In questo terzo capitolo del libro “Dietro le sbarre” di Dino Tebaldi, l’autore incontra per la prima volta la sua classe di scolasti “ristretti”.
Il suo modo di scrivere, preciso ed efficace, esprime bene le ansie e le preoccupazioni di chi, per la prima volta, sta per affrontare una sfida educativa importantissima.
(Mauro Presini)
Tutti naufraghi
di Dino Tebaldi
Nell’aula, tutto solo, mi guardo d’attorno: pareti alte e disadorne, ma pulitissime; in un angolo, un armadio di formica color “terra di Siena”; davanti, tre file di banchi monoposto, alti, col piano d’appoggio d’uguale colore, e strutture in metallo nero.
La cattedra è della medesima serie: sembra una piazza, o – meglio – la plancia d’un barcone da costa.
Guardo… fuori, con imbarazzo: due file di finestre sovrapposte – quattro e quattro – con robuste inferriate. Al di là, non c’è niente; anzi, c’è un muro con altrettante finestre inferriate. Non è un paesaggio o una scena teatrale, ma un pozzo di luce. Non si vede il cielo, se non “a scacchi”; non. si vede il sole, ma se ne riceve ugualmente la luce indiretta. Qui, perfino gli elementi più tristi dell’autunno padano – alberi spogli in mezzo alla nebbia – uno se li deve immaginare, se li ha nella memoria; se no, con matita leggera, se li può far disegnare da chi ci sa fare. E poi, fantasticarci sopra, fin che vuole, con la mente e col cuore.
Eppure, questa è una scuola; se non lo è, io debbo farla diventar tale; convincermi, e convincere.
Sulla prima fila di banchi – otto o nove – dispongo tanti cartoncini che avevo in garage – fra i ritagli tipografici – da chissà quanto tempo: bianco opaco da una parte, rosso lucido dall’altra. Per ogni cartoncino, metto una penna a sfera.
Sulla cattedra, invece, dispongo l’elenco degli iscritti fornito dalla direzione, stamane (quattro nomi già depennati); e poi l’agenda personale, su cui appuntare qualche memoria; carta quadrettata, pennarelli, dodici pastelli ed un tempera-matite.
È l’armamentario di tutte le scuole, ammesso ad entrare anche qui dall’ispezione al primo posto di biocco.
G1i alunni tardano ad arrivare.
Sbofonchio: “E adesso?“.
Guardo in su, e prego spontaneamente: “Signore, adesso fammi strumento della tua volontà…”
Penso a mio padre, e lo sento vicino. Gli bisbiglio che, con lui, al mio fianco, mi sento di lavorare dovunque-il destino mi vuole.
Mi sento contento.
Lo sguardo vaga per qualche tempo, si perde, si ferma a mezz’aria.
A destra – a circa quattro metri dal pavimento – c’è una telecamera muta, ma attenta; a sinistra – un metro e mezzo sopra la porta – una saracinesca metallica: potrebbe essere un’uscita od un’entrata di emergenza.
La mente comincia a fantasticare, come al cinema. Il cuore si mette a pregare più in fretta. poi si quieta. Mi guardo dietro le spalle: una lavagna di plastica bianca, sulla quale scrivere soltanto con penne alcoliche. Ed anche due carte geografiche: un emisfero, ed un insieme d’Europa. Sono aggiornatissime, con legenda in lingua francese. Nessun’altra scuola della città può vantare altrettanto.
Mi viene in mente che sto aspettando.
Comincio a pensare che…
Ecco, laggiù, una voce autoritaria: “Collega!”
E subito dopo: “Cancelli! “‘
Un breve nervoso sferragliare di chiavi; qualche voce mozzata; un passo multiplo e misto: di scarpe cadenzate militarmente e di scarpette-borghesi e bianche.
La porta dell’aula viene aperta. “
Irrompono strane, imponenti, ma attese figure: un negrone con i capelli a cordone; un… semi-bianco con i capelli corti e crespi; ed un agente in divisa, con i capelli neri, lisci ed impomatata, ben divisi dalla riga in mezzo.
“Maestro, ecco i primi due… Vado a prendere gli altri…”.
Mi muovo incontro. ai due giovani, allungo la mano destra ed esclamo: “Benvenuti!“.
La stretta è robusta, prolungata, festosa. Poi a ciascuno indico il banco dove possono accomodarsi. Non so che cos’altro dire al momento.
“Per forza – sussurro a me stesso – certe cose bisogna dirle solamente se ci son tutti…”.
Da fuori, ancora le voci di prima; l’aprirsi e chiudere dei cancelli lontani; ed il calpestìo asincrono d’un… gregge umano:
“Eccone altri tre…”.
Li guardo in faccia e sul capo: un negro gigante, con labbra tumide e capelli a… spazzola alta; due giovani un po’ spauriti ed un po’ spavaldi. Nei tratti del volto è dichiarata la provenienza: Magreb.
Ripeto i gesti e le parole di prima.
Anche loro – come gli altri – si mettono a posto: però a chi è venuto prima di loro, rivolgono festosi saluti.
Non è finita. L’agente – che sta lontano dall’aula – ancora apre e chiude il cancello, borbotta qualcosa a qualcuno, e riprende a scalpitare nel corridoio.
“Altri tre… Maestro, tutti per lei…”.
Li fa entrare e si ferma accanto alla porta: attende che io incominci a far la mia parte.
“Sono tutti qui?” chiedo, già sicuro della risposta. “Credo proprio
di sì… Però se arrivano altri, glieli porto…”.
Comincio a parlare: “Io sono il maestro…”.
L’agente mi toglie la parola: “È qui per farvi scuola, insegnarvi tante cose. Siete fortunati…“.
Stavo per dire le medesime cose, tranne l’ultima frase.
Sorrido all’agente, ed anche agli alunni composti nei banchi davanti a me. Più d’uno di questi risponde con il sorriso.
“Avete davanti a voi penna e carta: scrivete nome, cognome, data
e luogo di nascita… Ed anche aggiungete quale tipo e grado di scuola avete frequentato nei vostri Paesi…“.
Li guardo alle prese col primo compito: certe mani si muovono sicure; altre vivono momenti di vero impaccio. È chiaro che i primi, la scuola, l’han frequentata; e che i secondi, forse, ci hanno bazzicato per brevissimo tempo, o per niente.
Una voce chiama dall’altra parte del corridoio: “Collega!“
L’agente corre, sferraglia come al solito, parla; qualcun’altro borbotta e lui riprende il passo verso l’aula.
Fa entrare prima un giovanotto, con la testa fasciata da un fazzoletto alla maniera dei pirati dei mari caraibici; e poi un ragazzo con un berrettino dall’ampia visiera voltata verso la nuca, sopra una coda annodata di lunghi e crespi capelli neri. È palese la diversa provenienza dell’uno e dell’altro.
“Buenas dies…!” saluta il primo. L’altro scuote il capo senza entusiasmi; tenta un sorriso, che dura poco; e ripiomba in una gran serietà. È magrebino: gli manca forse la parola italiana; oppure, la voglia di vivere.
“Io per voi sarò soltanto il maestro, perché non sono un giudice, né sono un agente e nemmeno un sacerdote. A voi debbo insegnare la lingua italiana, attraverso argomenti che voi stessi potrete indicarmi, o che io riscontrerò per voi di qualche interesse umano e scolastico”.
Freno la valanga di parole, di idee, di propositi. Chiedo a chi mi sta più vicino: “Capite le mie parole?”
Qualcuno annuisce convinto e contento, d’avere capito qualcosa; qualcun altro, invece, non ha capito nemmeno la domanda e guarda con occhi sorpresi.
Riprendo il ragionamento e ribadisco – gesticolando con la mano in aggiunta a parole semplici semplici – il concetto cui tengo in particolar modo: “Io – per voi – sarò soltanto maestro. Voi, per me, sarete soltanto scolari. Avevo paura a venire qui, ed in famiglia e tra conoscenti tutti mi sconsigliavano. Ho pensato che voi aveste bisogno di me, e sono convinto che voi con me sarete migliori di quel che si crede…”
Quasi tutti, stavolta, hanno capito: non le parole una ad una, ma le mie intenzioni nel loro insieme.
Distribuisco i fogli quadrettati, e raccolgo i cartellini coi nomi.
Scrivo sulla lavagna la data, e mostro come si fa la cornicetta per l’alfabeto attorno al foglio.
C’è chi parte spedito, contento di mostrar quel che vale; e c’è chi guarda il vicino, per copiare od avere conferme o smentite.
Io intanto confronto i cartellini autografi con l’elenco degli iscritti; ci sono nomi e dati che concordano in pieno; però molti differiscono parecchio. Le date ed i luoghi di nascita hanno riscontro positivo; non altrettanto i nomi e cognomi
Faccio l’appello, e chiedo che si risponda alzando la mano.
Individuo gli assenti, restituisco i cartellini e chiedo perché certi
nomi non vanno bene.
Arriva l’agente, e mi dà la sua competente risposta. “Vale il nostro
elenco, perché quella gente ha una, due, tre identità. Qui dentro
ciascuno è tenuto a rispondere al nome che ha dichiarato quando è entrato, o prima della sentenza…”.
M’accorgo di muovermi tra persone d’incerto profilo anagrafico, culturale, giuridico: un tunisino nato in Marocco; un negro nigeriano con nome statunitense; un negro nato a Las Vegas, ma residente a Parigi; un turco, composto, laconico, sorpreso lui pure di trovarsi in mezzo a tante bandiere.
Faccio domande, ma non sempre ricevo risposte appropriate.
Intendersi oggi, qui, non è facile.
I magrebini si consultano tra loro, forse per spiegarsi che cosa io ho richiesto; o forse per mettersi d’accordo su: che cosa e come conviene rispondere.
La guardia entra di nuovo, osserva, ascolta, e capisce alla sua maniera. Anzi, lui pure fornisce il suo parere: “Prenda appunti, se vuole…ma non creda a quella che dicono. sono bugiardi e ruffiani con tutti, soprattutto con chi non è detenuto, sperando di averne un qualche aiuto“.
Per avere da qualcuno un briciolo di confidenza, concedo la mia confidenza a tutti. Racconto che l’anno scorso facevo scuola ai bambini; che li ho lasciati per venire qui dentro. Aggiungo che ho appena compiuto sessant’anni; che sono sposato ed ho due figli; che sono anche nonno di una bimba che ha tre anni.
“Anch’io… – dice il turco – Anch’io… due figli.”
Gli occhi gli diventano lucidi.
Gli chiedo, per distrarlo o per consolarlo: “Da quanto tempo non li vedi?”.
Prima distende le dita della mano sinistra, poi pronuncia due sole parole: “Cinque anni…” Dagli occhi scende una lacrima, e la voglia di parlare svanisce.
Al suo posto io non sarei diverso.
In silenzio ricomincio a pregare.
Sono venuto qui dentro perché il Signore mi ha dato una forza speciale.
Questi giovani, per stare qui dentro, hanno bisogno di tutta la forza che il Signore può dare. Chiederò per loro al Signore tutte le grazie di cui essi hanno bisogno.
“Con la scuola – preciso un po’ a tutti – vi aiuterò ad imparare la lingua italiana, a pensare, a tenere la mente impegnata molte ore del giorno. È ¡l solo aiuto che io posso darvi. Mi hanno detto che fare soltanto il maestro. Cercherò di essere il maestro adatto a voi, condividendo – per quattro ore del giorno – la condizione del detenuto“.
(Ferrara, 4 novembre 1995)
Cover: Carcere di Ferrara, effetti personali dei detenuti.
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Mauro Presini
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