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di Davide Grasso –

L’attacco è stato giustificato come risposta alla strage di Istanbul del 13 novembre. Una donna siriana ha lasciato, a volto scoperto di fronte alle telecamere di sorveglianza, una borsa con esplosivo nella via più affollata della città, tornando poi a casa per esservi immediatamente arrestata. Il suo nome è Ahlam Albashir e sarebbe originaria delle aree tra Aleppo e Afrin sotto il controllo dei jihadisti usati da Ankara come supporto alle proprie truppe, ma anche di un’altra fazione jihadista – Hayat Tahrir as-Sham –  branca siriana di Al-Qaeda. Secondo le indagini Albashir avrebbe ricevuto l’esplosivo da un uomo chiamato Husam, arrestato nella città siriana di Azaz, anch’essa sotto controllo turco-jihadista. È stato interrogato anche un altro uomo, che ha telefonato alla sospettata prima dell’attacco: Mehmet Emin İlhan, dirigente del partito turco di estrema destra Mhp, principale alleato di Erdogan nel governo (subito rilasciato).

Nonostante questo, già il 14 novembre il ministro dell’Interno turco Suleyman Soylu dichiarava che l’arrestata aveva agito su ordine delle Unità di protezione del popolo curde (Ypg), che combattono proprio l’invasione turco-jihadista della Siria nel Rojava (Kurdistan siriano). Le Ypg non hanno mai agito su suolo turco né utilizzato tattiche terroristiche, e hanno negato il loro coinvolgimento. Sono parte del grande esercito rivoluzionario e interetnico delle Forze siriane democratiche: difendono l’unica regione siriana che sia riuscita, a oltre un decennio dalla primavera del 2011, a instaurare una forma di autogoverno autonomo dalla Turchia e dal regime di Assad, l’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est (Aanes).

L’Aanes si fonda su assemblee e commissioni popolari dette Comuni, animate dalla parte della popolazione che si riconosce nei principi egualitari ed ecologisti promossi dal Partito di unione democratica (Pyd). Riconosce alle donne autonomia e un ruolo strategico di direzione politica. Nelle sue istituzioni ogni organo è co-presieduto da un uomo e una donna, ogni consiglio prevede quote di genere (40%) e una rappresentanza prestabilita è assegnata ai giovani e alle minoranze religiose e linguistiche.
Molti, tra la popolazione turca e soprattutto a Istanbul, non sono persuasi dalla goffa ricostruzione governativa della strage. Contano, come in Siria e ovunque, le contrapposizioni politiche nella società. Almeno metà della popolazione vorrebbe farla finita con Erdogan, vuoi per la gestione disastrosa dell’economia, vuoi per la cappa oscurantista che negli anni ha fatto calare sul paese. Lo scontro tra tendenze alla secolarizzazione e reazioni tradizionaliste (o fondamentaliste) è trasversale alla Siria e alla Turchia, fino all’Iran e all’Afghanistan. È attrattore di tutte le istanze, da quelle socio-economiche a quelle concernenti la giustizia e il patriarcato.

La repressione in Turchia, dove centinaia di funzionari eletti sono in carcere, o in Iran, dove il governo ha lanciato un’operazione contro il dissenso nel Rojhelat curdo nelle stesse ore in cui la Turchia bombardava il Rojava, ha certo a che fare con il decennale rifiuto delle potenze regionali di risolvere la questione curda, ma si inserisce in un quadro più ampio. Le donne iraniane (curde e non) stanno tentando di cambiare il proprio paese negli stessi mesi in cui quelle afghane affrontano in piazza i Talebani. Le donne del Rojava costituiscono un elemento di ispirazione ben presente, al punto da disseminare il proprio slogan: “Jin, Jiyan, Azadi” (Donna, vita, libertà). Esistono diretti contatti politici tra il Kongra Star (Congresso delle donne del Rojava) e gruppi organizzati di donne attive in Iran e Afghanistan.

L’Iran ha fatto trapelare l’ipotesi di un’invasione delle regioni curde d’Iraq, dove l’esercito turco è impegnato da anni, senza successo, in una operazione d’aria e di terra contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) da cui Kongra Star e Kodar (analogo organo misto curdo-iraniano) hanno mutuato la loro idea di rivoluzione femminile. Una cooperazione tra Iran e Turchia contro i curdi non stupirebbe: ha già portato alla costruzione concordata di un muro al confine tra i due paesi per controllare sia i militanti che i migranti.

I governi turco, iraniano e afghano, al di là delle loro differenze confessionali e di politica estera, dipingono le rivolte come manovrate dagli stati occidentali, ma si tratta di contraddizioni interne a quelle società, per sostenere le quali da occidente, a livello governativo e non, si fa in realtà ben poco. I bombardamenti turchi avvengono in uno spazio aereo controllato da Russia e Stati Uniti, che acconsentono concretamente alle continue stragi di civili e militanti del Rojava. I media occidentali minimizzano o silenziano in modo inquietante le operazioni turche (la Turchia è paese Nato). L’abitudine della sinistra sociale o radicale a considerare, incredibilmente, un argomento di destra la denuncia delle imposizioni nelle società e nelle comunità islamiche, può spiegare esitazioni o reticenze maggiori rispetto ad altri temi.

L’articolo originale su Micromedia online

In copertina: proteste dei curdi contro l’assedio di Kobane, Roma, 15 febbraio 2017 (su licenza Wikimedia Commons)

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