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Lo sciopero logora chi non lo fa

Per capire perchè è nato lo sciopero e a cosa serve, bisogna tornare a scuola, ma proprio sul banco, quando si facevano le “ricerche” – se ne trovano ancora di quel tipo novecentesco, su internet. Curioso che, per capire bene il succo delle cose ai tempi di google, occorra tornare ai tempi dell’enciclopedia “Conoscere”. Ma se le migliaia di informazioni a disposizione sul web non mostrano il succo delle cose, non c’è modo migliore di tornare al liceo. Meglio anche di Karl Marx.

La vita degli operai era completamente regolata in base ai ritmi della produzione: gli operai lavoravano per molte ore consecutive e disponevano di pochissime pause. Spesso erano costretti a mangiare mentre lavoravano per seguire le macchine che si trovavano in edifici malsani, poco areati e spesso poco illuminati….La presenza di ragazzi nelle fabbriche fu una costante del processo di industrializzazione, con effetti disastrosi per la società sul lungo periodo: individui disfatti sul piano fisico (malformazioni, malattie professionali, sviluppo stentato) e sul piano morale (mancata istruzione, lontananza dalla famiglia). “ (da “La vita degli operai”, Liceo Scientifico Elio Vittorini, rintracciabile su Eliovittorini.edu.it).

“La rivoluzione industriale provocò complessivamente un impressionante aumento della ricchezza, ma questa andò principalmente a favore delle classi alte, anzitutto della borghesia capitalistica. Gli operai dal canto loro ricevevano bassi salari, e le donne e i bambini – impiegati su vasta scala – retribuzioni ancora inferiori; i lavoratori in generale non potevano fare affidamento su un impiego stabile poiché ogni fase sfavorevole del ciclo produttivo causava ondate di disoccupazione senza che essi potessero contare su alcuna forma di protezione sociale. Gli orari di lavoro erano mediamente da 13 a 15 ore giornaliere. I ragazzi superiori ai 6 anni erano impiegati in larga misura in fabbrica; e con essi persino bambini di 5 o addirittura di 4 anni. La malnutrizione era la regola; le abitazioni degli operai erano generalmente miserabili e malsane; numerosi minatori dormivano nelle stesse miniere. Intorno al 1850 il numero degli operai nelle nuove industrie raggiunse in Inghilterra circa 3 milioni.” (Treccani, Enciclopedia dei ragazzi).

Lo sciopero generale del 1842, noto anche come Plug Plot Riots iniziò tra i minatori nello Staffordshire, in Inghilterra, e si diffuse presto in tutta la Gran Bretagna, colpendo fabbriche, mulini nello Yorkshire e nel Lancashire e miniere di carbone da Dundee al Galles del Sud e alla Cornovaglia. Lo sciopero fu influenzato dal movimento cartista, un movimento di massa della classe operaia dal 1838 al 1848. …La seconda fase dello sciopero ebbe origine a Stalybridge. Un movimento di resistenza all’imposizione di tagli salariali nei mulini, noto anche come “Plug Riots”, si diffuse fino a coinvolgere quasi mezzo milione di lavoratori in tutta la Gran Bretagna e rappresentò il più grande esercizio di forza della classe operaia nella Gran Bretagna  del diciannovesimo secolo.  La repressione che seguì fu “senza pari nel diciannovesimo secolo… Solo nel Nord-Ovest oltre 1.500 scioperanti furono processati” .(Wikipedia)

Su Internazionale si può leggere (qui) una breve storia degli scioperi in Italia, a partire da quello del 1900 di Genova. Nei cento anni passati in rassegna non va dimenticata la parentesi fascista: nel Codice Rocco lo sciopero, tollerato nel Codice Zanardelli, ridivenne “delitto contro l’economia pubblica”. Poi si passò attraverso l’elevazione dello sciopero a diritto nella Costituzione del 1948 (art.40), con le conseguenti sentenze della Corte Costituzionale che dichiararono illegittime le norme di legge penale che a quel punto risultavano in contrasto col dettato costituzionale, di rango superiore.

Se le persone proprietarie solo delle proprie braccia non avessero lottato insieme, nella storia, per migliorare le proprie condizioni, per quel che interessava ai detentori del capitale le donne incinte lavorerebbero in fabbrica ancora appese per le cinghie e i bambini starebbero in fabbrica a sorvegliare le macchine 17 ore al giorno. Per chi pensa che questa sia una ricostruzione vintage, riferita ad una realtà di fabbrica novecentesca che non esiste più, attenzione: certe ritmiche e modalità imposte del lavoro – durate del dialogo commerciale prefissate per massimizzare il numero dei contatti, pause iper compresse tra un contatto e l’altro –  sono ricomparse nei call center e nelle filiali digitali. E tutto questo non perché “il capitalista” sia un essere malvagio in sé, ma perché gli Adriano Olivetti o i Brunello Cucinelli sono eccezioni dentro una regola di funzionamento economico il cui obiettivo è il massimo profitto individuale, non il massimo benessere comune. E questa connotazione si è accentuata con il passaggio al capitalismo finanziario.

Sto esagerando? Se così sembra, è perché siamo abituati a guardare le cose coi nostri occhi di occidentali, al caldo, al riparo di un contratto e con delle tutele – ottenute non per legge di natura, ma dopo decenni di battaglie, appunto. Ma nel resto del mondo non va così: infatti il resto del mondo preme alle nostre confortevoli porte, e la cosa incredibile è che, per buona parte della cosiddetta pubblica opinione, i nemici sono diventati loro. Degli altri – tassati, loro e le loro aziende, la metà dei loro dipendenti – invece leggiamo le gesta sulle pagine di Forbes.

In ragione e alla luce della storia di tutto questo, ci sono due prese di posizione sullo sciopero che mi fanno particolarmente arrabbiare. La prima è quella di coloro che considerano gli scioperanti come degli sfaccendati che allungano il finesettimana a spese della collettività. Lo considero alla stregua di uno sputo in faccia, sia per la storia di questo strumento, sia per il presente, specie se rivolto contro chi rinuncia a un giorno di stipendio essendo già in notevoli difficoltà economiche. La seconda è l’inerzia di quella massa lamentosa ma informe – sfortunatamente ascrivibile spesso al “ceto medio”, il maggiormente beffato dalla manovra di questo governo cialtrone –  che piange e non muove un dito. Non va a votare, non partecipa, non manifesta, non sciopera, però frigna. Tanto non cambia niente. Come se cambiare non fosse uno scarto che accade prima di tutto dentro di noi. E se facciamo qualcosa per noi, per la nostra dignità, per il nostro amor proprio, e scopriamo di essere in tanti a farlo insieme, anche l’ingiusto e sconfortante panorama che ci circonda appare, almeno per qualche ora, sotto una luce meno disperata.

 

 

 

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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