Libano: La no man’s land del fronte nord
Raccontare tutta la storia…
La United Nations Interim Force in Lebanon – Forza di interposizione provvisoria in Libano delle Nazioni Unite – è una delle missioni di pace più longeve delle Nazioni Unite, con 46 anni di ininterrotta presenza operativa. E’ stata creata dal Consiglio di Sicurezza con le due risoluzioni 425 e 426 del 19 marzo 1978 in seguito all’invasione militare del Libano da parte di Israele, con il mandato di confermare il ritiro delle truppe israeliane dal Libano, ristabilire la pace e la sicurezza internazionale e assistere il governo libanese nel ripristinare la sua effettiva autorità nell’area.
Oggi conta la presenza di militari provenienti da oltre 40 paesi del mondo, sedici dei quali di provenienza europea e il contingente italiano, sempre presente in Libano, è quello che per più tempo ha a turno comandato l’intera forza multinazionale.
Con 374 mezzi terrestri, 6 unità aeree e 1.071 militari schierati sul territorio, l’Italia, a capo del settore ovest, con quartier generale a Naqoura, figura attualmente come secondo contributore netto della missione, superata solo dall’Indonesia.
La base U.N.I.F.I.L. di Camp Naqoura, salita alla ribalta delle cronache in seguito agli attacchi subiti da parte dell’esercito israeliano, è l’ultimo avamposto dei caschi blu dell’ONU e si trova localizzata sulla costa mediterranea a ridosso della cosiddetta Blu Line, ovvero la linea di demarcazione lunga 120 km che funge da confine virtuale tra Siria, Libano e Israele.
La missione è inquadrata da successive risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, fra le quali spicca la numero 1701, adottata all’unanimità l’11agosto 2006, che ne ha esteso i compiti potenziandone sia gli effettivi (da duemila precedenti a quindicimila attuali),sia ampliandone le “regole di ingaggio”(che comprendono la possibilità di usare la forza per impedire ostilità all’espletamento delle proprie funzioni), con cui avrebbe dovuto monitorare la cessazione delle ostilità, sostenere le forze armate libanesi durante il ritiro di Israele dal Libano meridionale e garantire il ritorno in sicurezza degli sfollati in un’area di responsabilità che va dai due ai trentacinque chilometri di profondità.
E’ questa la cosiddetta “zona cuscinetto” che corre dalla Linea Blu -proposta dalle Nazioni Unite per supplire alla mancanza di un trattato sulle frontiere terrestri- fino al fiume Leonte/Litani e che include la città di Tiro, numerosi comuni, cittadine, paesi e villaggi sciiti, sunniti, alawiti, drusi e cristiani e i tre campi profughi palestinesi di El Buss, Burj el Shemali e Rashidieh.
In realtà questa “buffer zone”, chiamata anche “cintura di sicurezza”, è una vera e propria no man’s land dove ogni fatto che sta avvenendo giorno dopo giorno sembra la ripetizione, in versione di realtà aumentata, di qualcosa di già avvenuto, iscritto in un eterno presente di terrore, morte e distruzione.
Ogni casa, edificio, villaggio, città, porto o base ONU che si trova in questa terra di nessuno è teatro di una guerra di frontiera iniziata con l’approvazione della risoluzione 425 del 19 marzo 1978.
La risoluzione avrebbe dovuto imporre ad Israele il ritiro incondizionato delle sue forze di occupazione militare per porre fine a un sanguinoso conflitto che si è trasformato in una interminabile e logorante guerra di posizione.
La guerra di frontiera nel sud del Libano, a ridosso e a cavallo della cintura di sicurezza, non è mai finita, ha sempre aumentato di intensità e la missione dell’UNIFIL, da missione di pace ad ampio raggio, si è limitata a svolgere funzioni di soccorso e a fronteggiare sempre nuove crisi ed emergenze umanitarie.
A partire dalla Guerra Arabo-Israeliana/Naqba Palestinese del 1948, per giungere agli ultimi eventi del 2023-2024, questa border line è uno dei luoghi meno sicuri del mondo, oggetto di sanguinosi fatti avvenuti prima e durante la Guerra Civile Libanese dal 1975 al 1990; nel corso dei conflitti fra il 1982 e il 2000 e nella seconda Guerra Israele-Hezbollah del luglio-agosto 2006.
Qui, quasi tutti i giorni si registrano attacchi e contrattacchi armati, in uno scenario di guerriglia e rappresaglia nel quale sono sempre le popolazioni civili, direttamente o indirettamente, a subire le peggiori conseguenze.
Difficile redigere una cronistoria degli apici di violenza raggiunti in un passato che è sempre più presente.
Alcuni fatti possono però aiutare a capire.
Il 18 aprile 1996, l’artiglieria israeliana ha aperto il fuoco sull’avamposto ONU di Qana per settanta minuti consecutivi.
Il contingente Fijiano della base è stato bombardato da diciassette missili israeliani, tredici dei quali hanno colpito l’interno della base e distrutto le due strutture che davano rifugio momentaneo a ottocentocinquanta civili, fuggiti da una precedente offensiva israeliana contro i loro villaggi limitrofi.
Centonove morti, perlopiù bambini e donne, venti dispersi, oltre centocinquanta feriti, inclusi quattro soldati fijiani dell’ONU.
Un’indagine delle Nazioni Unite smascherò la bugia raccontata da Israele che si fosse trattato “solo di un terribile errore”. Fu intenzionale e non è mai stata attribuita alcuna responsabilità per quello divenuto tristemente noto come Il massacro impunito di Qana.
Il 25 luglio 2006, l’artiglieria israeliana ha aperto il fuoco sulla base ONU di Khiyam per sei ore, durante le quali la postazione attaccata contattò per ben dieci volte il collegamento israeliano per chiedere la cessazione del bombardamento che ha demolito una postazione di osservazione fortificata e ucciso quattro osservatori disarmati della UNTSO – United Nation Truce Supervision Organization.
Secondo i rapporti dell’ONU, l’ufficiale israeliano di collegamento aveva promesso per dieci volte di seguito di far cessare il bombardamento e i quattro osservatori assassinati, un austriaco, un cinese, un finlandese e un canadese, sono stati uccisi all’interno di un bunker colpito da ordigni sperimentali di produzione statunitense con capacità penetranti bunker buster.
Il 13 ottobre 2024, tre plotoni di truppe dell’IDF hanno attraversato la Blue Line e due carri armati Merkava hanno distrutto l’ingresso principale di una base e posto di blocco dell’UNIFIL a Ramyah e sono entrati con la forza nell’area. Poche ore dopo, le IDF hanno sparato diversi colpi di artiglieria facendoli esplodere a 100 metri di distanza dalla base, causando un’aggressione con armi chimiche. La nube tossica prodotta ha causato ferite, irritazioni cutanee, reazioni respiratorie e gastrointestinali a 15 peacekeeper dell’UNIFIL che hanno richiesto cure mediche per sintomi insoliti, nonostante indossassero maschere antigas.
Di fronte alla spaventosa gravità e similarità dei fatti di cronaca attuale che riguardano i continui attacchi alle basi UNIFIL, sarebbe da stolti non intendere che anche qui, oltre a ciò che continua ad avvenire nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, il peggio a venire non potrà che peggiorare sé stesso.
Altri fatti e dati esplicativi.
L’ultima guerra tra Israele–Hezbollah del 2006 detta anche seconda Guerra Israele-Hezbollah, è durata trentaquattro giorni e ha prodotto migliaia di morti, migliaia e migliaia di feriti e un numero enorme di sfollati, oltre un milione, ossia il 25% dell’intera popolazione libanese.
Oggigiorno i morti e feriti sono migliaia e sono già oltre un milione i cittadini e le cittadine libanesi fuggite dalle proprie case, costrette a vivere da sfollati per la terza volta nella loro vita, in seguito all’invasione del 1982 e alla sanguinosa guerra del 2006.
La storia geopolitica mediorientale stabilisce che questa “Cintura di Sicurezza” di colline brulle e calcaree che dalla costa salgono verso le Alture del Golan e i confini con la Siria, è una delle zone di primaria importanza strategica per Israele: nel mare davanti alla costa si trovano nuovi giacimenti di greggio e di gas, sui monti più alti si trovano le antiche sorgenti del fiume Giordano.
ll Giordano è l’unico corso d’acqua di superficie dell’intera regione: nasce dal monte Hermon, in territorio libanese, percorre qualche chilometro, oltrepassa il confine israeliano bagnando la Valle di Hula e scende giù dall’Alta Galilea nel lago Tiberiade; quando ne esce, dopo trecento chilometri di meandri nei quali a volte è poco più di un rigagnolo che segna il confine con la Giordania, sfocia nelle depressioni paludose del Mar Morto. Viene spesso definito “il fiume della discordia” per semplici motivi: il 75% delle sue acque è dirottato da Israele prima di raggiungere i territori, i villaggi e le città palestinesi della CisGiordania, per mezzo di un sistema di canalizzazione, il Kenneret-Negev Conduit, che attraversa la pianura costiera rifornendo Haifa, Tel Aviv, Gerusalemme e giunge nel deserto del Negev a sud di Berscheeva, eludendo Gaza e la Striscia.
Anche la guerra del 1967, detta dei Sei Giorni, una guerra per il controllo israeliano delle acque del Giordano e dei suoi affluenti Hasbani, Dan, Banyas e Yarmuk, qui non è mai terminata: in ballo c’è ancora buona parte del suo bacino idrogeologico, tra la cima del Talat Moussa, m. 2.669 metri in territorio siriano, e quella del Monte Hermon m. 2.814 metri in territori di confine tra Libano, Siria e Israele.
Al di qua e al di là del Fronte Nord, come viene chiamato a Tel Aviv, o della Frontiera del Libano del Sud, come la chiamano a Beirut, le mappe utilizzate dalle Nazioni Unite per delimitare la Linea Blu non sono mai state in grado di accertare in modo inequivocabile i confini terrestri e marittimi tra Israele, Libano e Siria, contesi metro per metro.
Quiryat Shemona è la cittadina capoluogo che meglio esprime la presenza civile israeliana.
Si trova nella vallata di Hula e si incunea tra i confini occupando una minima porzione del massiccio nevoso del Monte Hermon che si sviluppa in territorio israeliano: la maggior parte è situato aldilà del confine con il Libano e con la Siria, oltre le piccole colonie-avamposti-kibbutz di Misgav Am, Metulla e Dan, oltre il villaggio druso di Majdal Shams e oltre l’area agricola delle quattordici Fattorie di Shebʿā.
Ubicata tra una miriade di campi minati, depositi e basi militari, circondata da postazioni di controllo, fornita di sistemi di allerta e rifugi blindati anti bombardamenti, Quiryat Shemona ospita circa 22mila abitanti angosciati dai continui attacchi che ne caratterizzano il passato fin dai tempi della sua costruzione, avvenuta come campo di accoglienza provvisorio per gli ebrei appena immigrati in Israele nel 1951, sul sito del villaggio arabo al Khalisa precedentemente raso al suolo.
La regolarità con cui viene fatta oggetto di attacchi da parte dei guerriglieri Hezbollah ne scandisce tuttora il presente, nonostante la sua presunta trasformazione in moderna e sicura località turistica sciistica e naturalistica, all’avanguardia nei sistemi di controllo e di difesa.
Qui, l’esercito israeliano subì un durissimo colpo quando il sofisticato sistema difensivo di sicurezza venne violato da un solitario guerrigliero palestinese a bordo di un aliante.
Il 26 novembre 1987, pochi giorni prima dello scoppio dell’Intifada, attaccò il campo militare di Gibor, nei pressi di Quiryat Shemona, dopo averlo raggiunto via cielo e riuscì a combattere uccidendo sei soldati israeliani e a ferirne altri sette.
Rashiddiyyeh è il campo profughi che meglio esprime la presenza civile palestinese.
E’ quello più a sud del Libano, sulla riva del Mare Mediterraneo ed è stato semidistrutto durante l’invasione israeliana del 1982.
Da allora, a causa di una decisione amministrativa presa dal dipartimento della Sicurezza Pubblica Libanese, è stata proibita la ricostruzione, la creazione di nuovi edifici o l’ampliamento di quelli esistenti.
Fino a qualche giorno fa, prima di ricevere l’ordine militare israeliano di immediata evacuazione, ospitava 12 mila rifugiati in baracche senza acqua e fognature, con muri di fango e tetti di lamiera.
Rmeich è la cittadina che meglio esprime la presenza della comunità cristiana.
Si può raggiungere in un unico modo, aggregandosi ai convogli umanitari UNIFIL o dell’Esercito Libanese che percorrono la strada ricoperta di crateri che da Tiro conduce verso il confine israeliano attraversando un paesaggio apocalittico di villaggi fantasma abbandonati, in gran parte demoliti o completamente rasi al suolo.
Nel lato sud si affaccia sulla collina israeliana di Sasa, negli altri tre lati si trova coronata dai villaggi sciiti avamposti di Hezbollah. L’apparenza della sua normale vita quotidiana diurna e notturna è surreale, immersa in una pretesa di neutralità e di non belligeranza che risulta utopica: non trascorre un minuto che il silenzio non sia rotto dal ronzio dei droni, dalle turbine dei caccia, dalle esplosioni, dalle raffiche e dagli spari che fanno tremare le pareti delle case, i vetri della chiesa e la grande croce issata nel punto più elevato e panoramico che offre un immutabile belvedere esplosivo di colonne di fumo nero che si innalzano in cielo.
Khiyam è il villaggio che meglio esprime la presenza di comunità miste.
Si trova a 750 metri sopra il livello del mare e a 4 chilometri di distanza dalla frontiera israeliana.
La popolazione è formata per il 90% da musulmani sciiti e per il 10% da cristiani.
Quando nei pressi di questo villaggio nel 2006 si verificò il citato attacco israeliano contro la base UNTSO, con il bombardamento di una postazione di osservazione fortificata e l’uccisione di 4 osservatori dell’ONU, il luogo era già tristemente famoso per ospitare la famigerata “prigione di Khiam”, gestita tra gli anni ’80 e ’90 dai miliziani filo-israeliani dell’Esercito Libanese del Sud, dove furono incarcerati senza processo e torturati brutalmente centinaia di prigionieri politici e combattenti contro l’occupazione.
Majdal Shams e Hurfeish sono i due centri che meglio esprimono la presenza civile drusa in uno dei territori più contesi di tutto il Medio Oriente: le Alture del Golan.
Israele, dopo averle occupate nel 1967 strappandole alla Siria, li ha annessi al suo territorio nel 1981 sotto il nome di ‘Distretto settentrionale’.Tale annessione unilaterale non è mai stata riconosciuta a livello internazionale e da decenni le Nazioni Unite impongono allo stato ebraico la restituzione.
Da allora, le porzioni di territorio che si estendono da nord a sud, sono sorvegliate dai caschi blu della forza U.N.D.O.F.(United Nations Disengagement Observer Force), che hanno il loro quartier generale nelle vicinanze della città di Qunaytra, riconsegnata ai siriani dopo esser stata quasi completamente rasa al suolo da Israele prima del ritiro nel giugno 1974 a conclusione della guerra dello Yom Kippur.
Prima del 1967 in questa area vivevano 131mila siriani.
In seguito all’occupazione israeliana del Golan, la popolazione si trovò costretta a scappare per salvarsi la vita lasciandosi alle spalle migliaia di case e centinaia di centri abitati distrutti. Vennero risparmiati solo i cinque villaggi drusi di Buqata, Ein Qenia, Al Ghajar, Masaada e Majdal Shams intorno ai quali furono costruiti 36 insediamenti dove dovrebbero vivere oggi circa 26mila coloni israeliani.
Al di là e al di qua di ettari ed ettari di meravigliosi uliveti, vigneti e frutteti che coprono le colline e le vallate quasi a dipingerle, ed ettari ed ettari di parchi eolici che punteggiano fertili terreni di origine vulcanica, Majdal Shams è druso siriana, Hurfesh è druso israeliana.
I drusi israeliani di Hurfesh (6mila abitanti), parlano ebraico, servono nell’esercito e lavorano perlopiù nelle forze di polizia, si sono inseriti nella società israeliana e si proclamano sionisti.
I drusi siriani di Majdal Shams (11mila abitanti), parlano arabo, non accettano la cittadinanza, l’arruolamento nelle forze armate, l’integrazione nel sistema israeliano e si proclamano cittadini siriani.
Dalla collina di Al-Asaniya, che gli israeliani chiamano Monte Bnei Rasan, alla cima innevata del Monte Hermon, da un lato, quello delle pendici israeliane, vi sono le tre colonie di Neve Ativ, Nimrod e Ramat Trump.
Neve Ativ (sedici abitanti nel 2019) è stata costruita sul villaggio di Jubata el Zeit precedentemente raso al suolo; Nimrod (cinque famiglie nel 2019) era un avamposto paramilitare divenuto una città civile nel gennaio 1999; Ramat Trump -in ebraico “Alture di Trump”- è un nuovo nome dato all’insediamento di Bruchim (dieci abitanti), per celebrare le politiche del presidente statunitense Donald Trump a favore delle mire espansionistiche di Israele in barba alle risoluzioni internazionali.
Dall’altro lato, quello delle pendici libanesi, si trovano le macerie abbandonate dei centri urbani e degli antichi villaggi musulmani sciiti di Hula, Markaba, Addaisseh, At Tayyabah, Kafr Kila, Al Ghajar, Kfar Shuba, Shebʿa, Kfar Hammam, Hebbariye, Rashaya al Fukhar, Al Khiyam, Al Qoleya, Marjaoun, Ibl as Saqv.
La totale distruzione di ognuno di questi centri è avvenuta nell’arco temporale di tre guerre che vanno dal 1948 al 2024.
il 24 ottobre 1948, durante la guerra arabo israeliana, i militari israeliani della Brigata Carmeli senza che fosse opposta alcuna resistenza, occuparono il villaggio di Houla, a 3 chilometri dal confine libanese. Separarono le famiglie, divisero la popolazione tra uomini, donne e bambini e procedettero espellendo le donne e i bambini e assassinando a sangue freddo la maggior parte dei giovani e degli adulti di età compresa fra i 15 e i 60 anni in una casa che fu poi fatta esplodere per seppellire i cadaveri, occultare le prove ed impedire il rientro.
L’eccidio, passato alla storia come il Massacro impunito di Hula, provocò la morte di un numero di arabi civili disarmati compreso fra 35 e 58.
Due ufficiali israeliani si resero responsabili dell’eccidio e furono denunciati come criminali di guerra dai loro superiori. Uno di loro, il tenente Samuele Lais, ufficiale della compagnia, ammise di aver giustiziato personalmente 35 persone disarmate.
Nel 2000, in seguito all’elezione di Ehud Barak come Primo Ministro, Israele ritirò le sue truppe dal Libano e nel tentativo di demarcare confini permanenti tra Israele e Libano, le Nazioni Unite iniziarono a tracciare quella che è nota come Linea Blu.
A causa della sua posizione geografica a cavallo dei confini da tracciare, Al Ghajar, villaggio di duemila abitanti incuneato tra il Libano sud-orientale e le alture del Golan occupate da Israele, è stato diviso in due: la metà settentrionale del villaggio è rimasta sotto il controllo libanese e la metà meridionale sotto l’occupazione israeliana.
Nel 2024 l’Agenzia Nazionale di Notizie libanese ha riferito che da quando Israele ha lanciato la sua offensiva aerea, almeno 40.000 unità abitative sono state distrutte nel Libano meridionale e che 37 città, la maggior parte delle quali esposte entro tre chilometri dal confine, sono state spazzate via; oltre 100 quartieri, villaggi e campi profughi sono inoltre stati raggiunti da ordini di evacuazione e colpiti.
Con un avvertimento diffuso tramite X, il portavoce dell’IDF Avichay Adraee, aveva reso noto agli abitanti di 14 villaggi di evacuare “immediatamente per la loro sicurezza” e fuggire a nord del fiume Awali, a circa 50 km all’interno del Paese: “Chiunque si trovi nei pressi di elementi, strutture o armi di Hezbollah mette in pericolo la propria vita”.
Rispecchiando un’azione simile, la resistenza libanese ha emesso un avvertimento di evacuazione in 25 insediamenti nel nord di Israele: Quiryat Shemona, Yesud Hamaala, Ayelet Hashahar, Hatzor HaGlilit, Karmeil, Maalot Tarshiha, Even Menachem, Nahariya, Rosh Pina, Shamir, Shaal, Meron, Kapri, Abirim, Dalton, Neve Ziv, Katzrin, Kfar Hanania, Manot, Beit HaEmek, Kfar Vradim, Harashim, Birya, Kidmat Tsvi e Bar Yoha
Poco dopo che questi avvertimenti sono stati emessi, le forze israeliane hanno bombardato abitazioni civili citando presunte installazioni militari utilizzate dalla Resistenza islamica come giustificazione.
In risposta, Hezbollah ha contrattaccato affermando che gli insediamenti settentrionali indicati sono illegali e ha esortato i coloni a “evacuare immediatamente”: insediamenti che sono diventati luoghi di dispiegamento per le forze militari nemiche che attaccano il Libano e “sono quindi considerati legittimi obiettivi militari per le forze della Resistenza islamica”.
Negli ultimi sedici anni, l’Aeronautica Militare israeliana ha sorvolato queste aree di confine violando illegalmente lo spazio aereo libanese 22.355 volte.
Dopo la consultazione di 252 comunicazioni ufficiali al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite da parte del Rappresentante permanente in Libano dell’ONU, AirPressure.info ha registrato complessivamente i voli di ben 8.200 cacciabombardieri e di 13.203 velivoli senza pilota a partire dal 2007. “La durata complessiva di questi voli ammonta a 3.114 giorni, come dire che i caccia e i droni hanno occupato ininterrottamente gli spazi aerei del Libano per 8,5 anni”, scrivono gli analisti.
Le comunicazioni ufficiali riportano le informazioni e i tracciati radar delle violazioni dello spazio aereo libanese (tempi di volo, durata, tipologia del velivolo impiegato dall’Aeronautica israeliana e sua traiettoria) che si sono spinte dal sud del Libano fino a Beirut, in Siria e a Damasco.
L’inchiesta aiuta a mettere in rilievo le caratteristiche principali della guerra in corso, dominata in cielo e in mare dalla supremazia dell’aviazione e della marina militare israeliana e dominata in terra e sottoterra dalla supremazia delle forze di resistenza di Hezbollah.
Hezbollah è nato nelle periferie di Beirut, ma è qui, nel Sud, che è cresciuto e si è affermato.
Il Partito di Dio non è soltanto, come a volte ci si limita a sottintendere, una forza militare.
Lo è certamente, ma è anche una poderosa struttura di carattere sociale che gestisce scuole, ospedali e interventi di ogni tipo, sopperendo alle difficoltà dello Stato libanese, provato da una pesantissima crisi economica che lo ha colpito dal 2019 (considerata dalla Banca mondiale come una delle peggiori crisi finanziarie globali dal 1850 a oggi) e che si è ulteriormente aggravata con le conseguenze delle operazioni militari israeliane in corso.
Hezbollah non è la sola, come a volte ci si limita a sottintendere, forza di opposizione e di resistenza che combatte nel sud del Libano contro Israele. Qui hanno combattuto i fedayin palestinesi, l’Esercito del Libano, i Distaccamenti della Resistenza libanese di Amal e del Movimento dei diseredati, il Partito Comunista Libanese.
I flussi finanziari dell’Iran, il sostegno politico della Siria e l’appoggio popolare incondizionato, hanno trasformato un inizialmente disorganizzato gruppo di vittime e sfollati intenzionati a resistere, in un esercito di 10mila combattenti ben addestrati e armati, rappresentati in parlamento da un partito politico influente che controlla banche, istituti finanziari, mezzi di comunicazione e centri culturali.
A determinarne la continua crescita di consenso pubblico sono state da un lato le spregiudicate tecniche di guerriglia e dall’altro la rete di solidarietà attivata in queste zone nei confronti della popolazione civile.
I guerriglieri del braccio armato di Hezbollah continuano ad essere considerati terroristi per il modo con cui combattono un guerra di guerriglia, avvalendosi di una ramificazione di tunnel, di una rete di rifugi sotterranei e di un gran numero di postazioni segrete scavate nella roccia che dalle retrovie di Beirut si sviluppano fino a raggiungere le prime linee del fronte: nei casi in cui l’oggetto delle rappresaglie israeliane sono i capi militari e i responsabili politici, la sua struttura gerarchica e la sua composizione in cellule operative ha sempre evitato una perdita di efficienza e ha sempre consentito che un secondo leader potesse riprendere la lotta dal punto in cui il primo era caduto adottando forme di integralismo sempre più radicali.
Nei casi in cui l’oggetto delle rappresaglie israeliane sono le popolazioni civili, Hezbollah si attiva in loco per fornire appoggi amministrativi, aiuti materiali e sanitari, sostegni economici, prestiti senza interessi e altri servizi di base.
Hezbollah continua ad essere considerata una organizzazione terrorista per l’impatto emotivo con cui è venuto alla ribalta dello scenario internazionale con una serie di attentati che hanno ridefinito tutta la strategia del terrore mediorientale.
L’11 novembre 1982, un ragazzo diciassettenne, Ahmad Qassir, a bordo di una Mercedes carica di esplosivo si lanciò a folle velocità contro il quartier generale Israeliano di Tiro, uccidendo nell’esplosione 141 soldati. Fu il primo caso di attentatori suicidi, uomini-bomba che produssero nella psicosi collettiva israeliana la sensazione dell’imminenza costante e imprevedibile del pericolo di vita e la rincorsa verso una garanzia di sicurezza mai raggiungibile.
Il 18 aprile 1983, un’autobomba fatta esplodere da un attentatore suicida alla guida di un furgone carico di 900 kg di esplosivi, distrusse la facciata dell’Ambasciata USA a Beirut mentre era in corso una riunione segreta dei vertici militari della CIA in medio oriente, causando 63 morti.
Sei mesi dopo un doppio attentato suicida presso l’aeroporto di Beirut uccise prima 214 Marines nordamericani poi, a distanza di venti secondi, altri 58 paracadutisti francesi della forza multinazionale.
Da allora la strategia e l’atteggiamento di guerra in Libano non è mai cambiato: Hezbollah considera l’Occidente e l’imperialismo USA, come suo principale nemico dopo Israele.
Il Sud del Libano e/o il Nord di Israele sono territori off limits speculari e complementari: la guerra nel nord, come viene definita in Israele, o la guerra di liberazione, come viene definita in Libano e in Siria, presenta per ogni presenza naturale o artificiale, medesimi destini segnati e incrociati.
Quello a cui assistiamo in Libano, non è una disputa territoriale su una linea di confine, ma è, anche e innanzitutto, un conflitto contro l’occidente e un processo contro il sionismo.
L’occupazione sionista che manda la propria carne a morire nel sud del Libano è sempre stata una spina del fianco delle amministrazioni Netanyahu fin dalla sua apparizione come premier nella scena politica israeliana nel lontano1996.
La lunga lista di sangue versato dai militari di leva caduti sul fronte nord, le modalità in cui i giovani soldati sono rimasti uccisi eseguendo ordini nel corso delle operazioni nei territori di confine con il Libano, ha creato nella società israeliana una forza d’urto mai esaurita e una ferita interna mai sanata.
Furono i comitati delle famiglie che persero i loro figli soldati, come ad esempio il Comitato delle Quattro Madri, o i gruppi di donne israelo-palestinesi, o le organizzazioni di obiettori di coscienza come Breaking the Silence, Peace Now o Courage to Refuse, che iniziarono a riflettere su quei lutti, a porsi e a porre domande sul senso e sull’utilità della guerra, sulle conseguenze e sul costo umano, maschile e femminile, di una guerra di occupazione di quel tipo, imposta e impostata in quel modo.
Nei giornali, nelle radio, in tv le madri israeliane iniziarono a chiedere: c’è una ragione perché i nostri ragazzi debbano morire in Libano? Perché siamo in questa striscia di sicurezza che non è dentro Israele ma è fuori Israele? Perchè mandiamo i nostri figli e le nostre figlie a morire nell’esercito non per difendere il nostro popolo, ma per invaderne altri?
Prima vennero accusate di non capire le questioni militari poi di porre innanzi a tutto il loro dolore e il proprio senso materno, ma lentamente qualcosa di significativo si mosse e il risultato è stato il ritiro dal Libano nel giugno 2000, dopo vent’anni di vanti dell’esercito e dopo vent’anni di lutti della società.
Al momento del ritiro, tutti gli opinionisti militari parlarono di bruciante sconfitta e avanzarono nefaste previsioni in termini di instabilità e insicurezza.
Anche il tributo mentale imposto ai soldati in servizio di leva in prima linea iniziò ad emergere, gli stress post traumatici di chi rientrava dal fronte, le profonde crisi di coscienza dei veterani e degli obiettori, i casi dei soldati suicidi, si dimostrarono ferite sociali incurabili, rivelando appieno l’insostenibilità e la crudeltà del sistema sionista anche nei confronti della cittadinanza ebrea israeliana.
Chi, in ogni parte del mondo, interpreta l’Ebraismo sentendosi forte della propria storia e non delle proprie armi, nel confrontarsi con ciò che produce Israele in questo momento, prova verso sé stesso un sentimento di pietà e vergogna, un misto di rimorso e condanna.
Chi, in Israele, dopo aver contribuito a fondarlo e a farlo crescere con speranza di pace e ideali socialisti, si trova costretto ora a pagare tributi di sangue imposti da una dittatura militare che si proclama repubblica democratica, può unicamente provare un sentimento misto di tradimento e di rifiuto.
Negli ultimissimi giorni, spingendosi ben oltre la linea blu di confine ONU fino a Baalbek, Jabal Amel, Nabatieh, Tiro, fino alla periferia meridionale di Beirut, alla Valle della Beqaa, in Siria e a Damasco, Israele ha scatenato con precisione la distruzione di città, villaggi e siti con crudele intento di cancellazione della loro storia, provocando un enorme esodo di massa.
Le comunità libanesi sono numerose e in aumento quasi in ogni angolo del mondo: la più grande si trova in Brasile (fra i 7 e i 10 milioni di persone), ma sono corpose anche quelle presenti negli Stati Uniti (un milione di persone), in Francia (intorno a 300 mila persone) e in Australia (circa 250 mila persone). Chi può e ci riesce, dalle proprie case e dalla propria terra se ne va via per sempre, tentando di raggiungere i propri parenti e famigliari all’estero. Chi non può e non riesce a fare altro che scappare di casa per salvare la pelle e si trova costretto a reinventare da zero la propria vita giorno per giorno, Beirut si presenta come una Sabra e Chatila allargata e si offre come un enorme campo di accoglienza per profughi di guerra, con quartieri fantasma rasi al suolo, baracche e ripari di fortuna in quasi ogni angolo di strada.
Prima delle più recenti ondate emigratorie in corso, la stima del 2022 dell’ intishar al lubnani (letteralmente: l’espansione libanese) è che si trattasse di circa 14 milioni di persone. La popolazione del Libano è stimata intorno ai 4,4 milioni di abitanti: c’è più di 3,5 volte il Libano sparso in giro per il mondo ed è in aumento ovunque.
Il concetto che sta esprimendo la no man’s land tra Libano e Israele è dunque in continua espansione, ma in espansione biunivoca: anche le comunità ebraiche all’estero sono numerose e in aumento, e via da Israele, chi può, se ne va quasi fuggendo. Per chi non ha doppio passaporto e doppia cittadinanza, per chi non ha dove andare ed è costretto a restare, per coloro che non possono fare altro che andare a combattere o sperare che i figli e le figlie tornino vive dai fronti, il proprio Paese si offre come un covo di estremisti militari crudeli, sanguinari e criminali, dominato e brutalizzato dalla sola logica sionista: la logica perversa, omicida e suicida, della guerra.
Cover: Naqoura, Sud Libano. In volo sulla Linea Blu con elicotteristi UNIFIL del I°Reggimento Antares dell’Aviazione dell’Esercito Italiano. photo: Franco Ferioli.
I fotogrammi che correlano l’articolo sono originali, tratti dal reportage “Sud Libano/Nord Israele: per non dimenticare”di Mirko Faienza e Franco Ferioli https://youtu.be/N6eCq8cI1_4
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Franco Ferioli
Commenti (1)
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Grazie Franco per questa precisa e documentatissima ricostruzione della storia di un Libano martoriato. Consiglio a tutte e tutti di prendersi il tempo per la lettura dell’articolo.