Questo capitolo del libro “Dietro le sbarre” di Dino Tebaldi inizia a raccontare l’esperienza di alcune persone detenute che, all’interno della Casa Circondariale di Via Arginone, hanno scelto di frequentare la scuola. Quando ricevono il permesso di lasciare le celle per partecipare alle lezioni, si avverte forte in loro l’orgoglio di andare ad imparare. Dino ci sorprende ancora una volta sia con la sua narrazione precisa e partecipata che con un finale bellissimo, in cui dimostra concretamente il senso del suo impegno educativo.
(Mauro Presini)
Tutti in classe
di Dino Tebaldi
Appena arriva la “chiamata” – dall’area pedagogica – dell’agente di turno, i detenuti-scolari ottengono il “via”. Lasciano le celle, uno ad uno, con la cartellina sotto braccio come se andassero ad un “congresso internazionale”: in quel momento, sui volti di ciascuno di loro s’accende il sorriso. Si sentono orgogliosi dell’impegno quotidiano, che li distingue dagli altri detenuti; e dell’opportunità di vivere fuori della cella per la mattinata intera.
Nella Casa Circondariale di Via Arginone, essi – malgrado tutto – sono diventati “studenti”.
“A tredici anni – ha scritto uno di loro – avevo dovuto lasciare la scuola, ed andare al lavoro…“. Adesso, invece, chi vuole può recuperare qualcosa.
Per arrivare all'”area pedagogica” debbono fare tanta strada… a piedi, quasi un percorso ad ostacoli: in lunghi corridoi, interrotti da tanti cancelli; le scale, esse pure bloccate ad ogni rampa, da altrettante barriere; ed agenti, ad ogni “svolta”, incerti se mostrare la faccia arrabbiata, oppure se frenare un tantino il sorriso spontaneo.
I detenuti-scolari sono nella lista “buona”, e posson passare.
Qualcuno degli agenti li guarda con amicizia, e dà loro strada con la stessa raccomandazione che si sente davanti a tutte le scuole: “Fate i bravi, ed imparate…!”. Arrivano alla spicciolata e tirano un lungo sospiro appena intravvedono il loro bidello: vale a dire l’agente di turno nell’ “area”, che apre e chiude – secondo la regola – l’ultimo dei cancelli, e li fa andare “da soli” nell’aula.
II maestro se li vede arrivare con spavalda giovinezza: perfino J. Antonio, sudamericano, nonno venti volte, per numero d’anni maggiore di tutti, ma per il resto il più giovanilmente impegnato di tutti.
Dice poche cose in lingua italiana, ma capisce quasi tutto. Legge
ogni cosa con accento spagnolo, ma chiede spiegazione delle parole per lui troppo ostiche. Capisce ed esulta, e – con parole tutte sue – dice il suo entusiasmo: “Adesso estudiente… Tante cose imparare. Quando piccolo, no scuola abastanzia. Tredici anni, lavorare… Adesso estudiente… compiti in cella, tanto pensare, tanto contento…”.
Mehmet – un turco che, per smentire una diffusa convinzione nostrana, non fuma nemmeno per la rabbia – arriva dopo aver “lavorato”: è contento di aver sempre da fare: “Mattina, pulizia nella Casa: prendere paga. Poi, scuola di alfabetizzazione: imparare lingua italiana. Pomeriggio, scuola media: imparare ancora tante cose…”.
Gli domando: “Alla sera, riposi guardando la TV?”
Pare che l’abbia scandalizzato: “Noo, mai guardare TV, Quando non frequentare, di giorno ho guardato: non bella cosa! Adesso, di giorno, sempre a scuola: bella cosa. Di sera, nella cella, io pregare…
Io tanto pregare per mia famiglia”.
Io non so per quali ragioni Mehmet sia qui. Non voglio neanche sapere.
So però ch’è dentro da quattro o cinque anni, ed ancora ci dovrebbe
stare per quasi altrettanti: “Spero espulsione: meglio andare nel mio paese, dove vedere mia moglie e miei due figli”.
In aula, insieme con i quaderni, ha portato le foto dei due bambinelli: “Questo Abdullah, otto anni; questa, Hafiza, sei anni. Appena nata, quando io partito da Turchia…”.
Gli scende una lacrima, ed è subito una lacrima mia.
Cerco di rincuorarlo, di prepararsi col dolore di oggi alla grande gioia del giorno in cui tornerà.
“Sì, quel giorno grande gioia. Adesso, in mio cuore grande dolore:
io mai mandato soldi per miei bambini…”.
Le parole mie non posson bastare, per ridurre il guaio che – in Turchia – la famiglia di Mehmet vive da anni. Lo conosco soltanto da quando sono entrato qui dentro come maestro, con grande timore da parte mia, con vera paura da parte di mia moglie e di altri.
Adesso Mehmet è il mio “prossimo”, che cercavo sul mio cammino. Il suo è il mio dolore; i suoi figli lontani sono i miei nipotini.
Mia moglie ha adottato con me un bambino indiano: ogni mese gli invia una certa sommetta che gli consente di sopravvivere e di frequentare la scuola presso le Suore della Carità di Bangalore.
Ai due figli di Mehmet provvederò io stesso, per quello che posso.
Ho deciso guardando le foto di Abdullah e di Hafiza: oggi stesso – rinunciando a vanità consumistiche – farò il primo versamento postale.
Cover: La palestra del carcere di Ferrara.
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Mauro Presini
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