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L’Italia è una Repubblica fondata … sui Profitti

L’ultimo rapporto Inapp (Istituto Nazionale Analisi Politiche Pubbliche) sull’occupazione riporta informazioni utili a capire i processi storici in atto nel nostro paese. Il primo aspetto riguarda la crescita degli occupati che ha raggiunto il massimo a ottobre 2023 (23,694 milioni). Ha inciso il gigantesco investimento aggiuntivo del PNRR europeo che si protrae fino al 2027. Non sappiamo però a quanto ammonta il monte ore lavorate: anche in passato, accanto ad un numero maggiore di occupati, erano aumentati i part-time, gli stagionali, i tempi determinati per cui il monte ore lavorate retribuito scendeva.

Un dato eclatante è che l’Italia non riesce ad aumentare la massa salariale. Una conferma viene dalla quota % dei salari e dei profitti sul PIL al costo dei fattori, che indica come la quota % dei salari sia in calo dal 1960 al 2022. Quando la Repubblica è nata, questa quota % dei salari sulla ricchezza nazionale prodotta era dell’80% e il 20% andava ai profitti. Era quindi corretto quanto era scritto nella Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro”. Dopo 70 anni i profitti sono raddoppiati e i salari sono diminuiti. Sta diventando dunque una Repubblica fondata sul Capitale? Come mai avviene questo?

Da un lato la produttività del lavoro non cresce più dalla fine degli anni ’90, dall’altro i salari reali (post-inflazione) sono cresciuti solo dell’1% (+7% nominali), mentre nella media dei paesi Ocse sono cresciuti in termini reali del 32,5%, per cui l’Italia è passata in 30 anni dal 9° posto del 1992 (per livello dei salari) al 22° nel 2022 (sui 35 paesi Ocse): un arretramento vistoso.

I dati sono una media, dietro la quale è possibile scorgere alcuni settori che la alzano: specie nella manifattura al nord le nostre imprese vanno bene, esportano sempre più e crescono anche i salari reali dei loro dipendenti (il 9% usufruiscono di premi di produttività a bassa tassazione). Ci sono poi alcune imprese che hanno capito quanto sia importante valorizzare il cosiddetto “capitale umano” (le persone più ancora della tecnologia fanno la differenza) e distribuiscono benefici salariali, di riduzione di orario e anche di compartecipazione ai profitti che rappresenta, a mio avviso, un modo per ridimensionare il ruolo del capitale finanziario nella nostra società e creare una vera condivisione dei profitti creati da una impresa. Ma per la maggioranza dei dipendenti i salari perdono inesorabilmente potere d’acquisto.

L’Italia ha sofferto molto dopo la crisi finanziaria del 2009-12 e nel 2020 col Covid. L’ingresso nel mercato unico europeo, a partire dal 2004, di 100 milioni di lavoratori dei paesi dell’est ha “requisito” i principali benefici del grande mercato unico europeo. Una ulteriore espansione dell’Europa ai Balcani e all’Ucraina, comporterà di fatto per i nostri lavoratori un altro indebolimento (gli allargamenti vanno fatti con gradualità).

Il tasso di assunzioni maggiore per classe di età riguarda gli over 65 (+20%), a conferma di quanto sarebbe strategico incentivare il part-time degli anziani negli ultimi 3 anni, pagato pieno, e assumere un giovane a tempo pieno (come ha fatto Luxottica). Un fattore che limita le possibilità da parte di Stato, Regioni, Comuni di creare occupazione aggiuntiva (il PNRR lo vieta perché devono essere solo spese per servizi o investimenti) è l’elevata evasione fiscale a cui si aggiunge l’elusione – legale – dovuta a vari benefici, tra cui l’assenza di tassazione sulle grandi eredità e sui guadagni da trading e speculazione finanziaria. Lo stesso rapporto Inapp si rende conto che un limite del capitalismo è l’incapacità di creare piena occupazione. Per questo economisti come Hyman Minsky propongono politiche keynesiane di aumento della spesa pubblica per contrastare il deterioramento ambientale, il degrado urbano, la diseguaglianza di genere; politiche che aumentano la massa salariale e danno l’ opportunità di far affiorare le persone che non lavorano. Ma l’Italia si trova in una “trappola” tra le richieste di austerità dell’Europa (in parte mitigate e rinviate al 2027) di ridurre il suo debito e la necessità opposta di aumentare occupati e salari. Difficile pensare che senza svolte radicali si possa uscire da questo pantano, che allontana sempre più i cittadini dalle elezioni e mina le basi stesse della democrazia, incapace di dare una prosperità diffusa, come avvenne nei primi 30 anni del secondo dopoguerra.

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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