Abbiamo perso lo spirito del Natale
di Riccardo Mancin
Credo proprio che se domani uscissi di casa e passeggiando sottoponessi i passanti che incrocio ad una intervista in cui chiedo “Cosa rappresenta per lei il Natale?” la maggior parte delle persone mi risponderebbe così: luci e decorazioni, l’albero, i regali, la festa, le riunioni di famiglia, cene e pranzi di rito, una vacanza. Una minoranza ci aggiungerebbe probabilmente una connotazione più religiosa menzionandomi la Santa Messa ed il presepe ma i più sono convinto che si indirizzerebbero su aspetti prevalentemente commerciali. Del resto questa tendenza ha origini lontane e deriva dal fatto che molte delle tradizioni che oggi sono associate al Natale hanno in realtà una storia molto antica, che addirittura precede la celebrazione del Natale vero e proprio come i Saturnali, una festa pagana dell’epoca romana dove per la settimana dal 17 al 23 dicembre ci si regalava cibo, monete, candele e dove ci si lasciava andare a comportamenti meno formali e si poteva tollerare anche chi alzava il gomito in onore del dio Saturno. I Cristiani nel tempo li trasformarono nel Natale, una festività molto sentita anche nel Medioevo dove vi era un grande fermento nelle case dei ricchi e dei poveri, complice la sospensione del lavoro agricolo durante l’inverno. Natale, dunque, nei secoli ha sempre fatto rima con abbondanza, gioia, prosperità e condivisione. Ricordo bene gli aneddoti che quando ero bimbo mi raccontava mio nonno sul Natale vissuto nella sua epoca. Erano racconti che mi affascinavano perché ricchi di particolari che dipingevano nitidamente uno spaccato di vita rurale di provincia padana in anni veramente difficili, quando le famiglie erano numerose e patriarcali e i sacrifici di tutti erano rivolti essenzialmente alla sopravvivenza. “Fratelli e sorelle dormivano appiccicati per combattere il freddo in case fatte di canna palustre ma a Natale non è mai mancato del cibo. I più grandi infatti lavoravano sodo tutto l’anno per garantirlo – diceva con una punta di orgoglio – Non c’erano eccessi, non c’era il superfluo. E di regali gran pochi, solo cose semplicissime e utili.” Cibo semplice, spesso barattato, stagionale, locale, autoprodotto e genuino, zero imballaggi, niente grande distribuzione e niente sprechi. Nulla diventava rifiuto, quello che poteva essere riusato veniva sfruttato. Pur essendo una festività vissuta in maniera scarna e minimalista era quindi il trionfo della circolarità e della sostenibilità ambientale, all’epoca condizione praticamente obbligatoria per una resilienza fatta di sacrifici. Non mancava mai comunque la genuinità dei valori e l’atmosfera ed il significato di fondo della festa veniva sempre onorato e tramandato. Sulla scia di questi capisaldi ho vissuto anch’io con felicità e trasporto i periodi natalizi della mia infanzia. Ricordo grandi tavolate dove tutti portavano qualcosa da mangiare, c’era il calore di famiglie unite che portava a stemperare anche qualche tensione o attrito accaduto nei mesi precedenti. Tanti argomenti e risate, ore spensierate trascorse a giocare a tombola, per i piccini l’ansia del momento del regalo da scartare che quasi mai era quello che si sperava ma che si concentrava in un momento che valeva comunque la pena di essere vissuto. Negli anni successivi, corrispondenti agli inizi della mia adolescenza, il benessere economico è diventato diffuso e ha letteralmente stravolto le nostre vite rinchiudendole in gabbie dorate all’interno delle quali perseguire quasi ossessivamente le chimere di un consumismo senza freni. Non è cambiato il Natale ma la società e dunque noi stessi, il nostro modo di viverlo e concepirlo. Ci siamo fatti travolgere dal marketing selvaggio bombardati dai media, facendoci risucchiare nel vortice dello shopping compulsivo e dell’acquisto inutile, dettato solo da dinamiche distorte di moda e tendenze, di competizione e corsa sfrenata per accaparrarsi quanto più possibile; dalle decorazioni dentro e fuori casa all’abbigliamento costoso da sfoggiare solo per quella occasione, dai tanti regali spesso senza senso al cibo fuori stagione e in quantità pantagrueliche, magari di lusso e ricercato anche solo per stupire e vantarsi con gli ospiti esponendolo sulla tavola. Ebbene questo approccio ha generato mostri: il Natale moderno è sempre più una festa che ha perso i suoi valori basilari ed è volta perlopiù al soddisfacimento indiscriminato di bisogni non essenziali. La conseguenza diretta e ovvia è l’insostenibilità sociale ed ambientale, con la prima che vede una forbice sempre più netta e intollerabile tra abbienti e non e con la seconda che vede invece il pianeta letteralmente soffocare dall’inquinamento per l’assurda quantità di oggetti prodotti e venduti nonché per l’abuso e lo smaltimento non corretto di materiali deleteri per gli ecosistemi. Vale la pena fare qualche esempio a supporto dei miei pensieri. Secondo uno studio dell’Università di Manchester le abitudini alimentari natalizie della sola società occidentale causerebbero la stessa impronta di carbonio di un’auto che compie il giro del mondo per seimila volte. Su svariati milioni di euro spesi ogni anno per i regali di Natale circa il 10% per cento di questo dispendio economico e di prodotti viene semplicemente buttato via perché non gradito. Per non parlare dei maglioni di Natale, quelli spesso rossi con le renne o i fiocchi di neve per intenderci. Se ne vendono tantissimi ma la maggior parte derivano dal fast fashion (già discutibili di per sé per lo sfruttamento umano di chi li produce) e sono di acrilico dunque di natura sintetica e dal grande impatto ambientale. Basti pensare che uno studio della Plymouth University evidenzia che l’acrilico è responsabile del rilascio di quasi 730mila microplastiche per lavaggio, cinque volte di più rispetto a un tessuto misto poliestere-cotone e quasi una volta e mezzo rispetto al poliestere puro. Secondo l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, circa il 16% delle microplastiche rilasciate negli oceani a livello globale proviene dal lavaggio di tessuti sintetici. Per l’Europa, dove la maggior parte delle famiglie è collegata a un sistema di trattamento delle acque reflue, si stima che ogni anno vengano rilasciate nelle acque di superficie 13mila tonnellate di microfibre tessili, ovvero 25 grammi per persona, pari all’8% del totale delle emissioni di microplastica in acqua. Non c’è bisogno di trasformarsi in Scrooge – il protagonista egoista del racconto Canto di Natale di Charles Dickens – e smettere di fare regali o ricevere amici e parenti a cena, ma se tutti tenessimo bene a mente queste cifre forse riusciremmo a tenere i consumi un po’ più bassi. Noto che spesso si tende a decantare la “decrescita felice” come approccio risolutivo alla questione o si ripete come un mantra la frase retorica “Si stava meglio quando si stava peggio” ma a mio modesto parere in generale c’è ben poco da invidiare ai tempi dei nostri nonni se rapportati al presente. Occorre invece, come in tutte le cose, equilibrio, misura, buonsenso ma occorre senz’altro fare di più e meglio. Se vogliamo che il Natale futuro delle nuove generazioni diventi una festività che racchiude la giusta proporzione tra valori religiosi, sociali e ambientali è necessaria ed urgente una profonda riflessione che porti ad un concreto cambiamento. Serve un connubio indispensabile tra un moderno Umanesimo e a un Ambientalismo inteso nella sua accezione più pura ossia lo sviluppo della coscienza sociale per la difesa delle risorse naturali e per lo sviluppo sostenibile. Serve cioè quello che io chiamo, coniando un nuovo termine nato dalla fusione dei due concetti, un Ambientalesimo globale. Sarà la vera sfida dei prossimi anni, una sfida prioritaria e imprescindibile a cui siamo chiamati tutti indistintamente ad impegnarci e a dare il massimo. Plastic Free come sempre c’è e ci sarà, al fianco di cittadini e istituzioni, divulgando buone pratiche e sensibilizzando, per un mondo migliore.
Riccardo Mancin
Coordinatore Nazionale Plastic Free ODV Onlus
Cover: illustrazione da Canto di Natale di Charles Dickens
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