Come ogni mattina sono andata a cercarlo. In cucina, in sala, nello studio.
Oggi l’ho scovato appoggiato al muro, semi-nascosto — si fa per dire — dalla gamba del tavolo bianco.
— Ma che ci fai, lì? — l’ho interrogato.
Naturalmente, non ha risposto. Cosa può rispondere un palloncino a forma di stella?
Sono impazzita? Fate voi.
Vi presento il mio palloncino Charlie. Fu gonfiato dalla figlia con bomboletta all’elio per il compleanno del papà. Quasi due mesi fa.
Questo palloncino è dunque l’esempio di un ottuagenario tenace e in ottima forma.
O meglio, “in ottima forma” fino a poco tempo fa. Oggi, infatti, è floscio, raggrinzito, come ci si può aspettare da un vecchio parecchio in là con gli anni. Eppure resiste. E ha resistito fino ad ora. E fino ad ora, si è sempre dato da fare per palesarsi, in modo più o meno evidente, durante la giornata.
Quando era gonfio e turgido se ne stava lassù, tronfio della sua forza, quasi arrogante, a guardare tutti dall’alto. E noi, i “tutti”, a non considerarlo. Nel senso che, conclusi i festeggiamenti, l’avevo relegato insieme ai suoi fratelli palloncini di diversa forma e misura, di fianco al camino spento. Ormai lo, anzi “li” davamo per scontati. Solo il marito, talvolta, a insistere a liberarli e lasciarli librare nell’etere, all’esterno, e io a fare resistenza.
Il tempo passò — il tempo, si sa, sfilaccia anche i più indomiti.
Ad uno ad uno, i suoi simili si afflosciarono, alcuni di colpo, altri meno celermente, nella sorte che tutti noi consideravamo “naturale”.
Questi, no. Lui, no.
Assistette impassibile alla dipartita dei suoi compagni, senza un moto, un’oscillazione finanche del filo argentato di cui era fornito. Anzi: più i suoi compagni si svilivano, riducendosi, appiattendosi, aggrumandosi, più lui sembrava prendere forza, rimpolpare la propria tracotanza, giungendo a aderire a ventosa — ma sempre ben panciuto — contro il soffitto. Quasi a voler creare maggior divario tra la sua virilità e il decadimento degli altri.
Passarono i giorni, le settimane.
L’alterigia del palloncino sembrò scendere — nel vero senso della parola — a più miti consigli. Ma solo talvolta e per pochi istanti. Come infatti il suo lungo filo ci passava davanti al naso — mentre guardavamo la televisione, seduti sul divano, la sera — facendosi sussultare, subito egli s’inorgogliva per l’attenzione suscitata, e con un guizzo si riposizionava lassù, irraggiungibile.
Il tempo, però, non fa sconti a nessuno.
Per quanto non demordesse, un giorno non gli riuscì più di raggiungere le sue massime vette.
Comprendevo la sua frustrazione. Mi accorgevo che tentava di risalire (magari aiutato dall’aria calda del camino ormai in funzione) per giungere a lambire il suo cielo (il soffitto), ma più che restargli a due spanne di distanza, non gli riusciva.
Con rincrescimento scese, di quel poco per non infierire troppo sulla sua anima fiera, e trovò conforto, assestandosi a posizioni via via inferiori, nel poter fluttuare con più agio per l’intera casa — e gli architravi delle porte non gli furono più d’ostacolo.
Ecco, qualcuno non ci crederà, ma man mano che abbandonava la sua posizione privilegiata, accettando compromessi, anche noi incominciammo ad affezionarci a lui, a considerarlo con rispetto, quasi a farcelo amico. E gli affibbiammo un nome.
È proprio vero che l’umiltà paga…
La sua presenza, talvolta inquietante (specie se, voltandoci all’improvviso, ci trovavamo a tu per tu con il suo faccione sornione) ci divenne consueta. Quasi ricercata.
Sì, perché da quando si abbassò al nostro livello, e ancor più quando, compreso il filo, divenne alto quanto un bambino, fu considerato la “terza” presenza in casa.
E il suo giocare a nascondino ci induceva a cercarlo allegri nelle stanze del piano terra, e poi nelle camere del piano superiore, che raggiungeva salendo silente la scala, e ad essere un divertimento anche per i nipoti, che gli regalavano strilli, risate e non indolori strattoni di filo.
Ormai, però, non si muove più di tanto.
Specie dopo essersi bruciato, l’altro ieri, avvicinandosi incautamente al vetro rovente del camino chiuso, in cui ardeva crepitante la legna. Quel giorno, per fortuna, ero presente in sala e, percepito il suo lamento sfrigolante, mi precipitai a scollarlo a forza dalla trappola mortale.
Temetti il peggio. Che esalasse l’ultimo respiro… Invece no.
Malconcio, tutto una ruga, parzialmente ustionato, aveva continuato, frastornato, pencolante, ad esplorare l’ambiente, come ad imprimerselo nella mente. Anche se talvolta mi sembrava che perdesse l’orientamento…
Oggi l’ho trovato appoggiato al muro, dietro la gamba del tavolo bianco. Sembra un gatto. E non so più se impaurito o in attesa, perché i felini domestici sono insondabili. So solo che se ne sta lì. Tra il tavolo bianco (di plastica, orribile, ma posto in sala perché ospita una serie infinita di mattoncini da costruzione, divertimento per eccellenza dei nipoti) e la vecchia credenza di mia suocera dove, sul ripiano, mio marito ha allestito il Presepe.
E non so neppure se per questa storia ci sia una morale. E, se esiste, quale possa essere.
Se ci sia una morale per questo mondo così abituato al dolore e all’ingiustizia. E se ci sia una morale per chi cerca di comportarsi bene, nonostante tutto. E magari di scrivere con leggerezza un raccontino che narra di un palloncino e della sua assurda umanizzazione, mentre poco tempo prima ha ascoltato notizie di guerre, prepotenze e reati di ogni genere per televisione.
Buon Natale. Buon Anno. Buone Feste. Comunque. Per continuare a credere che possa esistere un mondo e un modo migliore per vivere.
Ecco: penso che sia questa, la morale.
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Carla Sautto Malfatto
Commenti (1)
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complimenti! c’è una morale nel nostro vivere? lo scopriamo piano piano, quando ci modifichiamo, quando ci troviamo di fronte a traumi e non finirei più di dire che anche noi siamo palloncini Charlie e viviamo con palloncini Charlie.
Mi piace moltissimo quando parli di morale.Questa è la bellezza del tuo racconto: non ce n’è una solo ma l’importante è che ci sia. Mai banale cara Carla, grazie.