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Danilo Taino (il Corriere della Sera, 3.11.22) racconta di uno studio di Gòes e Bekkers pubblicato dal WTO (Organizzazione del Commercio Mondiale) secondo cui il nuovo mondo bipolare che si va formando in due aree geopolitiche (il primo attorno a Usa, il secondo attorno alla Cina), produrrà una riduzione del “benessere”, inteso come scambi commerciali, che potrebbe arrivare al 10%. Il disaccoppiamento è già in atto ed è probabile che, per esempio, alcuni beni cinesi (o russi, vedi il gas) non saranno più così a buon mercato come prima (e, viceversa per “loro”, molte tecnologie arriveranno per esempio in Russia, India, etc. dalla Cina e non dall’Occidente).
La conclusione di Taino (e del mainstream oggi) è che la globalizzazione è positiva, mentre il “muscolare ritorno degli Stati nazionali meno” e che quando si afferma una “politica di potenza, l’economia e il benessere sono vittime”.

La tesi (nota) è che la “libertà di mercato”, a cui Taino aggiunge “e la libertà in generale” (che invece nulla c’entra) producono benessere per l’umanità. Ora non c’è dubbio che siamo in presenza di un ritorno degli Stati nazionali, ma non è assolutamente detto che ciò sia negativo per il vero benessere delle persone e che una limitazione della globalizzazione significhi svantaggi nel benessere per tutti. Non è detto che un mondo meno consumista significhi meno sviluppo umano.

L’Europa è stata sognata dai suoi fondatori come un luogo dove potessero convivere in pace Stati che si erano combattuti per decenni e così prosperare. Ma più ancora del “libero mercato” era la pace il prerequisito. E’ anche vero il contrario e cioè che gli scambi commerciali favoriscono la pace, ma è anche vero che il “libero mercato” se non è equo e graduale, può portare alla guerra, al colonialismo, allo sfruttamento delle altrui risorse, distruggere economie, lavoro e natura.

L’Europa ha funzionato, per esempio, finché il libero mercato è stato esteso tra i Paesi fondatori che avevano più o meno lo stesso welfare e condizioni di lavoro e reddito non troppo dissimili (Italia, Francia, Germania, Benelux e gli altri ammessi nel 2001). Ciò ha consentito per la gradualità del processo che la nostra industria degli elettrodomestici (per esempio) distruggesse quella del Nord Europa che si spostava su tecnologie più avanzate.

Nel 2004 vengono però ammessi 10 paesi dell’Est Europa che hanno 100 milioni di lavoratrici e lavoratori la cui paga è un quarto o un quinto di quella dei paesi fondatori (dai 400 euro della Bulgaria ai 2.300 del Lussemburgo).
E poiché i Trattati europei hanno come primato quattro sacre libertà di movimento: di capitali, merci, servizi e persone, ma non la tutela del lavoro, com’è per esempio – e solennemente – nella nostra Costituzione al primo articolo (e il diritto europeo prevale su quello nazionale), è successo che imprese dell’Est venissero a produrre in Europa (o in Svezia) portandosi dietro le loro normative nazionali con effetti di dumping sociale e fiscale.

Ciò ha consentito a molte imprese dei paesi fondatori (specie Germania) di delocalizzare la produzione all’Est, di spostare la sede legale nei paradisi fiscali d’Europa (Olanda, Lussemburgo, Irlanda), creando diffuse perdite di lavoro e di reddito a milioni di lavoratori dei Paesi a welfare maturo.
Trent’ anni di globalizzazione hanno prodotto un impoverimento di massa che ha colpito anche le classi medie – tra chi lavora in Italia, un quarto è considerato povero. Questo aspetto, a mio avviso, è alla base dello spostamento elettorale verso destre “sociali” (che si preoccupano di tutelare lavoro e imprese nazionali, vedremo se a parole o realmente) in contrapposizione ad una sinistra che enfatizza l’Europa, ma lascia completamente scoperto il problema della svalutazione del lavoro che avviene introducendo una competizione al ribasso nelle condizioni di lavoro e nei welfare.

Non è un caso che nello Statuto della Banca Centrale Europea ci sia solo la difesa dell’inflazione ma non dell’occupazione (come politica monetaria) che è invece presente nella stessa Federal Reserve Usa e nella Bank of England. Moltissimi economisti di grande valore (Guido Carli, Federico Caffè –maestro di Draghi-, Claudio Napoleoni, Giorgio La Malfa nel suo libro su Keynes) hanno spiegato che il “libero mercato” funziona se si estende con gradualità e regolazioni per evitare di distruggere lavoro nelle economie più deboli (come nella boxe, dove è vietato che un peso piuma competa con un peso massimo), produzioni locali e welfare. E ciò spiega perché i giudici costituzionali italiani, tedeschi, cechi, portoghesi e, da ultimi, polacchi abbiano posto legittimamente “contrappesi” al primato del diritto europeo.

Alcuni giganteschi problemi, tra i quali lo “spiaggiamento del lavoro”, fanno si che il progetto europeo, basato sulle 4 sacre libertà di circolazione di capitali, merci, servizi e persone, che privilegia il “consumatore” (che però è anche un lavoratore), si trovi oggi di fronte ad un collasso di paradigma.

In gioco non c’è un “aggiustamento al margine” come molti onesti riformisti credono, ma la ricostruzione dei suoi pilastri fondamentali, tra cui la valutazione di un ulteriore allargamento all’Ucraina, Georgia, Moldavia e Paesi Balcani che porterebbe l’Europa da 27 a 36 Stati.
Una scelta che, a mio avviso, porterebbe alla dissoluzione dell’Europa che abbiamo conosciuto e che potrebbe portare a quel “divorzio consensuale” di cui ha parlato il premio Nobel J. Stiglitz. I riformisti federalisti pensano che con l’abolizione del voto unanime sia possibile procedere come “se nulla fosse”, togliendo gradualmente sovranità agli Stati nazionali per cederla a questa Europa.

Io credo invece che l’Europa del futuro si potrà fare solo come “comunità degli Stati nazionali” dove ha un ruolo ancora importante la singola Nazione (come recita la nostra Costituzione) e dove le 4 sacre libertà dovranno essere messe in discussione per essere equilibrate dalla protezione del lavoro e dei welfare nei singoli paesi.

Più che un’Europa Unita dovrà essere un’ Europa Comunità, dove l’integrazione crescente sarà sostenuta da una filosofia di “tolleranza costituzionale”, secondo la definizione di Joseph Weiler, poco sospettabile di simpatie sovraniste, in cui la “legittimazione delle decisioni politiche deriva non dal destino da realizzare ma dalle decisioni dei popoli”.

Una visione realista che potrebbe portare ad “un passo indietro” nell’allargamento, mantenendo una seconda “periferia” di Paesi con cui scambiare e dialogare, ma che punta a quella comunità coesa tra Stati fondatori che mai è avvenuta e che implica soprattutto una nostra indipendenza nel mondo e una maggioranza qualificata sulle materie più rilevanti: politica estera, difesa e tassazione.

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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