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LE FRAGOLE DI LONDRA
Il 25 febbraio Romeo Farinella presenta al Libraccio il suo ultimo libro.


LE FRAGOLE DI LONDRA
Il 25 febbraio alle 17,30 Romeo Farinella presenta il suo ultimo libro


Sinossi

Le relazioni tra città e disuguaglianze vanno inquadrate in una riflessione sui temi posti dai cambiamenti climatici in corso e dalla transizione ecologica. A queste relazioni fanno da sfondo le retoriche riferite ai processi di rigenerazione o di “fondazione” urbana generati dal modello neoliberista che si sta imponendo non solo nel mondo occidentale.
La rigenerazione urbana destinata alle classi più ricche, nella logica della gentrificazione, e la privatizzazione o semi-privatizzazione dello spazio pubblico, la segregazione socioeconomica ed etnica dei gruppi vulnerabili e quella volontaria dell’élite, la sostenibilità come strumento di esclusione (eco-gentrificazione) e i processi di greenwashing ne rappresentano i caratteri più salienti.
Tre tappe segnano questo percorso critico: la città industriale e la rottura dell’equilibrio uomo-ambiente; gli intrecci tra urbanizzazione, cambiamenti climatici e disuguaglianze; le retoriche eco-urbanistiche e il diritto alla città.

Anticipiamo due brani del volume di Romeo Farinella

I . Disuguaglianze e politiche urbane

Dal World Inequality Report 2022 emerge che l’1% delle persone più ricche del pianeta emette una quantità di gas serra corrispondente al 50% dei più poveri. Il 10% dei francesi più agiati producono il 25% del totale delle emissioni mentre i più poveri in media il 5%. Quel 10% conduce certamente una vita più sana e formalmente più “sostenibile”. Lo si riscontra nella scelta della qualità dei prodotti per l’alimentazione, ma anche per il proprio benessere personale o per il tempo libero e i servizi alla persona.

La componente più povera del nostro mondo, nonostante conduca una vita certamente meno sana nella scelta dei prodotti alimentari, nella gestione dei rifiuti, nelle forme di mobilità, in termini di bilancio globale è molto più “ecologica” della classe media e di quella economicamente più agiata. La ricerca dell’obiettivo zero emissioni non può populisticamente risolversi in misure che colpiscono percentualmente, alla stessa maniera, tutti gli strati della popolazione, ma necessita di strategie che tengano conto che, in termini di bilancio complessivo, le azioni proposte non incidono allo stesso modo sulla popolazione (ricchi/ poveri) o sulla geografia economica (Occidente/ Global South). Andrebbero, quindi, evitate misure che pesano di più sui poveri, come la carbon tax o la flat tax e, prima di tutto, occorrerebbe rivedere un sistema fiscale che genera e moltiplica le disuguaglianze perché non adegua le imposte ai diversi livelli di reddito. Al contrario, andrebbero valutate preliminarmente le disuguaglianze, tra paesi e gruppi sociali, per proporre delle strategie di adattamento, di tassazione, di redistribuzione delle ricchezze, proporzionali al contributo di ogni gruppo sociale in termini di emissioni di gas serra . La necessità, dunque, che chi inquina paghi i costi della decarbonizzazione appare politicamente non più rinviabile, come già sosteneva nel 2015 l’economista Thomas Piketty .

L’evoluzione demografica in corso non gioca a favore del miglioramento delle città e allontana sempre più il raggiungimento dell’obiettivo 11 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU. La prospettiva di arrivare al 2100 con una popolazione mondiale oscillante tra dieci e undici miliardi di persone deve fare i conti anche con l’invecchiamento, visto che le aspettative di vita per gli over 65 sono in aumento mentre sono in calo le nascite, come ci dicono i dati del World Population Prospect 2024 delle Nazioni Unite .

Le previsioni demografiche in realtà sono discordanti e altre fonti indicano per il 2100 una oscillazione tra gli otto e i nove miliardi di popolazione; in ogni caso le città dovranno adattare i loro sistemi di salute e protezione sociale per fornire servizi e spazi adeguati e sicuri a queste fasce d’età. Inoltre, se le loro dimensioni cresceranno e se ne nasceranno di nuove, il consumo di beni e di suolo aumenterà ancora più velocemente. È necessario, dunque, impegnarsi in una sfida enorme di fronte alla scarsità di risorse e all’intensificarsi dei problemi ambientali. Un cambiamento per il quale il mondo non sembra preparato.

Verso quale modello di sviluppo dovremmo quindi orientarci se la nostra finalità, oltre a quella di salvare il pianeta, comprende preliminarmente anche la lotta alle disuguaglianze? Si tratta di fare emergere un tema sempre latente, ma fondamentale se di nuovo paradigma dobbiamo parlare, ovvero il rapporto tra democrazia e capitalismo. Consapevoli che la parola “democrazia” può indicare esperienze e dottrine diverse4, il “capitalismo” non è certamente in crisi, anzi rafforza sempre più il suo ruolo di “motore di prosperità selettiva”, come sottolinea Nadia Urbinati . Un “meccanismo” in grado di modificare nel corso della sua storia le condizioni e i presupposti che generano profitto, consapevole che la povertà dei “molti” è la condizione per il benessere dei “pochi”.

Nel corso del Novecento, nei paesi occidentali le differenze si sono certamente attenuate (ma non sono sparite) mentre le disuguaglianze e la povertà, come già ribadito, si sono rafforzate altrove, grazie anche al dominio dei modelli di sviluppo neoliberali. La transizione ecologica, con l’enfasi posta sul tema dell’innovazione tecnologica, che renderà smart ogni nostra azione quotidiana, in realtà non si sta configurando come un diritto per tutti e una grande parte dell’umanità non ne avrà accesso.

II . “Futuro ancestrale”. Oltre la sostenibilità

La sostenibilità è in fondo un concetto del capitalismo. La scrittrice e giornalista brasiliana Eliane Brum, riferendosi al pensatore brasiliano di origine indigena, Ailton Krenak, lo ribadisce chiaramente quando scrive che: “questo è il termine impiegato da chi ritiene possibile uscire dall’abisso senza rinunciare al sistema capitalistico che ci ha portato sull’orlo dell’abisso. È un discorso appetibile affinché, grazie a qualche alterazione cosmetica, tutto possa proseguire senza eliminare la disuguaglianza strutturale tra generi, razze e specie.”.

Secondo Krenak il mito della sostenibilità è una narrazione creata dalle aziende capitalistiche per conquistare i consumatori. Il racconto si fonda sull’idea che ciò che si consuma è prodotto in modo sostenibile, ma è una bugia: l’acqua della fonte che sgorga nella foresta è straordinariamente buona, la grande azienda che la commercializza in tutto il mondo è in regola con i requisiti di sostenibilità previsti dalle legislazioni, ma siamo certi che sia sostenibile prelevare quest’acqua, in questo luogo e commercializzarla ovunque?

L’idea della ancestralidade introdotta da Krenak è un pensiero indigeno che contrasta con quello della sostenibilità; si basa sulla constatazione che le nostre vite lasciano troppe tracce e quando una cultura ne lascia troppe è insostenibile. Vivendo è impossibile non lasciarne ma questo non significa che non ci si debba porre il problema di cercare di lasciarne il meno possibile. La riflessione sulle impronte lasciate dal nostro sviluppo è una chiave di lettura per comprendere le trasformazioni delle culture e dei territori. Secondo André Corboz, il territorio non è un dato bensì il risultato di diversi processi. Se un tempo il territorio si modificava anche spontaneamente, l’azione dell’uomo ha preso il sopravvento sui processi di modificazione, quindi il territorio è un progetto perché esprime una volontà di trasformazione. Questa considerazione determina la necessita di definire l’insieme di obiettivi ed il quadro valoriale ed etico a cui ci riferiamo quando ragioniamo sul progetto.

Il capitalismo neoliberista ha ben chiara la sua prospettiva progettuale e la sta attuando limitando la sfera pubblica a favore del privato, sostituendo alle politiche pubbliche interventi a vantaggio di banche e imprese, esautorando i parlamenti e i poteri legislativi a vantaggio della efficacia delle decisioni politiche, rafforzando gli apparati comunicativi fautori di una informazione anestetizzante relativamente ai conflitti e alle crisi in corso.

Le politiche urbane rappresentano uno dei campi privilegiati per l’azione progettuale, sempre più attraversata da una retorica imperante che svuota di significato anche le categorie riprese dalla natura (“foresta”, “bosco”, “albero”) per ridurle ad aggettivi subordinati ad interventi che hanno ben altre finalità. E la risposta non può essere Fitopolis di Stefano Mancuso, la cui tesi sembra una banalizzazione di un rapporto complesso tra città e natura. Secondo il botanista, riprendendo i dati del Copernicus Climate Change Service, per risolvere il problema della crisi climatica dobbiamo piantare cento miliardi di alberi. Piantare alberi attorno alle città è una soluzione per ridurre le emissioni climalteranti ma ci sarebbe anche un’altra strada, afferma Mancuso, ridurre tali emissioni intervenendo sul modello di sviluppo ed energetico.

Questo avrebbe un profondo impatto sull’economia delle nazioni e richiederebbe un tempo ancora lungo oltre ad un impegno globale, quindi meglio soprassedere. Del resto, Mancuso usa genericamente il termine “Antropocene” per definire il processo di alterazione del pianeta da parte dell’uomo, ma l’impatto di un nordamericano o di un europeo, come già ribadito più volte, non è lo stesso di un africano o di un indio, che sono di fatto vittime di questa situazione, al contrario dei “bianchi”. Le responsabilità umane che ritroviamo dietro la crisi climatica o si precisano e si contestualizzano economicamente, politicamente e socialmente o non serve a nulla ribadirle genericamente. Il problema oggi non è solo “ecologico”, è prima di tutto “socio-ecologico” o “socio-politico-ecologico” ed attiene in maniera diretta all’incidenza delle disuguaglianze nelle dinamiche di cui stiamo parlando.

[…] Il rischio di trasformare il “piantar alberi” in una gigantesca operazione di greenwashing è pertanto un pericolo reale; inoltre si pone un altro problema: dove trovare i cento miliardi di alberi da mettere attorno alle aree urbane del pianeta? Nel 2015 si faticò a trovare gli alberi per l’EXPO di Milano e supponendo di avere oggi i denari per pagare ai vivaisti la messa a dimora dei miliardi di alberi necessari, tra quanti anni questi saranno pronti per essere impiantati? E come faranno i paesi africani a piantare alberi, con i loro bilanci strozzati dai debiti contratti con i paesi occidentali che si arricchiscono sulle loro miserie?

La lentezza con cui procede l’impiantazione della foresta del Sahel per bloccare l’avanzata del deserto, di cui abbiamo parlato, lo testimonia. In Fitopolis si afferma che le città del futuro, siano esse costruite ex novo o rinnovate, devono trasformarsi in luoghi dove il rapporto fra piante e animali si riavvicina al “rapporto armonico” (sic!) che troviamo in natura. Ma siamo certi che dobbiamo costruire nuove città, non bastano quelle che abbiamo?

Le città mal costruite dall’uomo, prevaricanti nei confronti degli alberi e della natura, non sono nate per caso o per volontà divina ma sono l’esito di processi culturali e politici che, in particolare dopo la rivoluzione industriale, hanno assunto le dimensioni e le caratteristiche che abbiamo cercato di descrivere nel primo capitolo. Vi sono, quindi, delle responsabilità che non sono genericamente umane, ma sono associabili a specifiche forme di razionalità del pensiero occidentale, ad esempio il capitalismo e il neoliberismo. L’alterità e il dominio dell’uomo nei confronti della natura non è un dato generalizzabile a tutta la specie umana, come vedremo le culture indigene si sono sempre poste come componenti della natura e della foresta, senza ribadire la supremazia della specie umana sulle altre. Le città nuove, marcatamente neoliberiste, che abbiamo descritto precedentemente sono ricche di alberi e vegetazione ma si basano su processi escludenti e dunque su di una selezione di censo, se il concetto di classe sembra troppo marxista.

In copertina: Brick Lane, East End of London – ph. Romeo Farinella. 

Nota di redazione
Tra i molteplici impegni e attività, Romeo Farinella trova il tempo di collaborare con assiduità a questo quotidiano. Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Romeo Farinella su Periscopio clicca sul nome dell’autore

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani