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Libano, 2 settembre 1980: scompaiono i giornalisti Graziella De Palo  e Italo Toni

È il 2 settembre del 1980, Italo Toni e Graziella De Palo, due giornalisti italiani inviati in Libano per indagare sui traffici di armi da Beirut, scompaiono senza lasciare tracce. Dopo tutti questi anni, i loro corpi non sono stati ancora ritrovati.

Ci ricordiamo (forse, qualche volta) di Ilaria Alpi. 30 anni fa (il 20 marzo del 1994) la giornalista del Tg3 venne uccisa a Mogadiscio assieme al cineoperatore Miran Hrovatin. Erano nella capitale somala per indagare su un traffico d’armi e di rifiuti tossici tra Italia e Somalia.  Ancora meno ci ricordiamo di altri due giornalisti italiani che nel 1980 sono andati incontro alla stessa sorte.  Graziella De Palo e Italo Toni erano in Libano, anche loro sulle tracce di un traffico d’armi . Il 2 settembre vengono rapiti, uccisi e sepolti come spazzatura.

Il traffico d’armi è sempre di moda. E sul traffico d’armi, e sulle guerre si giocano interessi enormi. Interessi “extrastatali” ma che coinvolgono direttamente i governi e i servizi degli Stati che si dicono democratici. Italia compresa. Fare giornalismo, indagare sugli intrecci occulti del traffico d’armi è un mestiere pericoloso. Un mestiere che è costato la vita a tanto giornalisti.

Graziella De Palo, 24 anni, indaga sui traffici di armi per il quotidiano Paese Sera e per la rivista l’Astrolabio, mentre Italo Toni, 51 anni, è un esperto di questioni mediorientali e per questo collabora con diverse testate, anche internazionali.
Da dieci giorni si trovavano in Libano per raccontarne la guerra civile, coacervo di contraddizioni politico-militari e terreno di scontro di più raggruppamenti, nonché laboratorio di quella che sarà, due anni dopo, l’invasione israeliana mossa da Ariel Sharon. Ma soprattutto il loro obiettivo è indagare sui traffici d’armi e sugli intrighi internazionali che vedono anche la partecipazione dei servizi segreti italiani.

Italo e Graziella sono ospiti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), formazione di estrazione marxista guidata da George Habbash, che gli ha promesso di condurli a sud sulle colline dove si trova il castello di Beaufort, sulla linea dello scontro con l’esercito israeliano.
I due hanno scoperto che proprio in Libano avvengono traffici internazionali d’armi in violazione degli embarghi sanciti dall’Onu: per loro è quindi una grande occasione unirsi a un gruppo di guerriglieri per raccontare proprio questo tipo di traffici.

Il 2 settembre del 1980, dopo aver confermato le stanze d’albergo e avvertito l’ambasciata italiana, partono con alcuni membri del FPLP. Da questo momento le loro tracce scompaiono nel nulla.

E’ importante leggere cosa scriveva una giovanissima Graziella De Palo per L’Astrolabio il 14 giugno 1978:

Disarmo: perché parlarne soltanto all’Onu?

Tempi duri per gli « 007 ». La faccenda ha inizio verso la metà di maggio, subito dopo le dimissioni del ministro Cossiga: si parla di terremoto nei servizi segreti, di «decimazione », di epurazione di massa nel quadro di una vasta operazione di ricambio a tutti i livelli all’interno del Sismi. Sulla scia dell’affare Moro, le scosse immediate sembrano raggiungere il cuore stesso dei più insinuanti e ambigui centri di potere italiani (un potere, non bisogna dimenticarlo, che è soprattutto di vecchia data e affonda salde radici nel passato). Ma fino a che punto si può parlare di effettivo smantellamento di questi centri, o almeno di quei settori dei servizi segreti che sono più pericolosi e sfuggenti? Per quanto riguarda l’ex ufficio REI (responsabile della disseminazione delle armi), in larga misura incontrollato nonostante la sua delicata funzione, sembra che per il momento non sia stato ancora neppure sfiorato dal « terremoto ». E sembra per di più, che le stesse zone colpite non abbiano subito gravi danni, trattandosi, almeno secondo alcune indiscrezioni, di « licenziamenti » che riguardano personaggi secondari e addirittura dattilografi, dipendenti dei servizi segreti.

Occorre a questo punto ricordare che il già citato ufficio REI (a suo tempo comandato dal colonnello Rocca, morto nel ’63 in circostanze misteriose) ha l’ultima parola sull’autorizzazione delle vendite di armi italiane all’estero, e di conseguenza si trova oggi nell’occhio del ciclone, in seguito alla scoperta che la strage di via Fani è stata compiuta con armi italiane (mitra Beretta e munizioni Fiocchi) destinate all’Egitto e rientrate per vie tortuose in patria. E non si tratta certo della sola scoperta di armi di produzione italiana « deviate » rispetto alla loro originaria (e « innocua ») destinazione per finire nelle zone calde del globo o in mano a gruppi di terroristi. È il caso, per esempio, di una partita di armi leggere venduta tempo fa alla Bulgaria e ritrovata nelle mani di terroristi turchi; ed è anche il caso di un aereo-fantasma carico di esplosivi della Snia Viscosa diretto in Mauritania, scoperto solo a causa di un guasto che lo ha costretto ad atterrare a Malaga; o delle armi fornite, tramite Libia, ai terroristi irlandesi.

I   controlli mancati sulle « armi-fantasma »

Come avviene a « fuga » di armi- dalle destinazioni originarie e la spedizione verso nuove zone? Quali sono le reali connessioni fra l’ufficio del Sismi i addetto al controllo, il comitato interministeriale per la vendita di armi e le ditte esportatrici? Una prima risposta la fornisce il Presidente della Commissione Difesa della Camera, Falco Accame, dopo aver portato il « caso » in Parlamento, sottoponendolo all’attenzione di Andreotti nel corso della seduta del 19 maggio: « È ormai evidente dice l’on. Accame – che questa attività di import-export che permette la fuga di armi da quei paesi ai quali sono ufficialmente destinate è esercitata da apposite ditte di copertura all’estero che si assumono il compito di smistare le varie partite. Da noi, proprio a pochi passi dal Ministero della Difesa, vi è una grossa ditta di’esportazioni (la Tirrena, ndr) della quale. sarebbe interessante controllare le attività. E altrettanto interessante sarebbe scoprire se vi sono ditte che assicurano il traffico con i governi di Pretoria e di Gerusalemme. Ho chiesto al Presidente del Consiglio un preciso intervento in questo senso, e anche in relazione alla recente notizia che l’Italia non solo fornisce armi al Sud Africa, ma che alcune ditte di La Spezia addirittura addestrano il personale che deve usare queste armi».

Ma all’interno di questo gioco più o meno scoperto, nel quale si intrecciano le responsabilità delle industrie produttrici e quelle delle ditte di comodo che smerciano le forniture, qual è il ruolo dei servizi segreti? « Intanto – continua Accame – è ai servizi segreti che spetta il compito di rilasciare l’autorizzazione per qualsiasi esportazione di armi, compito che dovrebbe essere svolto esercitando una effettiva funzione di controllo e rispettando le precise disposizioni dell’ONU. Nel rispetto di queste disposizioni, i servizi segreti e lo stesso comitato interministeriale avrebbero dovuto opporsi alla spedizione di cannoni in Sudafrica via Francia. E ci sono anche dati più precisi, sui legami tra agenti dei servizi segreti e ditte che producono é esportano armi: un ex agente del Sid, per esempio, è diventato oggi agente commerciale in Libano, con il compito di organizzare il traffico di armi per il Medio Oriente. Le armi che arrivano con questo tramite possono rientrare in. Italia in molti modi, per esempio con i TIR o nascosti nelle reti dei pescherecci. Diversi agenti preposti al controllo dell’esportazione di armamenti, inoltre, hanno, poi trovato uh buon incarico (non tanto tecnico quanto di “pressione”) nelle ditte italiane fornitrici. Il generale Michele Correra, che in passato ha svolto funzioni di controllo sulla vendita di armi, è oggi impiegato in una ditta romana di armamenti (La Selenia, ndr). E alla stessa ditta appartiene l’ingegner De Martino, che nello stesso tempo è membro del comitato interministeriale per la vendita delle armi. È facile a questo punto spiegare le inadempienze del comitato di controllo: se i consulenti si trovano nella comoda posizione di controllori di se stessi diventa impossibile evitare gli inghippi ».

Sul fronte del governo (non dimentichiamo che i fatturati delle industrie belliche, alimentati anche con questi mezzi, hanno portato l’Italia nel giro di pochi anni al quinto posto tra i paesi esportatori di armi) qualcosa, sembra muoversi proprio sull’onda della vicenda Moro e in base alla considerazione che i traffici d’armi finiscono col favorire il terrorismo stesso a livello mondiale: lo testimoniano le risposte di Andreotti alla Camera e al Senato e il riconoscimento della necessità di nuove norme per il controllo sulla vendita di armi. Una proposta di legge già è pronta in Parlamento: primo firmatario è l’on. Accame, che dopo l’insabbiamento di un precedente progetto (che giace alla Camera dal febbraio. dello scorso anno), ha deciso di ripresentare le norme in maniera più articolata. La proposta prevede, tra l’altro, che non possano far parte per nessun motivo del Comitato interministeriale addetto al rilascio delle licenze di esportazione rappresentanti di ditte nazionali, e istituisce come ulteriore strumento di controllo un Comitato parlamentare composto da 15 senatori e 15 deputati membri di diverse Commissioni. L’esportazione di materiale bellico è inoltre vietata nei confronti di quei paesi « la cui politica sia stata censurata come aggressiva, dittatoriale, razzista o comunque non rispettosa dei diritti umani, da organismi internazionali di cui l’Italia è membro », e « in paesi in cui sia in atto o in preparazione un conflitto armato » (salvo nei casi riconosciuti dalla risoluzione 2787 delle Nazioni Unite). Una norma, questa, di cui appare più che mai urgente l’applicazione, se si considera che l’Italia gonfia il pacchetto delle commesse belliche esportando in paesi come Sud Africa, Rhodesia, Marocco, Cile, Argentina, Brasile e Zaire.

Il « caso Italia », intanto, rimbalza alle Nazioni Unite, e raccoglie qualche eco alla Sessione speciale aperta a fine maggio sul disarmo; è il via per allacciare il discorso sul boom dei trafficanti clandestini e dei floridi mercanti d’armi (problema che del resto non affligge solo il nostro paese) a quello più vasto sulla distensione mondiale. La questione è all’ordine del giorno: nonostante le dichiarazioni ufficiali nell’Assemblea ONU, la tendenza generale degli ultimi anni è volta ad un accelerato riarmo. I meccanismi di questa tendenza (e lo confermano i risultati del recente vertice NATO) sono individuati dai paesi dell’Alleanza Atlantica nell’esigenza di bilanciare la superiorità bellica (per ora soltanto presunta) degli avversari del Patto di Varsavia. In realtà la tesi dei sostenitori del riarmo è contraddetta dagli stessi dati che emergono in ambienti ufficiali americani. Il 4 agosto ’77, infatti, il segretario della difesa Harold Brown dichiarava ad un apposito Comitato del Senato USA che « con una notevole semplificazione gli Stati Uniti possono sentirsi sicuri con soli due milioni di uomini sotto le armi, perché i tre milioni di uomini delle forze dei nostri alleati ci permettono di bilanciare i poco più di cinque milioni delle forze dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia ». E, per di più, il segretario Brown non considera che contemporaneamente l’URSS si trova a fronteggiare lungo i confini asiatici i quattro milioni di soldati di una Cina decisamente antagonista.

II    Un Comitato permanente per il disarmo

Per impostare una globale strategia di disarmo, dunque, è prima di tutto necessario far luce, dati alla mano, sui reali rapporti di forza tra i blocchi di potenze, avviando nello stesso tempo un profondo movimento nell’opinione pubblica che offra indicazioni per una politica di effettiva distensione. È questo il senso dell’iniziativa presa da un gruppo di personalità della politica, della cultura e delle associazioni di ex combattenti o partigiani, che hanno reso pubblico (9 aprile) un loro appello per il disarmo e che si sono poi riuniti il 25 maggio per la formazione di un Comitato permanente. La riunione ha una storia. Il suo inizio risale all’estate scorsa, nel pieno della polemica sorta a livello mondiale sulla costruzione della bomba al neutrone. Il dibattito che ne è nato, all’interno del quale va inserito anche il contributo italiano, ha finito per esercitare una notevole funzione di pressione, che ha indotto Carter a sospendere la costruzione della bomba.

Caduta la questione circoscritta della bomba N, negli ambienti dai quali è in seguito emerso l’appello del 9 aprile si è compresa la necessità di una battaglia politica più generale per il disarmo, che affiancasse l’opera dei governi e delle Nazioni Unite. Da qui al Comitato permanente per il disarmo, il passo è breve. L’idea nasce in dicembre al Teatro Centrale, nel corso di un dibattito sulla bomba N con l’on. Granelli, il sen. Anderlini, il sen. Pasti, l’ing. Vacca e monsignor Mongillo. Dopo la prima piattaforma elaborata nell’appello, la riunione del 25 maggio si propone di costruire un programma operativo e di allargare le adesioni (che comprendono personalità politiche di tutti i partiti dell’arco costituzionale, dirigenti delle associazioni dei mutilati e invalidi di guerra, dei combattenti e reduci, delle vittime civili di guerra, dei mutilati per servizio e delle associazioni partigiane) verso esponenti del mondo della cultura, del sindacato e degli enti locali.

L’idea del Comitato permanente è illustrata dal sen. Anderlini nella sua relazione introduttiva: accolta la proposta, si dà vita immediatamente ad un gruppo provvisorio di coordinamento presieduto dallo stesso sen. Anderlini. Viene quindi messa allo studio la possibilità di inviare una delegazione alla sessione speciale dell’ONU, decidendo intanto di spedire al Presidente dell’Assemblea Mojsov e al segretario generale dell’ONU due telegrammi, nei quali si definisce «indispensabile per la stessa sopravvivenza dell’umanità una vigorosa ripresa della politica della distensione e l’inizio di una incisiva politica di disarmo per liberare la umanità dal fardello delle spese militari e dalla prospettiva dell’olocausto atomico. Urge in particolare bloccare ogni costruzione di nuove armi e vettori nucleari, smobilitare arsenali atomici, tattici e strategici, impegnarsi per la creazione di zone disatomizzate, controllare rigorosamente il commercio delle armi convenzionali e in particolare disincentivare zone pericolosamente calde del mondo quali Medio Oriente, Africa, America Latina ».

Le associazioni combattentistiche e della resistenza decidono intanto di fissare una prima scadenza per la fine del ’79, con un grande convegno mondiale sul disarmo da tenersi a Roma. Un’importante occasione data all’Italia per conquistarsi una posizione trainante nella strategia di distensione. In attesa della prossima mossa.

Graziella De Palo
L’Astrolabio, 14 06 1978

III  Appello per il disarmo

« E’ necessario riprendere con vigore l’azione per il disarmo. La conferenza che su questo argomento l’ONU ha indetto per il prossimo maggio, impone che – in tempi brevi – anche l’Italia si prepari a dare il suo contributo a questa che è una delle questioni più impegnative e drammatiche del nostro tempo. Il governo italiano ha il merito di essersi fatto copromotore dell’assemblea straordinaria e tuttavia l’azione dell’Italia in questo campo non può esaurirsi in quella del governo e delle istituzioni ufficiali.

Un’ampia partecipazione dell’opinione pubblica è necessaria per sospingere i governi di tutto il mondo sulla difficile ma non sostituibile via del disarmo.

Necessario è anche che la nostri opinione pubblica sia più ampiamente informata sui dati del problema quali si pongono per l’Italia e per le altre nazioni. Necessario è che le grandi potenze riprendano il loro dialogo costruttivo e che tutte le questioni aperte nel contenzioso internazionale vengano posto sul tavolo di una grande trattativa globale, alla quale Paesi come l’Italia possano dare un reale contributo.

L’iniziativa, del presidente Carter di sospendere ogni decisione sulla bomba  al  neutrone dimostra come la pressione della opinione pubblica possa contribuire a rimuovere gli ostacoli e ad accelerare i. tempi per una trattativa concreta. Bisogna eliminare tutte le difficoltà che ancora permangono sul terreno della distensione e del disarmo onde avviare l’umanità – in un mondo in cui alla pace non c’è alternativa – sulla via del progresso sociale e civile”.

Inutile dire che questo come i tanti successivi appelli per il disarmo siano rimasti inascoltati. Le guerre continuano e continua, sempre più fiorente ed omicida il traffico d’armi

In copertina: una foto d’archivio di Italo Toni e Graziella De Palo
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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

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