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Franz Kafka, uomini e topi

Oggi cent’anni fa, il 3 giugno del 1924, moriva Franz Kafka. Aveva solo 41 anni. La sua tomba è nel nuovo cimitero ebraico di Praga a Žižkov. Una lapide alla base della stele funeraria commemora le tre sorelle dello scrittore, morte nei lager nazisti fra il 1942 e il 1943.

Non sono un critico letterario, tantomeno un germanista. Ma un semplice lettore, un appassionato lettore se volete. Se penso a Kafka mi vengono sempre mille pensieri, mille cose da riflettere e da scrivere, ma Kafka è talmente enorme smisurato buio profondo (chiamatelo pure genio, uno dei pochissimi che si sono affacciati nel mondo delle lettere), che ogni mia parola mi pare mancare il bersaglio, ridurre a poco la vastità del suo pensiero e della sua scrittura.

Franz Kafka è stato un genio universalmente riconosciuto. Per me, e per molti, il più grande autore del ‘900.  Ma perché un Genio? Per provare a rispondere mi viene in mente Giacomo Leopardi, il genio assoluto dell’ ‘800. Ed è interessante come anche la vita di Kafka e di Leopardi sembrano seguire lo stesso faticoso tragitto: un’esistenza infelice, incompiuta, troncata dalla malattia, E anche dal punto di vista letterario: un mezzo o un assoluto fallimento. Un fallimento ancora più duro da digerire, perché entrambi avevano una esatta coscienza del proprio valore.

È noto che dobbiamo al “tradimento” del suo fraterno amico Max Brod, se possiamo leggere le opere, compiute e incompiute di Kafka. In vita era riuscito a pubblicare solo qualche racconto, aveva bruciato  gran parte dei suoi manoscritti e prima di morire aveva chiesto a Brod di distruggere tutto il resto. La gran parte quindi dell’opera letteraria di Kafka è postuma: Il Castello, Il Processo, Amerika, La Tana… Anche per l’opus di Leopardi è rintracciabile un analogia. Certo, aveva pubblicato e con un certo successo I Canti e con molta meno fortuna le straordinarie Operette Morali (le rileggo continuamente), ma quello che viene riconosciuta come la sua “opera mondo”, l’inesauribile miniera, è lo Zibaldone dei pensieri, pubblicato postumo tra il 1898 e il 1900 da Giosuè Carducci.

Franz Kafka a circa 34 anni, luglio 1917 | © Verlag Klaus Wagenbach

Il parallelo, poco scientifico e molto personale, tra Kafka e Leopardi presenta altri capitoli ma mi porterebbe troppo lontano. Voglio invece provare a rispondere a mio modo alla domanda iniziale: perché Franz Kafka è un genio? Non solo, non tanto, per la sua scrittura, per il suo stile, per la sue invenzioni. Del resto, se bastasse scrivere bene saremmo letteralmente sommersi dalla genialità, non sapremmo dove metterli tutti questi geni. Due esempi. Dino Buzzati (poverino, perseguitato tutta la vita  dall’accusa di far il verso a Kafka) è stato un ottimo scrittore, non un genio. E a un’amico che mi decantava l’ultima fatica letteraria di Alessandro Baricco, mi sarei sentito di rispondere come Flaiano (o era Moravia?): “non l’ho letto e non mi piace”. Niente di personale, è solo per mancanza tempo: Baricco è bravo a scrivere, ma non è Kafka. E nemmeno Buzzati.

Invece Kafka – credo che lui stesso ne avesse coscienza – spacca a metà la letteratura, la cultura, il sentimento del tempo. C’è un prima e un dopo Kafka, e noi cent’anni dopo non possiamo ignorarlo. Dopo di lui – anche senza aver letto di lui nemmeno un rigo – non possiamo ignorare quello che ha svelato. Grazie a lui vediamo (possiamo vedere) la violenza insensata del Potere e l’irrimediabile solitudine dell’uomo. Vediamo (possiamo vedere se ci rimane un po’ di coraggio) quanto buio, quanta ombra pesa sopra gli oggetti. Vediamo e riconosciamo come il mistero attraversa prima di tutto noi stessi.

Con Kafka, grazie a Kafka, facciamo conoscenza ed esperienza della Modernità, la stessa che muove le lancette del nostro tempo presente. Più di Marx, più di Freud, Kafka descrive meticolosamente le insidie che nasconde una modernità che ci aveva promesso la felicità e che invece ci ha reso più fragili, indifesi davanti all’imponderabile. Come è capitato a Gregor Samsa. Questo il celebre incipit de La Metamorfosi (1912)
“Una mattina Gregor Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso. Era disteso sul dorso, duro come una corazza, e alzando un poco il capo poteva vedere il suo ventre bruno convesso, solcato da nervature arcuate, sul quale si manteneva a stento la coperta, prossima a scivolare a terra. Una quantità di gambe, compassionevolmente sottili in confronto alla sua mole, gli si agitava dinanzi agli occhi.”

Non siamo stupidi del tutto. Cerchiamo di difenderci (dal male, dal Potere, dal nemico), proviamo a nasconderci, usiamo tutta la nostra perizia e furbizia, ma scontando tutta la nostra impotenza ed ingenuità. Così La Tana (1924), la nostra tana che ci siamo costruiti, abbiamo pensato a uno specchietto per le allodole, una falsa entrata e abbiamo occultiato la vera entrata per renderla inaccessibile a qualsiasi invasore.
“Ho assestato la tana e pare riuscita bene. Dal di fuori, in verità, si vede soltanto un gran buco che però in realtà non porta in nessun luogo. Già dopo pochi passi s’incontra la roccia naturale e solida. Non voglio vantarmi di aver adottato questa astuzia con intenzione […] Ma non mi conosce chi pensa che io sia codardo e scavi questa tana soltanto per vigliaccheria. Ad almeno mille passi di distanza da questo buco si trova, coperto da uno strato spostabile di musco, il vero accesso alla tana che è al sicuro come può essere sicuro qualcosa al mondo.”

Un’ultima annotazione: contrariamente a quanto qualcuno vi avrà detto,  Kafka non è una lettura difficile. Angosciosa? Claustrofobica? Forse per le prime pagine, poi farete una scoperta: ma quello sono io, sta parlando di me, di noi, del mio universo, dell’ombra che ci avvolge. Franz Kafka è entrato nella vostra tana.

 

 

Se avete letto fin qui, consiglio la visione e l’ascolto del magnifico racconto di Franz Kafka Il messaggio dell’imperatore, tradotto dal tedesco per Periscopio da Francesco Tosi, lettura di Fabio Mangolini. [guarda  la videolettura]

 

In copertina: immagine tratta da culturificio.org

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

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(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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