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Torre di Controllo a Maggiore Tom.  Psicoterapia espressiva e psicosi 

Space oddity
(David Bowie)

(…)
Sto uscendo dalla porta
E sto galleggiando nello spazio
in modo strano
E le stelle sembrano molto diverse oggi.

Perché
Sto seduto in un barattolo di latta,
Lontano sopra il mondo,
Il pianeta Terra è blu

E non c’è niente che io possa fare.(…)

Quando ho conosciuto Tom è così che lo percepivo, come un piccolo astronauta che aveva perso il contatto con la base ed era destinato a navigare nello spazio solo e all’infinito.
I miei tentativi di contatto, per aiutarlo a tornare sulla terra sembravano  inutili.

Torre di Controllo a Maggiore Tom
Il tuo circuito si è spento,
c’è qualcosa che non va
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti, Maggiore Tom?
Mi senti

l’unico riscontro che avevo era il riprodursi della medesima scena……

 Sono qui che galleggio
attorno al mio barattolo di latta,
Lontano sopra la Luna,
Il pianeta Terra è blu
E non c’è niente che io possa fare

 Tom abitava una astronave cui era fortemente attaccato e che lo rendeva sicuro.

 Malgrado sia lontano
più di centomila miglia,
Mi sento molto tranquillo,
E penso che la mia astronave sappia dove andare

Ma purtroppo non poteva sapere che la sua nave  aveva perso  la comunicazione con la torre di controllo e così navigavano, lui e la navicella, disordinatamente  con una traiettoria che illudeva entrambi sulla destinazione.

Credo di aver deciso di non aspettare che la sua astronave lo riportasse sul pianeta terra da dove io lanciavo  segnali per la strada di ritorno ma di tentare una sorta di allunaggio. Mi sono preparata.

La Torre di Controllo ha
cominciato  il conto alla rovescia e al suo augurio che Dio ti assista,
ho acceso  i motori,
ho controllato  l’accensione e

Mi sono lanciata nello spazio per agganciare astronave e pilota

 Torre di Controllo a Maggiore Tom,
Prendi le tue pillole di proteine e mettiti il casco
(…)
Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque,
quattro, tre, due, uno,

Partenza!

Tom soffre di quello che in psichiatria viene definito Disturbo schizoaffettivo: una condizione psichiatrica per cui si vivono sia psicosi che disturbi dell’umore.
Senza scomodare l’OSM e il sistema di classificazione APA dobbiamo pensare ad una persona che  può manifestare, senza averne consapevolezza, allucinazioni e/o deliri,  entrambi  prove importanti di una realtà alterata che  non essendo riconosciuta come tale dal soggetto, fa vivere in un perenne stato di ansia.
Tutto ciò, se non fosse già di per sé una esperienza terrificante,  è accompagnata da un  “disturbo del pensiero formale” (cioè il pensiero disorganizzato che include illogicità, tangenzialità, perseverazione, neologismo, blocco del pensiero, deragliamento o una combinazione di tutti questi disturbi del pensiero)

Tom ne soffre dall’adolescenza, un disturbo causato in parte da life eventes traumatici: è stato testimone della morte del padre.

Da quel momento   ha cominciato ad avere alcuni comportamenti di evitamento sociale, di difficoltà scolastiche fino a giungere a manifestare sintomi deliranti e paranoidi. Il motivo del primo ricovero, primo di molti altri, era stato il suo rifiuto di bere e mangiare per paura di essere avvelenato, ma sono rimasti presenti, anche negli anni a seguire, ossessioni di persecuzione, rituali ossessivi, fobie di contaminazione. Nel tempo c’è stato un significativo peggioramento dei sintomi e del disadattamento sociale che lo ha costretto ad abbandonare la scuola.

Il  quadro clinico generale  negli anni è stato osservato  con minime variazioni.

Sono stata contattata dal  Primario di un Servizio Psichiatrico territoriale per adulti  che in quel periodo aveva preso in carico Tom,  che, ormai maggiorenne, era stato dimesso dal servizio di Neuropsichiatria infantile.  La sua richiesta era di tentare un percorso di psicoterapia individuale che non si fondasse esclusivamente su approcci verbali, che fosse in qualche modo alternativo ad altri modelli che fino ad allora erano risultati piuttosto inefficaci. Più volte mi ha ripetuto che “era un caso difficile”.

Pur avendo pensato (e sperato) di svolgere la Psicoterapia Espressiva con diversi materiali, per attivare percezioni e quindi contattare differenti dimensioni intrapsichiche, tenendo conto  delle fobie di contaminazione e della necessità di controllo  del paziente (alcuni  strumenti creano imprevisti e sono poco controllabili) quelli che ho proposto inizialmente sono stati pennarelli, matite colorate, pastelli a cera.

I pennarelli sono stati scelti e confermati come strumenti privilegiati in tutti i suoi lavori. Tra i supporti, presenti in diversi formati e colori, Tom ha scelto spontaneamente sempre lo stesso tipo: fogli bianchi, lisci,  A3.

Tom arriva sempre con la madre (ma trascuro di parlare di questa coppia speciale) e arrivano puntualissimi. La loro comparsa è anticipata da un rumore di tacchi alti e uno, inquietante, di conati. Tom non risponde ai miei saluti e ai miei inviti tranne quando è la madre a indicargli che fare. Spesso  di fronte a domande dirette ripropone i conati di vomito. La sua mimica facciale appare ridotta, anche i suoi movimenti sono pochi e meccanici, il suo contatto oculare è discontinuo.

Sono andata al primo incontro con diversi timori. In realtà i risultati sono stati migliori rispetto alle mie aspettative:  anche se la madre (impossibile all’inizio pensare che “me lo consegnasse”) ogni tanto annotava delle cose su una rubrica blu facendomi sentire decisamente sotto esame.

Tom è riuscito a stare nella stanza, ha usato i materiali, mi ha parlato seppur con poche e sintetiche frasi, mi ha guardato, si è sforzato di collaborare e tutto ciò mi è sembrato tanto. Anche se ero preparata a silenzi e inattività ho sentito un vero sollievo quando Tom disegnava. Le immagini sono state il veicolo per fare conoscenza: le ho utilizzate per rompere il ghiaccio e come tramite per farmi raccontare qualcosa in più della sua vita attuale rispetto alle sue laconiche descrizioni di sé: la scuola, i giochi, ecc.  Alla domanda come stai? Tom non è stato in grado di seguirmi (E non c’è niente che io possa fare) anche se poi mi ha regalato quel cielo  che mi è sembrato un modo piuttosto pregnante per descrivere l’impossibilità di tenere in contatto cielo e terra divisi da uno spazio bianco, un vuoto impercorribile che può fagocitarti.

 Il cielo e la terra

In questo primo periodo oltre ai conati si presentano delle specie di crisi respiratorie in concomitanza quasi sempre di stimoli spiacevoli (ad esempio l’ingresso di un operatore, la richiesta di prendere, toccare direttamente). Questo dolore fisico me lo mostrerà anche nei disegni.  Il primo livello del bambino per segnalare un disagio è  una comunicazione  in cui è il corpo che parla e in  cui all’inizio sono presenti solo: sto bene,  sto male. Ma io ho di fronte un adolescente.

  il nodo alla gola è qui che ho male

Al momento del commiato, se gli chiedevo come si era trovato, “bene”!  diceva senza incertezze, ma dopo i saluti non mi guardava più e lo sentivo già distante. 

Torre di Controllo a Maggiore Tom
Il tuo circuito si è spento,
c’è qualcosa che non va
Mi senti, Maggiore Tom?

La sua riluttanza a raccontare viene superata da un senso di dovere e di compiacenza che producono frasi sintetiche e perentorie che una volta scritte non vuole commentare. Ogni volta che lascia dei segni sul foglio,  parole,  foto, disegni, sente l’esigenza di prenderne le distanze e dice che “non ha più niente da dire”, “di mettere tutto nella cartellina”, “che è stanco”, “che vuole andarsene”. Per me è difficile dare un seguito a queste sue espressioni.

 Tento  un passaggio alle tempere, mi sembra che sia pronto a un materiale più fluido e questi sono i risultati: uno svelamento subito abbandonato. Una parola indicibile, una piccola parvenza di forma umana trasparente

 

Ed è qui che torniamo, grovigli impenetrabili ma che  proteggono. Siamo a prima del big bang che dal caos ha dato un ordine all’universo

Credo che Tom, a suo modo, mi abbia messo di fronte alla sua necessità di rimanere  protetto dietro le sue difese, mi ha reso partecipe della sua sofferenza: lo spazio bianco vuoto del disegno tra il cielo e la terra, che separa, che non è abitato; mi ha mostrato come il suo centro gravitazionale fosse la madre e come per incontrarlo anch’io dovevo attraversare questo circuito.

I suoi “non so”, ma di più  i suoi silenzi alle domande,  sottolineavano la sua impossibilità a definirsi: Tom è senza passato, senza presente e senza futuro. Però iniziava ogni seduta dicendo “io sono Tom”.

Sentivo ogni volta un elemento di ambivalenza:  non sapevo se i suoi lavori  riposti nella cartellina fossero lì per essere custoditi o per essere abbandonati.

Tom non ha nomi per le emozioni. L’unico affetto è per la madre verso la quale mostra un atteggiamento infantile fatto dal desiderio di compiacerla e di richieste di contatto fisico.

Verso la fine della nostra terapia Tom prima, di andarsene, prendendo uno stralcio di conversazione che aveva sentito tra me e la madre rispetto agli obiettivi e alle future valutazioni della terapia, mi dice guardandomi, “No. Non è stato un fallimento. “E qui che ho male” e si mette la mano sul petto all’altezza del cuore” forse scimmiottando quello che aveva visto fare dalla madre.

Tom dopo il primo anno di psicoterapia con l’arte ha ripreso a frequentare la scuola dove è arrivato progressivamente a tollerare  un orario pieno e dove, oltre al percorso con il suo insegnante di sostegno, si sono ampliate le interazioni con la classe.

Tom e la madre (quella strana coppia!) hanno accettato ed iniziato degli incontri quindicinali di psicoterapia famigliare.  Vanno in un’altra città in treno e Tom regge bene questa situazione promiscua e pubblica senza adottare nessuno dei suoi sintomi.

 Alcune considerazioni su Transfert e Controtransfert nella relazione terapeutica tra  Tom e me

Il transfert è la diversa posizione assunta dal paziente nei confronti dell’oggetto analitico; attraverso l’uso dell’analista come oggetto, il paziente trasferisce parti volute o non volute di sé, prova e sperimenta diversi stati di sé per trovare ciò che è giusto e accurato come espressione della sua realtà interna (Winnicott).

Il transfert presuppone una regressione, una riattivazione del passato. Rispetto al mio modello di riferimento  – indirizzo psicodinamico – lo specifico disturbo psico-patologico di cui soffre Tom  fa  capire che questa definizione classica non è percorribile. Infatti nella relazione con un paziente psicotico il transfert psicotico conduce il terapeuta ad una maggiore attività, lo induce ad un lavoro in cui  deve rafforzare l’Io del paziente e lo  consiglia di allearsi  più con la realtà che con l’inconscio del malato.

L’aspetto simbolico è un traguardo  lontano ma se siamo  anni luce dall’uso psicoanalitico del transfert  ho potuto però lavorare sul mio controtransfert.

Quello somatico: è nel corpo che risuonano per primi alcuni elementi importanti di ciò che sta avvenendo nella  relazione terapeutica.

Spesso, terminata la seduta  mi sono resa conto di avere un’emicrania che mi spaccava il cervello, come se la fatica di “tenere” mi fosse costata uno sforzo inconsapevole ma esagerato che adesso si manifestava con questa “esplosione”.

La mia sensazione era quella di resistere perché potevamo   avviare un processo: bisogna vincere la gravità terrestre per raggiungere lo spazio.

(…) La Torre di Controllo ha
cominciato  il conto alla rovescia e al suo augurio che Dio ti assista,
ho acceso  i motori (…)

Esiste poi un controtransfert più specifico della psicologia espressiva:  il terapeuta  esplora i contenuti della sua mente in particolare con l’aiuto dell’emisfero destro (quello della creatività, delle libere associazioni, dell’immaginazione) ed anche con la realizzazione dei propri prodotti  artistici, restituzione e veicolo per arrivare a contenuti ancora inconsci ma che da dentro vanno verso il fuori e, prendendo una forma e un senso, possono essere oggetti  di trasformazione.  (come esempio il collage di fig. 1, il brano musicale che mi ha fatto da risonanza).

Avevo la piena  consapevolezza della complessità e del grado di impegno di questo viaggio interplanetario. Tom per me è ancora un astronauta lanciato  nello spazio  in cerca di una comunicazione con “il pianeta terra che è blu” che è anche una speranza.

Sto uscendo dalla porta
E sto galleggiando nello spazio
in modo strano
E le stelle sembrano molto diverse oggi.

Negli  due anni di psicoterapia insieme non ci sono stati più ricoveri.

Nota importante: tutti gli articoli della rubrica sono tratti da casi clinici reali, romanzati ed adattati per rispettare la privacy. Le immagini dei pazienti sono autorizzate dalla liberatoria che mi è stata concessa solo a scopo di pubblicazioni a mio nome. Ne è vietata la riproduzione per altri usi.

Per leggere gli  altri interventi  della rubrica L’Arte che Cura di Giovanna Tonioli, clicca sul nome della rubrica o su quello dell’autrice. 

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Giovanna Tonioli

Giovanna Tonioli da molto tempo si occupa di Dipendenze Patologiche nel servizio pubblico. A lungo, come educatrice, ha pensato di fare uno dei mestieri più belli perchè coraggioso, avventuroso, “stupefacente” come le storie delle persone. Il battesimo lo deve a Marco Cavallo e, sull’onda del pensiero della Psichiatria Democratica, le piace abbattere le porte chiuse e lottare contro tutte le forme di stigma; è testimone delle più svariate umanità. Si è laureata in Psicologia clinica, si è specializzata presso l’Istituto di Psicoterapia Espressiva di Bologna ed è socia di Art Therapy italiana. Lavora a Ferrara. L’incontro con l’arte terapia è stata una svolta importante sia personale che professionale – ma Marco Cavallo lo sapeva già – e così come libero professionista svolge l’attività di Psicoterapeuta Espressiva, dove l’arte, la creatività e l’estetica si sposano con la psicoanalisi, le neuroscienze, la mente con il cuore delle persone. Una terra di mezzo, uno spazio transizionale in cui le parole possono incontrarsi con tutte le forme espressive, il rigore con la curiosità e il gioco, la disciplina con l’immaginazione. Giovanna è anche un mezzo (e sottolinea “mezzo”) soprano, una sfocata fotografa, un’artista naif. Vive in provincia di Ferrara, precisamente alla Cuccia, una piccola casa in uno sperduto borgo di campagna, con i suoi cani che nel tempo si avvicendano, ma che, sempre, sono a loro modo grandi maestri di vita.

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