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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


In questi giorni sto leggendo un bel libro intitolato “Dietro le sbarre”. Lo aveva scritto un bravissimo maestro, un giornalista preparato, un ottimo ricercatore, una persona meravigliosa: Dino Tebaldi. Il volumetto, un’autoedizione non in commercio con prefazione dell’allora Provveditore agli Studi: Giuseppe Inzerillo, racconta delle sue prime esperienze di insegnamento nella Casa Circondariale di Ferrara nell’anno scolastico 1995-1996.
È mia intenzione farlo conoscere anche a chi non possiede una delle 400 copie del libro perché esprime la stupenda umanità di una persona di cultura, umile e generosa, convinta che l’istruzione possa rendere l’uomo più libero e consapevole. In questo post, il primo capitolo intitolato “A scuola dietro le sbarre”.
P.S. La foto della biblioteca del carcere è del sottoscritto.
(Mauro Presini)

Il maestro Dino Tebaldi (1935-2004)

Le voci da dentro. A scuola oltre le sbarre

di Dino Tebaldi (1998)

Alla “block house” – con un disarmato sorriso ed un amichevole gesto della mano destra – mi faccio aprire il cancello; saluto ruffianamente l’agente che mi spiana davanti la mitraglietta; consegno il documento d’identità al capo posto.

Alla fine, mi sottopongo all’ispezione.

Le tante paure di ieri oggi sono scomparse del tutto: così presto, non me l’aspettavo.

Sono riconosciuto come l’insegnante del corso di alfabetizzazione, e mi vien dato il “pass” da mettere al bavero.

Posso andare dove mi aspettano, seguendo l’agente che fa da guida e da scorta.

Traverso un vastissimo, disadorno, lunare cortile.

Spontanea la riminescenza dei versi danteschi: “Per me si va tra la perduta gente…

Ho l’impressione d’esser tenuto d’occhio da un legittimo, diffidente, nascosto… guardone TV.

In lontananza sento uno sferragliare ritmico e ripetitivo, come in nessun altro luogo prima d’ora ho avvertito.

Qui dev’esser la regola.

Gli agenti ispezionano le celle e battono le inferriate con un corpo metallico.

Qualche voce incompleta rimbalza – provocatoriamente – da una finestra a quell’altra.

Non alzo lo sguardo; faccio finta di niente; rivolgo domande soltanto a me stesso.

E cerco da solo – impegnando un poco di logica – le più elementari risposte, per dare un senso a questa nuova esperienza scolastica.

Mi vien da pregare: “Signore, qui dentro – per me – sia fatta la tua volontà…

Per arrivare all’ “area pedagogica”, attraverso altre cinque o sei porte blindate o cancelli, e passo davanti ad una dozzina di agenti, nessuno armato, se non di chiavi d’ottone che debbono pesare mezzo chilo ciascuna.

Anche questi giovani – a fine giornata – con giusta ragione citeranno Pavese: “Lavorare stanca“.

Saluto tutti, e tutti mi salutano con immediata compitezza: questi…arruolati angeli custodi – con divisa, ma senza sorriso – inchiodati per un turno davanti alle sbarre, han forse voglia – alla buon’ora – di vedere in faccia un… povero diavolo, che viene spontaneamente dal mondo delle cosiddette persone perbene.

Nei lunghi luminosi corridoi senza finestre, qualche uomo si muove come un rassegnato, mite e muto fantasma: o lustra i pavimenti che nessuno ha sporcato; o trascina neri sacchi di plastica gonfi d’impensabili rifiuti domestici; o spinge – da un inferriato cancello ad un altro – un carrello dalle ruote felpate di gomma.

Sono detenuti che han meritato “fiducia”, adesso mobilitati per lavori da poco, in cambio d’una somma non scandalosa, che loro chiamano “la spesetta” perché basta per comperare non tante cose.

Sono i primi a salutare – con un breve gesto del capo – chi arriva: e – ricevendo in risposta il saluto – guardano con occhi sorpresi.

Vedono bene che io non sono in divisa, porto il “pass” al petto della giacca borghese, e qui non resterò per gran tempo.

Pare che mi chiedano, senza sprecar le parole: “Tu, perché vieni qui dentro?“.

Nell’area pedagogica – finalmente – dovrei sentirmi come in casa od a scuola.

Però questa è una scuola “sui generis“, e gli scolari hanno dei “precedenti“.

Li accompagna nell’aula – pochi alla volta – l’agente di turno, che per me dovrebbe fungere da “bidello” e da “guardia del corpo“. L’impatto è corretto fin dal primissimo istante: dopo pochi minuti – appena la guardia lascia che ce la sbrighiamo da soli – par d’essere una sola, collaudata, confidente famiglia… unisex, inquadrata da una telecamera immobile e vigile, a tre-quattro metri d’altezza, che guarda freddamente ogni gesto e forse registra anche ogni voce.

Con il lavoro, l’ascolto, le chiacchiere, le ore cominciano a passare in fretta, qui più che in tutte le altre scuole in cui ho insegnato.

Quand’è ora di far l’intervallo, avviso l’agente: “Gli alunni possono andare nella saletta d’aspetto, per fumare una sigaretta, se l’hanno”.

Vanno in gruppo, tranne il turco, il colombiano, ed il più giovane dei marocchini, che restano a scrivere.

L’ultimo dei tre citati – diciannove anni soltanto – mi guarda come ad un babbo o ad un nonno: confida che, da qualche giorno, tanti fanno totale o parziale astinenza dal fumo: non è arrivata la “spesetta”, ed il tabacco scarseggia o manca del tutto, a tutti ed a lui.

Io non fumo e non posso aiutarlo come vorrei fare per un figlio, un amico, un nipote.

Gli alunni tornano in aula appena io batto le mani.

Sono contenti della pausa goduta, e riprendono – senza fiatare – il lavoro interrotto.

Dopo, faccio trascrivere e completare una “scheda”, che ho preparato per una classe di soli adulti stranieri.

Sono io a dire quand’è ora – per loro – d’andare a mangiare; ma loro prima di uscire chiedono il compito: cioè pagine da copiare in cella, nel pomeriggio.

L’ozio l’han già conosciuto, e adesso vogliono vincerlo.

Io sono venuto qui apposta per aiutarli, e loro già l’hanno capito.

Con l’altro insegnante, esco quand’è l’ora precisa.

In una scuola del genere, non si sgarra per ritardi od anticipi.

Gli agenti si dànno la voce: “Collega!“; oppure “Cancelli!”; od anche: “Alla terza!”, ecc.

I cancelli, uno ad uno, vengono aperti con sincronismo perfetto, senza nemmeno che io chieda, o dica, o piagnucoli che ho ii diritto e la voglia d’andarmene a casa.

Mi sono sentito – stando dentro – d’essere un “signor detenuto”; ma quando esco, mi sento un poveretto cui sarà lasciato un gran privilegio: andare e venire ogni giorno, secondo il calendario scolastico.

Varcato l’ultimo tunnel, guardo il cielo, respiro a pieni polmoni, e ritrovo – dentro di me – i versi di Dante: “E quindi uscimmo a riveder le stelle“.

Non è una “commedia divina“, ma – per tanti – una umana tragedia.

Io la condivido per quattro ore ogni giorno, e mi sembra che ciò possa fare bene a chi ha avuto ed ha – dalla vita – molto meno delle mie poche reali fortune.

 

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Mauro Presini

È maestro elementare; dalla metà degli anni settanta si occupa di integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Dal 1992 coordina il giornalino dei bambini “La Gazzetta del Cocomero“. È impegnato nella difesa della scuola pubblica. Dal 2016 cura “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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