Gemma
Tra Carolina e Mina Viscioli c’era Gemma. Una signorina molto miope che, per poterci vedere almeno un po’, era costretta a portare occhiali dalla montatura robusta e dalle lenti spesse e curve. Due fondi di bottiglia le deformavano gli occhi e li facevano sembrare più bovini di quello che già erano.
Nonostante gli occhiali, ci vedeva molto poco. Gli interventi chirurgici che permettono ai miopi di recuperare quasi interamente la vista, fattibili ai nostri giorni e rimborsabili dal sistema sanitario nazionale, non erano ancora stati sperimentati e i miopi, fino agli anni ’90, dovettero accontentarsi dei “lentoni”.
Gemma amava molto i colori rosso e oro-luccicante, con cui venivano smaltati i bottoni e tinte alcune rifiniture di passamaneria, perché erano i colori che riusciva a mettere a fuoco con maggiore precisione e che trasmettevano le immagini più nitide ai suoi occhi malati.
La nonna Adelina, che faceva la sarta, le aveva confezionato più volte abiti luccicanti in cui, almeno uno dei fili della composita trama della stoffa, era color oro, oppure, con minor soddisfazione della cliente, argento o rame.
Sempre per questa sua predilezione cromatica, nell’ultimo decennio della sua vita, Gemma aveva preso l’abitudine di legarsi al collo un cordino luccicante, con cui era stata sigillata la carta di un panettone natalizio, senza cedere minimamente alle pressioni di tutti i suoi parenti e amici affinché se lo togliesse dal collo almeno ai funerali.
Come un soprano
A Messa, con quel cordino al collo, cantava sempre nel banco di prima fila con un tono di voce altissimo e gracchiante. Una volta chiesi alla nonna Adelina perché la signorina cantasse a quel modo e lei mi rispose: “Perché è una soprano!”. Non so se lo pensasse davvero o se non sapesse cos’altro dirmi. Sta di fatto che la risposta mi fece molto ridere e che la nonna fece finta di non sentire.
Nonostante Adelina non avesse studiato musica, aveva un fratello che suonava il violino e doveva esserle venuto il dubbio che i gorgheggi di Gemma non fossero proprio ortodossi. Ma, serbando nel suo cuore il dubbio, non mi disse mai nulla e continuò ad etichettare la signorina come un soprano.
Credo che altre persone del paese condividessero la stessa strategia e che questo abbia rinforzato la propensione di Gemma a cantare sempre così, migliorando, ogni anno che passava, il numero e la complessità dei gorgheggi.
Io e mia cugina Ines ridiamo ancora adesso quando ci raccontiamo di quei concerti, ma forse non lo dovremmo fare, un po’ per pietà e un po’ perché, a modo suo e con una certa originalità, la signorina era una fuoriclasse autodidatta.
La nonna Adelina aveva ragione a soprassedere. Gemma credette per tutta la sua vita di essere una brava soprano e fu meglio così.
Far di conto
A parte gli occhi, non era affatto brutta. Corporatura minuta e proporzionata, aveva dei capelli castani che portava raccolti sulla nuca, utilizzando forcine rigorosamente rosse. Era intelligente ed era lei che si occupava della gestione amministrativa della macelleria.
Nel 1959 non esistevano fatture, commercialisti, registratori di cassa e calcolatrici elettroniche. Esistevano i libri contabili che venivano compilati a mano con la matita copiativa e conservati in cassaforte.
Gemma era velocissima a fare i conti e non sbagliava mai. Un po’ per una propensione innata e un po’ per l’esercizio continuo, sapeva fare addizioni, sottrazioni e divisioni con diversi decimali, senza sbagliare mai nemmeno una virgola.
Mia madre ricorda la fortuna di averla avuta come prima insegnante di calcolo e racconta che, grazie a questi insegnamenti, in prima elementare sapeva già fare conti complicati, senza sbagliare mai nulla. Probabilmente questo rinforzò la sua autostima, al punto che imparò matematica molto velocemente e si meritò voti altissimi fino alla fine della sua carriera scolastica.
Anche se vi erano acquisti da fare o il mercato di Casalrossano dove andare a contrattare, era sempre Gemma la candidata migliore e le sue sorelle le cedevano volentieri il bastone del comando, confidando sul suo acume e sulla sua esperienza. Lei ne approfittava e così Carolina era relegata a fare i lavori più pesanti che sporcavano le mani, mentre Mina faceva un’altra professione.
Gianin, l’amore proibito… non troppo
Come Carolina, la più anziana delle tre sorelle, nemmeno Gemma era sposata. Un po’ uno scandalo per quegli anni. Aveva una relazione con un macellaio loro dipendente i cui figli la chiamavano zia, tanto erano abituati a vederla.
Gianin, il suo innamorato, aveva una famiglia, ma la posizione di Gemma e la garanzia di stipendio e carne fresca aveva fatto sì che si creasse un ‘ménage sui generis’, accettato da tutti.
Mia madre si ricorda di alcuni viaggi seduta sul biroccio in mezzo a Gemma e Gianin. Con la scusa di portare la piccola Anna a fare un giretto in pasticceria a Casalrossano, un giretto ‘allo scoperto’ lo potevano fare anche loro.
Andavano a Casalrossano, si sedevano nella pasticceria sotto i portici e ordinavano il rosolio e i bignè. Oppure acquistavano cubetti di torta sbrisolona, dolce tipico padano fatto con farina di mais, zucchero, strutto, burro, ricoperto di mandorle.
Un dolce semplice e povero di origini contadine ma gustoso e croccante, lo si fa ancora adesso e ne esistono diverse varianti, a seconda della zona lombarda nella quale ci si trova. A mia madre non è mai piaciuto particolarmente, ma piaceva a Gianin e quindi facevano una volta a testa. Una volta i bignè e una volta la sbrisolona.
A mia madre la pasticceria Saltafos piaceva molto e si divertiva in quelle gite domenicali a cui era abituata e che considerava normali. Molto tempo dopo realizzò, senza offendersi e senza cambiare la bellezza del ricordo, che la sua presenza era stata un po’ strumentale.
Serviva ai due innamorati come scusa per la gita, ma non era solo questo. Anna era bella e intelligente e loro avevano imparato ad apprezzare la sua predilezione per i bignè e la sua capacità di fare i conti della macelleria con acume e precisione.
Come una famiglia
Quando Gemma comprava stoffa luccicante per i suoi abiti ne comprava sempre due metri in più, in modo che Adelina potesse confezionare due vestiti: uno per lei e uno per la bambina. Così quando andavano al Saltafos, le due appartenenti al ‘gentil sesso’ erano vestite allo stesso modo e questo aumentava l’impressione di Gemma di avere una vera famiglia.
In quelle occasioni la sua soddisfazione raggiungeva l’apice e lei si pavoneggiava con la bambina per mano e il suo innamorato segreto al fianco. I sentimenti in gioco erano buoni e l’opportunismo c’entrava, tutto sommato, poco.
Il rapporto era stabile da anni e la quotidianità tranquilla. Gemma, Gianin e Anna non erano una famiglia in senso stretto, però si volevano bene e ciascuno di loro era molto affezionato agli altri due e sempre pronto per quei viaggi domenicali a Casalrossano.
Credo che quella meno contenta fosse la moglie di Gianin, ma non ne sono troppo sicura. Non ho mai saputo, di scenate, rivendicazioni e amarezze di alcun tipo. Semplicemente, a un certo punto, si era creato quel ménage e tutti si erano adeguati. Gemma faceva sempre tanti regali ai figli di Gianin, che le volevano molto bene.
Carolina e Mina sapevano delle vicende sentimentali di Gemma, ma non se ne preoccupavano. Ognuna delle tre signorine aveva una vita sentimentale autonoma, che non interferiva con la vita delle altre due e la gestione della casa e della macelleria veniva tenuta separata dai vari innamoramenti. I sentimenti personali non venivano discussi e nemmeno criticati, ognuna delle tre aveva dei motivi per non farlo.
Gemma dirigeva bene il negozio e cantava da soprano. Qualità apprezzate in tutta Cremantello. Era una persona stimata e a nessuno importava molto delle sue gite al Saltafos. Che facesse i conti e avesse sempre buona carne, a buon prezzo, era l’aspettativa di quasi tutti i Cremantellesi. A tale aspettativa lei sapeva rispondere con molta efficienza.
Gianin era piccolo e magro. Squartava vacche con abilità e impacchettava interiora senza lasciarne scivolare dall’incartamento nemmeno un brandello. Nel 1959, l’unica carta che si usava era porosa e color giallo sbiadito, comunemente chiamata ‘carta da macelleria’.
I pacchi con la carne acquistata venivano tenuti insieme grazie a un modo particolare di piegare l’involucro rovesciando i bordi e premendo vigorosamente tale rovescio verso il basso.
Un inverno Gianin si ammalò di tubercolosi e Gemma diventò triste. Con gli occhi sempre pieni di lacrime, smise definitivamente di vederci e prese a camminare rasenti i muri, con le mani in avanti per verificare col tatto se ci fossero ostacoli sul suo cammino.
Giuseppe e Albino, i figli di Gianin, andavano tutti i giorni ad aggiornare Gemma sulla salute del padre e in cambio si portavano a casa dei bei pezzi di carne, con cui fare il brodo per il povero ammalato.
Poi arrivò il peggio. Gianin fu mandato a curarsi in sanatorio e la macelleria dovette continuare l’attività senza di lui.
Fu un brutto periodo e mia madre cominciò ad andare tutti i pomeriggi, dopo scuola, ad aggiornare i libri contabili, perché Gemma non ce la faceva più e Carolina e Mina non erano capaci. Imparò così molto giovane come si gestisce un negozio e si innamorò di quel lavoro commerciale, per sempre.
Gianin dopo un po’ guarì e tornò dal sanatorio. Riprese le sue attività normali e ricominciò a fare il macellaio a tempo pieno, il padre a tempo pieno e il marito e l’amante part-time. Mia madre dice che non era né bello né particolarmente brillante, ma gli occhi di una bambina non vedono tutto ed è meglio così.
N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.
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Costanza Del Re
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