un punto di riferimento per Bergoglio, che lo presenta come un evangelizzatore capace di sviluppare con i suoi interlocutori del tempo – i protestanti incontrati nei suoi viaggi in Germania, inviato dal papa – “una capacità di dialogo – scrive Menozzi – basata sulla dolcezza, l’ascolto, la prossimità” (p. 66).

Nel 2013 papa Francesco decide di procedere a una rapida canonizzazione del gesuita savoiardo.

In secondo luogo, l’intero itinerario biografico del papa argentino marca una distanza cronologica con quello dei suoi predecessori, che hanno caratterizzato l’andatura ecclesiale del post-concilio. Questi ultimi, infatti, provengono da una formazione costruita negli anni «dell’egemonia della cultura cattolica intransigente (…) e hanno poi portato nelle discussioni del post-concilio gli schemi ereditati dal passato.» (p. 59)

Starebbero qui alcune delle radici di quell’equilibrio ambiguo che sarebbe scaturito, a differenza di Bergoglio il cui intero percorso formativo è ascrivibile, almeno in gran parte, ai documenti del Vaticano II, con una conseguente impostazione culturale di segno diverso.

Un terzo elemento biografico, infine, risalirebbe al documento di Aparecida (Brasile), al termine della quinta conferenza generale dell’episcopato latino-americano (Celam), nel maggio 2007.

Dopo le precedenti quattro assise di Rio de Janeiro (Brasile, 1955), Medellín (Colombia, 1968), Puebla (Messico, 1978) e Santo Domingo (Repubblica Dominicana, 1992), quella di Aparecida vide l’allora arcivescovo di Buenos Aires nella veste di coordinatore per la redazione del documento finale.

Vale la pena ricordare un retroscena di quella quinta assemblea episcopale, a partire dai contrasti che accompagnarono la stessa scelta della sede nella quale si celebrò.

Ricostruisce bene quel dibattito Andrea Riccardi (La Chiesa tra centri e periferie in Il cristianesimo al tempo …):

«I cardinali latino-americani avevano convinto Benedetto XVI a tenere la conferenza ad Aparecida, mentre l’allora segretario di Stato, cardinal Sodano, era contrario e avrebbe preferito la riunione a Roma. La Chiesa latino-americana si era dimostrata un soggetto forte.» (p. 11)

In particolare, nel santuario brasiliano, nel 2007, il card. López Trujillo (che – scrive Riccardi – aveva combattuto la teologia della liberazione con l’appoggio di Wojtyla e Ratzinger) aveva perso la sua battaglia, mentre era emersa una classe episcopale che aveva ricucito lo scontro sulla teologia della liberazione. Vescovi di cui fra i massimi esponenti erano Bergoglio e il brasiliano Clàudio Hummes.

Per comprendere, sia pure molto brevemente, l’importanza di Aparecida, specie per il tracciato biografico di Jorge Mario Bergoglio, occorre partire dalle vicende ed evoluzioni del Celam, nell’arco temporale fino al 1992 che, scrive Silvia Scatena, “negli anni Settanta e Ottanta si intrecciano (…) con quelle del dibattito sulla teologia della liberazione” (Da Medellín ad Aparecida: la “lezione” di un’esperienza regionale per una ricerca di forme e stili di collegialità effettiva in La riforma e le riforme nella Chiesa, 2016).

Le posizioni della chiesa di Roma, dopo le aperture e le speranze iniziali di Paolo VI; le decisioni assunte da Giovanni Paolo II nelle nomine episcopali, a partire da quella nel 1979 del cardinale colombiano Alfonso López Trujillo (irriducibile nemico della teologia della liberazione) a presidente del Celam; le due istruzioni della Congregazione per la dottrina della fede guidata da Ratzinger del 1984 e 1986, sono solo alcuni esempi di una parabola che porta a incrinare i “rapporti tra Roma e l’America Latina”, come scrive Gianni La Bella (L’America Latina e il laboratorio argentino in Il cristianesimo al tempo …, 40).

Lo storico Giovanni Miccoli ha scritto degli anni di fuoco dei dibattiti intorno alla teologia della liberazione. Roma aveva fatto chiaramente intendere il suo rifiuto di una teologia che, senza partire dalle verità proclamate e custodite dal magistero, si costruisse dal basso, che facesse nascere «un linguaggio su Dio» come scrisse Gutiérrez, «dalla condizione di sofferenza generata dalla povertà ingiusta nella quale vive la maggior parte della gente» in America Latina (In difesa della fede, 2007, p. 70).

È in questo clima di un cattolicesimo latinoamericano “stanco e spaesato – scrive ancora La Bella – lacerato dalle controversie e dall’incapacità di andare oltre le polemiche e le contrapposizioni” (p. 42), che si celebra Aparecida.

Nonostante Bergoglio, che ne sarà presidente della Commissione incaricata di redigere il documento finale, sia esponente di una chiesa accusata di essersi macchiata di connivenza con il regime dei generali (critica che non risparmia lo stesso arcivescovo di Buenos Aires), vi porta il retroterra di quella che è stata chiamata la “teologia del popolo”, una sorta di declinazione argentina della teologia della liberazione.

Fra i nomi di spicco di questo filone di pensiero figura Rafael Tello, “il teologo – scrive La Bella – che forse lo ha più influenzato”, oltre a Lucio Gera e Juan Carlo Scannone.

Aparecida si apre, dunque, in un clima di “molto scetticismo”, eppure in quella riunione “qualcosa si muove”, come ha detto Victor Manuel Fernández, rettore dell’Università cattolica e ghost writer dell’arcivescovo di Buenos Aires.

Qui “si rivela – prosegue Fernández – la sua convinzione che, più che ottenere risultati immediati, bisognava mettere in moto dinamiche e relazioni”.

Nonostante sia abbandonato il metodo “vedere-giudicare-agire”, caro alla teologia della liberazione e perciò motivo delle iniziali freddezze, Aparecida, da ultimo, rimette al centro del continente latinoamericano l’insoluta questione sociale, riletta attraverso il binomio inclusione-esclusione, la cultura dello scarto e la struttura portante della «perifericità». Molti esponenti storici della teologia della liberazione (…) hanno visto in Aparecida «il momento più alto del magistero della Chiesa latinoamericana, il miglior documento prodotto … che ha sanato un trauma pastorale immenso» (G. La Bella, p. 53).

C’è chi ha letto una continuità tra Aparecida e quello che la storiografia definisce il “codice Francesco”.

Se, dunque, questi sono solo alcuni aspetti, peraltro appena abbozzati, dell’itinerario biografico di Jorge Mario Bergoglio, sono però in grado di aggiungere qualche elemento in più per comprendere il significato dell’elezione che lo ha portato nel 2013 alla guida della barca di Pietro.

 

Avviandomi al termine di questa riflessione, è possibile qui esaminare solo alcuni aspetti che stanno caratterizzando questo decennio del suo pontificato, pur consapevole dei limiti di questa selezione del tutto personale.

Aspetti che, tuttavia, ritengo sufficienti per evidenziare come l’azione pastorale di papa Francesco si presenti in evidente coerenza con l’intento di un’operazione che ha inteso provare a riprendere e percorrere la strada del rinnovamento conciliare, rispetto a quella dell’ammodernamento.

In primo luogo, è interessante soffermarsi su un aspetto che ha a che fare con gli scenari geopolitici in movimento a livello globale.

Secondo il teologo Pierangelo Sequeri il tempo contemporaneo è segnato da un’oscillazione profonda “fra l’incantamento e l’orrore del vuoto che si va producendo proprio nel luogo in cui abbiamo coltivato la fede fondamentale che ha retto l’impresa della modernità”, ossia “l’etica di un umanesimo condiviso” oggi sconvolta da un processo di “decostruzione che si sviluppa in modo autonomo anche rispetto alla discussione sulla verità religiosa” (Le sfide dell’etica. Diritti umani e coscienza credente in Il cristianesimo al tempo …, pp. 263-272).

Un concetto che così è letto da Agostino Giovagnoli, nelle conclusioni del volume (pp. 335-364):

«Sta tramontando insomma quell’umanesimo europeo, condiviso al di là delle fratture confessionali e religiose, che ha costituito il fondamento della modernità. Tende perciò gradualmente a svuotarsi anche il processo di secolarizzazione inteso come confluenza o, nelle sue espressioni più radicali, annullamento delle fedi religiose in un’etica pubblica comunemente accettata.» (p. 335)

La stessa globalizzazione, invece di costituire il varco definitivo delle colonne d’Ercole verso un tempo di definitivi benessere e prosperità diffusi e generalizzati, sta invece presentando il conto, specie negli ultimi decenni, di disuguagliane economiche e sociali cresciute in modo drammatico, oltre agli effetti di squilibri ambientali, che chiamano inesorabilmente in causa un intero modello di sviluppo.

Inoltre, il mondo globale accanto all’inaugurazione del tempo dell’interdipendenza e dell’apertura, sta conoscendo i contraccolpi – sociali, culturali, politici e religiosi – che si consumano sui terreni del terrorismo, del sovranismo, dei richiami nazionalisti anche di stampo imperialista, del fondamentalismo e del populismo.

In questo scenario, se da un lato tramontano le visioni da fine della storia (per citare il celebre libro del politologo Francis Fukuyama del 1992, che dopo la caduta del muro di Berlino prospettava l’avvento del tempo delle libertà), dall’altro si sviluppa in ambito ecclesiale l’interrogativo se la postura della chiesa cattolica possa continuare il proprio itinerario di marcia, oppure se non sia il caso di prendere un’altra direzione.

In altri termini, di fronte agli sviluppi di tali scenari c’è chi si domanda se il modello di una chiesa della minoranza creativa e dell’opzione Benedetto, arroccata sulla difesa dei valori non negoziabili in campo morale, possa ancora reggere gli urti di queste nuove sfide.

Una riflessione che prende atto anche del fatto che su questa linea si registrano gli allineamenti, più o meno convinti o strumentali, delle posizioni più tradizionaliste della chiesa e non solo di quella romana.

Posizioni che si sono progressivamente irrigidite durante il pontificato di Benedetto XVI, anche se pare riduttivo ricondurre tali allineamenti ad un preciso disegno papale completamente cercato e voluto.

Qui si troverebbe un ulteriore elemento interpretativo delle clamorose dimissioni di papa Ratzinger.

Di certo è parso, almeno ad alcuni, che il modello di cattolicesimo di minoranza, coeso e minoritario, nonostante le apparenze tradisse in fondo un atteggiamento di ripiegamento e di debolezza.

Quella di Jorge Mario Bergoglio è parsa, dunque, la scelta di un papa ai confini del mondo, in una logica centro-periferia ribaltata. Di fronte alle sfide di un mondo globalizzato e liquido è parsa, cioè, più convincente “l’estroversione missionaria della Chiesa proposta da Jorge Bergoglio – scrive Giovagnoli – con l’espressione «Chiesa in uscita»” (p. 338).

A questo proposito due sono le riflessioni che in ambito storico sono ricorrenti sull’esito del conclave del 2013.

Secondo Andrea Riccardi l’elezione di papa Francesco segnerebbe la fine del papato europeo (Il cristianesimo al tempo …, p. 7), dopo che nel 1978 si esaurì quello italiano, con la morte di Paolo VI.

Se si aggiunge che Francesco è il primo papa europeo da oltre un millennio, appaiono ancor più chiari i contorni della svolta.

Qui entra in gioco la lettura di una logica centro-periferia ribaltata, che ha più di un’implicazione.

In primo luogo “Francesco – scrive Giovagnoli – si è fatto interprete di un mondo che non ha più un centro” (p. 343), immagine alla quale lo stesso pontefice dà corpo con almeno due espressioni ricorrenti: la figura del poliedro preferita alla sfera (Evanelii gaudium del 2013, n. 236) e la definizione della chiesa ospedale da campo (La Civiltà Cattolica, 2013).

Dopo secoli in cui la chiesa si è concepita come societas perfecta, ora le immagini di una chiesa in uscita e ospedale da campo la configurano “sempre meno simile a uno splendido palazzo – continua Giovagnoli – (…) e sempre più protesa ad assomigliare a una tenda” (P. 354).

Viene in mente il libro di Bartolomeo Sorge Uscire dal tempio, pubblicato nel 1989 nella forma di intervista autobiografica a cura di Paolo Giuntella: “Dopo l’età del Tempio, la nostra sarà la nuova età della Tenda” (p. 174).

In secondo luogo, Bergoglio è l’espressione di una chiesa che cerca nuove vie di inculturazione della fede e del Vangelo nelle megalopoli, espressioni di una dinamica demografica a livello planetario, con tutto il portato di contraddizioni, squilibri e tensioni.

A Buenos Aires, in particolare, ha conosciuto la realtà di un grande periferia urbana.

Periferie, poveri, popoli: questi temi sono stati al centro della sua riflessione prima di diventare papa e hanno poi assunto un rilievo cruciale nel suo pontificato (Giovagnoli, p. 357).

Naturalmente questa nuova postura implica anche una conseguente spinta di riforma della chiesa, a partire dai suoi assetti anche istituzionali, in senso decentrato, collegiale e sinodale.

Su questo punto – governo e riforma – si attestano le critiche maggiori, non solo fra gli episcopati ma anche degli osservatori.

Se da un lato è chiaro il segno impresso da Francesco, ad esempio con le nomine di cardinali in luoghi periferici in Italia (in diocesi non cardinalizie) e nel mondo, dall’altro tarda a cambiare il centro della chiesa di Roma, “quella curia – scrive Riccardi – che non piaceva ai cardinali nel 2013” (Il cristianesimo al tempo …, 18).

Più in generale, scrive ancora Riccardi:

«Da un lato, il papa è favorevole al governo collegiale o sinodale, ma questo non ha trovato ancora le sue forme istituzionali (…). Dall’altro, c’è l’uomo che governa con capacità di decisione, servendosi a volte di una prassi di consultazione non sempre nei canali istituzionali, attraverso una rete personale (…). Una verticalizzazione provvisoria in attesa di un rinnovamento profondo, cui il papa spinge la Chiesa.» (p. 20)

Per quanto Bergoglio abbia scritto che il tempo è superiore allo spazio (Evangelii gaudium, n.222), collegialità e sinodalità che stentano a configurare un chiaro assetto di governo e aspetti di verticalizzazione decisoria, per quanto “provvisoria”, inducono a una sospensione di giudizio sull’aspetto delicato delle forme degli assetti ecclesiali, in una transizione oggettivamente difficile, che nel frattempo non è esente da dubbi, critiche e perplessità, fino ad aperti contrasti che non si vedevano da tempo.

Lo stesso Alberto Melloni (QN cit.) riconosce che la sinodalità «è la sfida più seria e urgente della Chiesa del terzo millennio. Non è la variante cristiana della democrazia, né un “discernimento” spiritualista collettivo, alla fine del quale l’autorità suprema decide sola. È la comunione che diventa decisione autorevole.

L’esperienza dice quanto sia difficile: il cammino sinodale tedesco ha seminato paura, quello italiano sonnolenza, il sinodo d’Amazzonia delusione. La comunione avrebbe bisogno non di un geometra (gesuita) delle istituzioni, ma di un architetto (cristiano) del concilio. Francesco lo può essere se cercherà il vento non nel consenso di dieci anni fa, ma nel mare aperto di oggi.

Ciò non toglie, tuttavia, che la strada – per quanto ancora incerta e precaria – sia stata aperta e la sfida della sinodalità, nella profonda accezione che dà Melloni (la comunione che diventa decisione autorevole), non nasconde di essere anche una proposta, al limite della provocazione, lanciata al tempo presente, così contraddistinto dal rigurgito di sogni imperialisti, per un verso, e dalla stanchezza delle democrazie, dall’altro.

Ma per tornare al paradigma centro-periferia, non se ne comprenderebbe il pieno significato se non si articolasse nella sua ultima, ma fondamentale, declinazione: il passaggio decisivo dall’opzione preferenziale dei poveri alla chiesa povera per i poveri.

Spostare l’asse ecclesiale dal centro alla periferia, alle periferie, significa che i poveri devono passare dalla periferia al centro della chiesa.

Ecco, molto probabilmente, il senso compiuto di una chiesa-tenda o ospedale da campo, rispetto all’immagine del tempio-palazzo.

Scrive significativamente Giovagnoli a questo riguardo:

«i poveri devono passare dai margini al centro, poiché le periferie sono il futuro della Chiesa. Si tratta di un elemento cruciale (…) per uscire dalla Chiesa-palazzo (…) ed edificare una Chiesa-tenda che si muova nelle periferie delle grandi megalopoli contemporanee. Questo modo di intendere l’opzione per i poveri costituisce un aspetto qualificante del rapporto tra Francesco e il suo tempo. (…È) convinto che sarà la sensibilità verso i poveri a determinare il futuro dell’umanità, come emerge ad esempio nella Laudato sì.

Nella sua visione, le periferie devono diventare una priorità non solo per la Chiesa ma per tutti: abbandonare una visione dei problemi a partire dal centro è una necessità anche per la politica, l’economia, la cultura. Affermando l’importanza delle periferie, Francesco ha proposto una interpretazione pastorale, evangelica, cristiana di un vasto processo storico in atto nel mondo contemporaneo. Quello del XXI secolo è un mondo di periferie e i suoi abitanti, in qualche modo, anticipano un futuro che è sempre più diffuso. La ricezione del pontificato di Francesco dipenderà dunque molto dalla ricezione della dottrina evangelica sui poveri.» (pp. 358-359)

Un ulteriore e conclusivo aspetto, secondo questa mia personale e consapevolmente limitata ricostruzione, può aiutare a capire meglio in che cosa consista quella che ho chiamato l’operazione Bergoglio e cioè la ripresa della strada conciliare dell’aggiornamento rispetto a quella dell’ammodernamento perseguita dal pontificato post-conciliare.

Per farlo è utile risalire alla cultura intransigente che ha lungamente contraddistinto la chiesa.

Secondo Menozzi (Il papato di Francesco …) «(n)ella prospettiva intransigente la Chiesa si presenta come una cittadella assediata da una società moderna alla quale attribuisce il disegno di disgregare la sua autorità nello stabilire le regole destinate non solo a conseguire la vita eterna, ma anche a raggiungere il miglior assetto politico e sociale della collettività.

Diventa così inevitabile che la condanna del mondo moderno rappresenti la chiave di volta per definire il rapporto della Chiesa nei confronti dello svolgersi di una storia da essa interpretata come una concatenazione di errori sempre più gravi.

Gli sforzi degli uomini di costruire forme più accettabili di convivenza civile vengono letti come un’impresa che, in quanto sprovvista del supremo sigillo ecclesiastico, è destinata a un inevitabile fallimento. Anzi, secondo i più rigidi interpreti dell’intransigentismo, la catastrofe finale dell’umanità sarà l’esito ineluttabile di una modernità che nel suo rifiuto di assoggettarsi alle prescrizioni della gerarchia trova la ragione ultima della sua stessa condanna.» (p. 144)

La presa d’atto che tali previsioni catastrofiche tardavano ad avverarsi ha indotto a un successivo ripensamento dell’atteggiamento radicalmente oppositivo del cattolicesimo verso il mondo, ma nonostante le aperture nei confronti di alcune acquisizioni della modernità e gli aggiustamenti, il nucleo della cultura intransigente ha continuato a essere sospinta fin dentro la contemporaneità.

Si potevano accettare i mezzi, gli strumenti, le tecniche e persino qualche principio del mondo moderno a condizione che non si abbandonasse il punto giudicato cruciale: solo la sottomissione alla verità politica e sociale detenuta dall’autorità ecclesiastica poteva restituire al consorzio civile quel felice assetto di cui la società aveva fruito quando il papa regolava in via dirimente, come ai bei tempi della ierocrazia medievale, i rapporti tra i singoli e i popoli.» (p 145)

E questo accade perché la chiesa si autocomprende come interprete ultima e incontestabile anche della legge naturale, per cui si sente intimamente legittimata ad essere l’autorità depositaria dei principi fondamentali non solo per la vita eterna, ma anche per regolare quella terrena.

Questo sfondo storico e teologico ci aiuta per capire meglio il cambio di passo adottato da papa Francesco durante questi dieci anni di pontificato.

L’esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013) è un primo esempio in cui trovare riferimenti espliciti per una chiesa invitata a lasciarsi alle spalle l’eredità della cultura intransigente.

Nella formulazione del tempo superiore allo spazio (n. 222) e in quella successiva di iniziare processi più che occupare spazi (n. 223), c’è la chiara indicazione del papa argentino di abbandonare la «concezione che affidava ai cattolici il compito di lanciarsi alla conquista degli spazi pubblici (…), per iscrivere nella norma positiva la legge naturale interpretata dalla Chiesa.» (Menozzi, p. 29)

In queste parole c’è il congedo dalla teologia del mandato ai cattolici e l’abbandono del progetto di costruire una società cristianamente ordinata.

Nell’esortazione permane il riferimento a una chiesa attenta i progressi della scienza per illuminarli alla luce della fede e della legge naturale (n. 242), ma – come scrive Menozzi – va contestualizzato con il n. 117: “a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore”.

Ne deriva il passaggio cruciale della “gerarchia delle verità” (n. 36 e 37), nella cui scala il primo posto è riservato al Vangelo.

Non viene, dunque, cancellato il riferimento alla legge naturale, ma viene ricordato che “compito primario della Chiesa non è oggi ricordare agli uomini i principi non negoziabili enunciati dall’autorità ecclesiastica depositaria della retta dottrina” (Menozzi, p. 32), diretta conseguenza della dottrina sulla legge naturale.

Un secondo esempio è dato dai richiami che papa Francesco fa al concilio Vaticano II.

L’ermeneutica conciliare sospinta dai pontificati di Wojtyla e Ratzinger, che sosteneva di prendere le distanze dal criterio della discontinuità per favorire quello della continuità, è stata sostanzialmente funzionale al paradigma dell’ammodernamento praticato durante il post-concilio.

Sullo sfondo di questa lettura ci sono gli aspetti spinosi della riforma liturgica, della collegialità, del ruolo del vescovo, per citarne alcuni, che sulla scorta delle aperture del Vaticano II, hanno infuocato il dibattito post-conciliare.

Rispetto a questa impostazione non può sfuggire che più volte papa Francesco ha parlato dell’irreversibilità dell’aggiornamento conciliare.

Lo ha fatto con la lettera apostolica Desiderio desideravi (giugno 2022), nella quale al n. 31 afferma: “Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del Concilio – anche se un po’ mi stupisce che un cattolico possa presumere di non farlo – e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Concilium”.

Dobbiamo ricordare, a questo proposito, il motu proprio Traditionis custodes (luglio 2021), con cui papa Francesco non cancella le concessioni fatte da Benedetto XVI di ammettere la possibilità di celebrare la messa in latino, secondo il messale preconciliare (motu proprio Summorum pontificum, luglio 2007), ma restituisce ai vescovi la responsabilità di concederne l’autorizzazione, competenza che Benedetto XVI aveva loro tolto.

Una seconda volta Bergoglio parla dell’irreversibilità del concilio nell’intervista concessa al direttore de La Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro (2013): “(…) la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile”.

Un ultimo riferimento, in questa personale rassegna, è al discorso che Francesco ha rivolto nel febbraio 2017 al collegio degli scrittori de La Civiltà Cattolica.

In quella circostanza il papa ha richiamato tre termini: inquietudine, incompletezza, immaginazione, che, detti a una rivista che è stata lungamente “uno dei canali con cui l’anima intransigente del cattolicesimo degli ultimi due secoli si è sforzata di accettare il moderno senza abbandonare la prospettiva per cui la Chiesa, e solo la Chiesa, detiene la verità politica e sociale cui gli uomini devono aderire” (Menozzi, p.147), è parso un altro segno inequivocabile del cambio di passo sulla strada dell’aggiornamento conciliare di cui si è detto.

Quei tre termini, così distanti dal clima intransigente, sono letti da Menozzi come la conferma di una linea che «ha come ovvio presupposto che, nella definizione delle regole del consorzio umano, nessuno può pretendere di essere l’unico depositario della verità e suo esclusivo interprete. È, invece, il contributo di tutti che può aiutare ad individuarla.» (p. 149)

Come detto in apertura, occorrerà attendere la fine del pontificato di Francesco per fare un vero e proprio bilancio del suo pontificato.

Per ora rimane – come scrive Andrea Riccardi – “aperta la domanda su quanto il tempo di papa Francesco inciderà nella storia di lungo periodo del cattolicesimo. L’aspettativa dei settori critici è che il suo pontificato rappresenti una parentesi. Tuttavia (…) non sarà facile ritornare al passato” (Il cristianesimo …, p. 22).

A questo proposito mi piace concludere con le parole di Severino Dianich, in riferimento al tempo presente delle religioni e del cristianesimo (Il Regno 14/2013, p. 475):

«prima esse erano strettamente dipendenti dal loro ruolo nel meccanismo collettivo, ora si stanno liberando da questo vincolo. È l’occasione per una vera e propria reinvenzione che probabilmente ha ancora da riservare delle sorprese. Non siamo che all’inizio, ai primi passi di questo movimento.»

In questo senso, si può dire che papa Francesco assume, interpreta e testimonia le tendenze profonde del nostro tempo, non come un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca.

NOTA:
Questo saggio di Francesco Lavezzi, insieme ad altre Cronache Ecclesiali del medesimo autore  è stato recentemente pubblicato in “Quaderni Cedoc SFR 49” a cura di Andrea Zerbini.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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