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9 settembre, Il giorno della fuga, della vergogna. E del ritorno a casa

A volte è più importante il giorno dopo.

Sappiamo tutti cosa successe l’8 settembre 1943. Quel giorno ha un nome passato alla storia: Armistizio. “Armistizio”, per non chiamarlo col suo vero nome, una Resa senza condizioni.  Una resa che divise sciaguratamente l’Italia in due, una resa talmente pasticciata, incoerente, incurante delle condizioni dei nostri soldati e del popolo italiano da essere molto peggio di una semplice sconfitta. Ovviamente la data dell’8 settembre non figura tra i giorni delle feste civili.

Ma in fondo, al di là di una firma in calce a un documento, in quell’8 settembre non accadde molto. Fu molto più importante e decisivo quello che successe  – e che cominciò a succedere – il giorno successivo, il 9 settembre 1943.

La fuga di Roma. All’alba del 9 settembre il re d’Italia Vittorio Emanuele III e il presidente del Consiglio maresciallo d’Italia Pietro Badoglio lasciano precipitosamente la capitale. Sono diretti a Brindisi, insieme al sovrano e al capo del Governo viaggiano alcuni esponenti della Real Casa, del governo e dei vertici militari. La fretta con la quale la fuga fu realizzata comportò l’assenza di ogni ordine e disposizione alle truppe e agli apparati dello Stato utile a fronteggiare le conseguenze dell’Armistizio, pregiudicando gravemente l’esistenza stessa di questi nei convulsi eventi bellici delle 72 ore successive.

Il caos al fronte.  Infatti, vista l’assenza di ordini e disposizioni da parte del Governo e degli altri comandi militari, i soldati al fronte (nei vari fronti) vengono lasciati completamente soli. Il 9 settembre è il giorno della Rotta. I soldati lasciano le prime linee alla ricerca di un qualsiasi mezzo di trasporto. In tanti si nasconderanno (gli “imboscati”) per fuggire all’arruolamento nel nuovo esercito della Repubblica di Salò. Altri raggiungeranno le formazioni partigiane in montagna.
Ma in quel 9 settembre prima di tutto si cerca tornare a casa. Chi era sotto le armi e ha vissuto in prima persona quelle ore convulse, non l’ha più dimenticato.
Come mio padre che me lo racconta trent’anni dopo. Il 9 settembre del ’43 aveva appena compiuto 19 anni, era stato  arruolato con l’ultima leva e stanziato con il suo plotone in Abruzzo, sull’altopiano, vicino a Pescasseroli. Quel 9 settembre decise che prima di tornare a casa, a Ferrara, aveva un’altra cosa da fare. Raggiungere Roma con qualche mezzo di fortuna e andare a trovare suo fratello Alfredo: studiava dai Gesuiti e non lo vedeva da 3 anni, dall’inizio della guerra.
A Roma ci arrivò dopo 2 giorni. Un camion lo lascio all’imbocco di piazza del Popolo, appena prima dell’alba. Mio padre entrò in quell’immenso spazio, in mezzo alla piazza un  grande cerchio di persone si scaldava davanti a un fuoco improvvisato. “Spuntava il sole e illuminava quella grande bellezza, così pensai che la guerra era veramente finita”. Purtroppo mio padre si sbagliava, c’era ancora un anno e mezzo di guerra davanti a noi, la più cruenta, la più terribile.
In copertina: Vittorio Emanuele III con il generale Pietro Badoglio
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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

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