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Gli Agricoltori  hanno molte ragioni e giuste richieste per cui protestare, ma anche richieste sbagliate. Purtroppo, L’Europa, i Governi, Italia compresa, sembrano accogliere solo le richieste sbagliate.

La mucca di Sanremo

Chissà se la mucca che dovrebbe salire sul palco di Sanremo … fa parte di quelle (la grande maggioranza) che sono allevate in modo intensivo, dentro recinti da cui non escono mai per tutta la vita, selezionate dai genetisti (in modo “scientifico”) per aumentare la produzione di latte (da 15 a 40 litri/giorno) a costo di ridurre la durata della loro vita che ora è di soli 4,7 anni, impedendo così di avere un 2° vitello (e producendo così anche un danno agli allevatori).

Questa ed tante altre porcherie ed atrocità vengono spacciate come “allevamento”, “agricoltura” e “scienza”, seppure in palese conflitto con la buona agricoltura, il buon allevamento, il benessere animale, la salute umana e il pianeta Terra.
In agricoltura bisogna infatti distinguere tra chi coltiva e alleva bene e chi invece, seguendo la logica solo dei soldi, coltiva e alleva male, inquina e vuole continuare a farlo. Uno dei grandi cambiamenti è ritornare ad un’agricoltura amica dell’uomo e della natura.

L’ideologia (la scusa) che sostiene l’agricoltura estensiva e gli allevamenti intensivi (di 70 miliardi di animali nel mondo, stimati a 100 nel 2030) è che non c’è cibo a sufficienza per tutti i 9 miliardi di abitanti (futuri). Una falsità, mostrata da numerosi studi; basti pensare che l’attuale organizzazione agro-alimentare produce un 30% di cibo che viene scartato o buttato (perché non conforme agli “standard” del consumatore) e senza considerare che il cibo industriale è molto meno nutriente del cibo “non forzato”.

Senza contare che, è un dato assodato, mangiare 70 kg. di carne (o 120 come in Usa) all’anno a testa è una ricetta per morire prima.

Un’agricoltura senza antiparassitari (o che li riduce come chiede l’Europa), biologica, biodinamica, che tutela la natura, il paesaggio rappresenta il futuro. E’ vero che produce il 10% in meno di quella industriale, ma garantisce cibo più sano e nutriente, non inquina e alla fine sommando tutti i costi (anche quelli di inquinamento delle falde acquifere, ambientali, di trasporto che mai vengono conteggiati), costa uguale o di meno. Un prezzo che possiamo permetterci se si pensa che gli italiani spendono il 17% del proprio reddito per il cibo e che se la spesa salisse al 19% (+10%) sarebbe una scelta intelligente perché avremmo una grande quantità di altri vantaggi: meno malattie (quindi meno spese), meno inquinamento, più occupazione, migliore paesaggio, più salute.

Contributi europei e criteri PAC

L’Italia è il 1° produttore agricolo d’Europa con 32 miliardi di valore aggiunto, seguita dalla Francia con 31 miliardi, la quale ha un’agricoltura molto più estensiva dell’Italia (ha il doppio di ettari). La Francia riceve però 8,2 miliardi di aiuti rispetto ai 5 dell’Italia, ai 6,7 della Germania, ai 5,7 della Spagna.
Le cause sono i criteri di finanziamento UE che privilegiano gli ettari e non il valore aggiunto o l’occupazione locale, valori che in futuro dovremmo valorizzare. Le agricolture di qualità (bio, agricoltura di precisione) producono non solo cibi di maggior qualità ma, inquinando meno, più occupati e reddito. Ma i “trattori” vogliono fare questa battaglia?

Cambiare in meglio o in peggio i criteri della PAC (la politica agricola europea) che favorisce le grandi aziende, chi usa antiparassitari, chi ha molti ettari e molti trattori oppure si vuole favorire i piccoli contadini o chi colativa bio?
Le produzioni biodinamiche hanno per esempio un fatturato di 13.000 euro per ettaro contro una media di 3.200 dell’agricoltura industriale. Sia in Italia che in Europa molte piccole aziende e contadini sono favorevoli a questa impostazione. La linea di conflitto è quindi dentro i singoli Paesi e tra gli stessi agricoltori. E se prevalesse anche in Europa la logica delle grandi aziende estensive? Il mattatoio della Tönnies nel Nord Reno Vestfalia (una enorme “fabbrica di carne” che macella e lavora 20mila maiali vivi al giorno) è stato uno dei principali focolai di coronavirus in Germania. Un centro dove lavorano migliaia di immigrati dall’Est Europa pagati poco e ammassati in fatiscenti alloggi che producono una carne a basso costo venduta a 3,99 euro per 600 grammi nei discount. Un tipico modo di produzione che ha un alto costo sociale ed ambientale, frutto però anche delle scelte dei consumatori tedeschi. Sono questi i prodotti che dovrebbero vedere aumentata l’Iva, al fine di favorire alimenti sani e prodotti fatti nel rispetto degli Animali e degli Esseri Umani.

Cambiare abitudini alimentari

Ci sono molti europei (anche quelli ricchi o della classe media) che scelgono frutta, verdura e carne a basso prezzo. Il che denota una mancanza di cultura del cibo. Non è solo questione di soldi. In Inghilterra e Germania (più ricchi di noi) si spende solo il 10%-14% del reddito per il cibo, rispetto per esempio al 17% dell’Italia.

Per migliaia di anni la carne è stata sinonimo di sopravvivenza, prosperità e potere in quasi tutte le culture. Nelle società agiate in cui viviamo da 50 anni, è cresciuto il numero di persone che mangiano carne tutti i giorni, quando solo prima della seconda guerra mondiale la si mangiava 2-3 volte all’anno da parte della metà della popolazione più povera in Italia. Ciò spiega perché crescono gli allevamenti intensivi di animali (70 miliardi nel 2019).

Oggi mangiare carne significa ancora per la maggioranza essere ricchi e avere un senso di piacere. In generale noi occidentali rimuoviamo mentalmente il fatto che produrre carne (in questo modo in particolare) provoca grandi sofferenze agli animali che mangiamo e spesso desertificazione e disboscamento nei paesi poveri.
Ricordo quando da giovane feci un trekking in Nepal che per mangiare carne ci si portava gli animali al seguito e il dover uccidere degli animali che avevano camminato con noi, produceva una drastica minor alimentazione di carne. Eppure qualcosa sta cambiando anche in Germania: nel 2018, il 33% dei tedeschi dichiarava di mangiare carne ogni giorno, nel 2019 questa percentuale è scesa al 25%.

 Le ragioni giuste degli agricoltori

Gli agricoltori hanno molte buone ragioni per cui protestano, ma anche sbagliate e, purtroppo, pare che Governi e Unione Europea, vogliano acconsentire a rispondere a quelle sbagliate.

Gli agricoltori sono divisi in tante specie, ma in particolare tra i piccoli che coltivano bene, biologico o con un minimo di pesticidi e le grandi imprese che coltivano in modo “industriale” facendo largo uso dell’agro-chimica.
Per tutti ma in particolare per i piccoli, il vero problema è che i prezzi di vendita alla GDO (grande distribuzione) o ai grossisti sono una troppo piccola percentuale del prezzo al cliente finale che fa la GDO.

Per esempio il radicchio rosso lungo al mercatino agricolo del paese (se vivi in un paese) costava a fine ottobre 2023 1,48 euro al kg, se invece lo acquistavi al supermercato (Grande Distribuzione Organizzata, GDO) 2,49 euro (se era della specie “rosso tondo Leonardo”); se era invece quello “rosso lungo” 2,99 euro. Se è poi un prodotto IGP (Indicazione Geografica Protetta) venduto presso un punto della GDO il suo prezzo saliva a 3,49 euro. E non stiamo parlando di prodotti biologici, che costano di più. All’agricoltore vanno 0,50 euro se “rosso lungo” e 0,53 se “rosso tondo Leonardo”. All’agricoltore va, quindi, solo il 15% del prezzo finale al supermercato (se acquisti un prodotto IGP) e il 17,7%. E così è quasi per tutto.

Ora facciamo l’ipotesi che all’agricoltore andassero solo 7 cent in più, cioè che prendesse 0,60 euro al Kg. Per il coltivatore sarebbe un aumento significativo (+13,2%), mentre per il consumatore sarebbe un aumento irrisorio (+2,3%). Ma si potrebbe anche pensare che con una più equa distribuzione la GDO mantiene lo stesso prezzo finale per il consumatore e retribuisce meglio l’agricoltore, riconoscendogli non il 17,7% del prezzo finale di vendita al consumatore, ma il 20,1%, che è sempre poco, ma consentirebbe all’agricoltura di fare un grande passo in avanti in termini di sicurezza (sua e del territorio) e di sviluppo.

Quindi, il primo e principale problema in agricoltura è una remunerazione maggiore degli agricoltori che danno il prodotto che finisce al cliente.
Vale la stessa cosa anche per gli allevamenti che negli ultimi decenni hanno assunto una dimensione “horror” con la crescita di quelli intensivi in cui non c’è alcun rispetto per il benessere animale, c’è un’enorme quantità di antibiotici mescolata al mangime e mucche, maiali, polli, etc. sono stati selezionate in modo tale che per produrre di più è stata ridotta la longevità. Per esempio le mucche producono più latte ma vivono meno (4,7 anni) e non riescono più a partorire un secondo vitellino, per cui ciò ha compromesso lo stesso allevamento. Come saranno considerati in futuro questi metodi di selezione delle razze che vanno avanti da 50 anni? Ma ci sono anche allevamenti biologici e biodinamici rispettosi del benessere animale, dove gli animali non sono costretti in spazi angusti, le mucche vanno al pascolo e non si usano farmaci (antibiotici, anabolizzanti e così via).

Un altro punto critico dei temi della protesta è l’accordo con i 4 paesi del sud America: Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay (Mercosur) che, con la scusa del libero scambio, apre le porte in Europa a prodotti che costano meno ma sono contaminati da fitofarmaci che vengono esportati dalle nostre multinazionali dell’agro-chimica, in quanto non sono più commercializzabili in Europa perché da noi vietati.

Ragioni sbagliate e risposte sbagliate

Ci sono poi richieste (da parte di alcuni, non tutti) di non ridurre l’uso dei pesticidi, che la Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo (modificando la proposta meno restrittiva della Commissione UE) prevedeva del 30% entro il 2035.

Altri chiedono di mantenere gli sconti al gasolio agricolo (che produce gas serra) e altri ancora di mantenere il sostegno ai redditi agricoli, eliminati (questi ultimi) dal Governo Meloni che ora (pare) vuole ripristinare per le piccole imprese (max 10mila euro di reddito annuo). Il 4% dei campi non coltivati è per dare possibilità al terreno di non esaurirsi come fertilità ed avere siepi e alberi come nell’agricoltura biologica-biodinamica dove il 10% non è coltivato per dare spazio agli insetti e alle api. Non si tratta solo di avere un paesaggio fatto di bellezza e con alberi ma di far vivere gli impollinatori senza i quali, secondo alcune stime, la produzione cala dal 3% all’8%.

Nulla si dice dei prezzi nella filiera o di come dirottare parte degli aiuti della PAC e PNRR ai piccoli contadini anziché sempre alle grandi imprese.
Le uniche aperture riguardano invece gli aiuti al gasolio e ai pesticidi che vanno contro ogni buona agricoltura che inquinano le falde acquifere, riducono la fertilità dei suoli, fanno sparire le api, danneggiano la salute umana, la biodiversità e gli animali.

L’orientamento è quindi di favorire la parte peggiore dell’agricoltura (grandi imprese, chi coltiva industrialmente, pesticidi, gasolio, allevamenti intensivi) e mettere in crisi ulteriormente i piccoli contadini che bene coltivano rispettando la Terra e gli Animali e in modo bio. Del resto il glifosato (diserbante cancerogeno) è stato prorogato dall’Unione Europea per altri 10 anni e non c’è tra le richieste dei “trattori”, come nessuno Governo parla di rivedere i prezzi nella filiera agricola che dai campi arriva alla GDO, imponendo per esempio sull’etichetta il prezzo che viene pagato all’agricoltore.

L’idea infine che Coldiretti stia dalla parte dei piccoli agricoltori è un’idea da tempo tramontata se si pensa che ad essa aderiscono le più grandi imprese agricole tra cui BF (Bonifiche Ferraresi) quotata in borsa.

Chi protesta, sta di fatto denunciando il fallimento di un modello agricolo che è in realtà agro-industriale, un sistema che non regge in quanto basato su produzioni intensive senza alcun controllo della filiera e dei prezzi, in balia della grande distribuzione (GDO) nel caso dei prodotti destinati al consumo umano o dell’industria mangimistica, per quei prodotti come il mais che ormai non vengono più prodotti per l’uomo, ma per diventare il cibo insostenibile del nostro cibo, cercando quindi di massimizzare la resa per ettaro a discapito della qualità ambientale, del lavoro agricolo e, anche a fronte della scarsità idrica che riguarda in particolare la Pianura Padana, sarebbe opportuno modificare il tipo di colture[1].

Una delle possibili soluzioni è scendere dai trattori da 200mila euro, dall’idea di un uso intensivo e dei pesticidi per tornare a un’agricoltura contadina, dove si produce cibo buono, nel rispetto della Terra e degli Animali e dove solo a chi fa questo importante lavoro viene riconosciuto un prezzo equo.
Viceversa, come nella rivolta dei “forconi” del 2012, facendo una gran “confusione di tutto”, il rischio è che le buone ragioni dei molti piccoli agricoltori siano seppellite per difendere ancora le grandi imprese, un’agricoltura sbagliata e inquinante che riceve l’80% dei fondi della PAC e PNRR, anche se rappresenta solo il 20% delle aziende agricole.

Nota:
[1] Raccontando la protesta avrebbe senso amplificare la voce di quelle realtà che lottano per una nuova agricoltura come Via Campesina, https://www.assorurale.it/chi-siamo/european-coordination-via-campesina/ il cui coordinamento europeo ha diffuso un “Manifesto per la transizione agricola per affrontare la crisi” e chiedono il sostegno economico alla transizione agro-ecologica commisurato alle problematiche in gioco, la priorità al sostegno ai redditi agricoli di che bene coltiva e non l’ampliamento delle grandi aziende agricole. Le rivendicazioni sono puntuali: “Chiediamo un bilancio adeguato affinché i sussidi della Politica agricola comune (Pac) vengano ridistribuiti per sostenere la transizione verso un’agricoltura in grado di affrontare le sfide della crisi climatica e della biodiversità. Tutti gli agricoltori già impegnati e che vogliono impegnarsi in processi di transizione verso un modello agroecologico devono essere sostenuti e accompagnati nel lungo periodo. È inaccettabile che nell’attuale PAC un 20% di aziende (le più grandi) monopolizzi quasi tutti gli aiuti pubblici, mentre l’80% degli agricoltori europei non riceve alcun aiuto, o solo briciole”.
Tratto da “I trattori in strada raccontano la fine di un modello agricolo, di Luca Martinelli, 31.1.2024, in Altreconomia.

 

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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