L’arte che cura. Quando la società ti fa ammalare: lo stigma
La sofferenza mentale non è sempre una questione biologica, cioè non è sempre una malattia organica.
Alle persone con una maggiore vulnerabilità allo stress, quindi con una predisposizione genetica che potrebbe però rimanere senza conseguenze sulla salute per l’intera vita, può succedere che, al sommarsi di fattori psicosociali negativi, si ammalino. Un innesco che non segue la logica causa effetto (il modello biomedico ) ma è il risultato di fattori bio-psico-sociali che si incontrano e si sommano in determinate condizioni.
Spesso la malattia mentale è una questione culturale che con i pregiudizi colonizza la mente e mina negli individui il proprio senso del sé, della identità, del diritto ad avere un posto nel mondo per sé e le proprie differenze.
Molte volte è una questione di contesto sociale che, discriminandoti, escludendoti, restituendoti l’immagine di essere sbagliato, ti porta ad essere un giudice spietato, ad adottare verso di te lo stesso sguardo senza indulgenza della società, a credere più reale delle tue idee e bisogni quello che la gente pensa di te.
Se sei giovane e quindi più vulnerabile al contesto ambientale e relazionale ti detesti, ti odi, ti nascondi, ti fai del male, vuoi morire.
Se, per il mio lavoro, arriviamo ad incontrarci e riusciamo a parlarne, può nascere l’idea di una possibile rivoluzione: tu che ti ribelli al mondo, tu che difendi le tue ragioni, tu che puoi esprimerti con convinzione e non piangere silenziosamente. Tu che vai bene così come sei. Anche se è anche il mondo che dobbiamo cambiare.
1.
La mia vita è come il volo di un’allodola
Che uno specchio che scintilla fa cadere giù
Le sue ali stanche sono fragili
Ninna nanna per un volo che è finito
Camminare in questo mondo non è facile
Se tu sei diverso gli altri non capiscono
Io non so come farò a difendermi
Se è importante dimostrare chi non sei
Non lo so, non lo so
[Gian Pieretti, Come il volo di un’allodola
https://www.youtube.com/watch?v=wHvNPSFBUao]
Sei un bel ragazzo, un giovane adolescente, arrivi da lontano, hai un nome “strano”, lo cambi con uno che non incuriosisce ed è pronunciabile ma non basta. Quando ti guardi allo specchio vedi il colore della tua pelle che non è bianca come quella degli amici. I tuoi occhi, bellissimi, hanno una forma a mandorla che ti tradisce e i tuoi capelli neri neri dritti e indomabili anche se tagliati alla moda, sono insopportabili. “Voglio una ragazza di Ferrara, bionda, bianca”, “ diventare ricco”.
Riversi la colpa della tua infelicità sui tuoi genitori: tuo padre che incarna quello che ti ha “venduto”, tua madre che lo ha sposato e perciò non può essere tutta per te, sostituendo “ l’altra” che non c’é mai stata.
Scomodando Freud si potrebbe parlare del vecchio Complesso di Edipo. Noi – io e te – sappiamo che questo odio e questo amore assoluti sono il tuo modo di riparare un abbandono e dare significato alla tua vita sradicata, meticcia.
Dopo varie vicissitudini e importanti rotture familiari pare che tu stia trovando un modo di ricucire la tua immagine. Spontaneamente ti dedichi a una sorta di mandala dove motivi floreali orientali si sposano con le iniziali del tuo nome originale. Il rosa è il tuo colore preferito e lo dividi in una campinatura che dovrebbe riproporre, nell’insieme, il simbolo dello Yin e dello Yang. Ma sei insoddisfatto, si avverte un senso di riluttanza, lo si percepisce anche dalla confusione dell’immagine, dal disordine e dall’approssimazione. Lascerai il lavoro incompiuto e deciderai di interrompere la terapia.
2.
(…)Mia madre bussa sulla porta della mia camera, mi trova morto
Senza nessun, nessun ricordo
E le mie ultime parole sono scritte con quel cacciavite, un cacciavite rotto
Lo sai che ho ucciso il mostro
E adesso non mi riconosco, oh-oh, oh
E adesso non mi riconosco, oh-oh, oh
E adesso non mi riconosci nemmeno tu
All’ultimo piano, appeso a testa in giù
Pronto a fare un tuffo dove il cielo è più blu
Posso urlare finché non mi sente Dio
Qui nessuno mi ama veramente, specialmente io
Seguo la dannazione, eh, si allungano le ombre, eh
Corro sulla neve senza lasciare impronte
La vita è un sogno, tu c’hai paura della morte
E adesso non mi riconosco, oh, yeah
Sono diventato il mostro
[Mace, centomilacarie, Salmo, “ Non mi riconosco”
https://www.youtube.com/watch?v=m1jIi-Op9V0]
Sei una giovane donna intelligente, colta, sensibile. Parlare con te è un arricchimento ed un piacere. Ma non ti piaci, sei troppa, sei come una piccola bimba, una neonata che si sente sicura solo tra le braccia della mamma. E di questo primitivo legame rimangono il bisogno di cibo e di dormire.
Hai tentato di farti fuori ma è rimasto solo il senso di colpa e la morte dentro.
Sai scherzare, sai scrivere poesie intense, le tue immagini artistiche sono belle ma sembra che non riescano a restituirti la tua di bellezza. In bilico tra la voglia di cambiare e lasciarti alle spalle la sofferenza e la paura di rinunciare alla tua malattia che almeno conosci. Vuoi uccidere il mostro ma, se lo fai, non ti riconosci e adesso sei tu il mostro.
Ti propongo un collage con le stoffe. Le selezioni con cura, le accarezzi con delicatezza, provi sotto i tuoi polpastrelli le diverse texture, mi spiegherai che rappresentano diverse parti di te.
La volta successiva desideri completare il lavoro e ascoltando una canzone sceglierai le frasi come didascalie per le diverse parti del lavoro.
Il collage è ordinato. Nello spazio del foglio ci sono stoffe più spesse, materiche, vellutate, trasparenti, altre come la sovrapposizione di strati di nero appaiono come un agglomerato denso seppur nato da stoffe leggere come il tulle. Sei attenta a non uscire dai bordi. Le diverse parti sono tutte contenute nel supporto ma, per ora, ognuna per sé. Il filo conduttore la canzone Non mi riconosco. Il titolo che scegli Sono diventata il mostro.
3.
Chiudere i coperchi e chiudere la vista
Colmare la rottura ed evitare la vita
L’intera Terra è diventata una terra desolata
Una palude intensa, una palude di pianura
Non così piatto come desolato
E nel profondo del veleno e del rimpianto
Piango ad alta voce mentre vengo trascinato sotto
E un corpo pende dall’asta della doccia
Come un asciugamano lasciato ad asciugare
Le gocce gridano la loro protesta in una stanza buia e vuota
La tristezza decora il silenzio
Come un raduno dell’oscurità
Le mie grida sono l’eco di un suicidio perduto da tempo
Un angelo sanguinante, una colomba morta
[Kaio Dot, The mortality of Doves traduzione dall’inglese]
https://youtu.be/s3FaV9PnTU4?si=OezLUB79msfY-eO-
Per amore fin da piccolo ti hanno spinto ad assomigliare a chi non sei. Con le buone, con le cattive, con indirette persuasioni, con esplicite disapprovazioni.
No. Non andavi bene ma cosa fare senza sembrare ingrato verso i tuoi genitori?
Hai fatto tutto quello che desideravano e bene, perchè sei educato, ubbidiente e ti fidi del loro parere. Soprattutto vuoi essere amato.
Poi, da grande, sono cambiate alcune cose, importanti tragedie che ti hanno travolto ma che, inaspettatamente, ti hanno liberato. Sembrava.
Adesso sei quello che vuoi, ma ti tormenta l’idea di aver tradito chi ti amava e vivi ogni giorno la fatica di pensare che hai sbagliato e sei sbagliato e che questa società non è per te. Vivi trascinando la tua vita sognando la morte come una liberazione ed una irreversibile sconfitta.
Al primo incontro per descrivere la tua situazione hai disegnato te seduto in trono con una spada enorme che pendeva sulla tua testa. A questo disegno poco tempo dopo è seguito il seguente che hai intitolato Ansia. Aggrappata con artigli, ti penetra nella testa e ti piega con il suo peso enorme. Il ragazzo disegnato, procede su quella linea sottile sulla quale appoggia, rassegnato ad andare avanti.
Morire è il tuo pensiero di liberazione, il terrore di tutti ma il gesto estremo da compiere ti fa paura.
E ti condanna.
Le mie grida sono l’eco di un suicidio perduto da tempo
(…)Oltre la mostruosità
chiudere i coperchi e chiudere la vista
colmare la rottura ed evitare la vita
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Giovanna Tonioli
Commenti (1)
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Non riesco a commentare, sono solo emozioni.