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Valle del Vajont, 9 ottobre 1963: 1.910 morti, di cui 487 bambini sotto i 15 anni. Non una disgrazia né un errore, ma una strage: prevedibile (come accertato anche nel conseguente processo penale) e determinata da avidità e sete di profitto. E il seguito fu quasi peggio: umiliazioni dei superstiti, sperperi e ancora profitti per i soliti noti. Per questo, anche se sono ormai trascorsi 60 anni, bisogna continuare a ricordare.

Qual è il senso di ricordare un evento, anche se tragico, quando ormai sono trascorsi 60 anni? Come dare senso alla Memoria, quella che si scrive con la M maiuscola e non si limita a commemorare il passato, ma ci impone di imparare da esso per impedire che la storia si ripeta, che si accetti passivamente che vengano commessi all’infinito gli stessi reati (non “errori”, come spesso si dice)?

Conoscere la vicenda della strage del Vajont (9 ottobre 1963: 1.910 morti, di cui 487 bambini sotto i 15 anni) ci permette in realtà di capire quelle di oggi perché alle spalle ci sono sempre gli stessi interessi economici e politici. Non si tratta mai di incidenti, di errori umani, di incuria, ma di veri e propri crimini commessi consapevolmente, violando leggi e accettando la priorità della salvaguardia dei bilanci rispetto alla sicurezza, alla salute, alla vita delle persone e delle comunità, alla tutela dell’ambiente. Per profitto le aziende, pubbliche o private che siano, accettano di giocare alla roulette russa con la nostra vita.

“Queste cose” – pensiamo – “capitano solo agli altri”, ma in realtà tutti noi e i nostri cari siamo le potenziali prossime vittime di questa società del rischio, di questo sistema di sviluppo neoliberista ritenuto oramai a livello globale come l’unico possibile, sia dalle democrazie (o cosiddette tali) che dai regimi: ovunque nel mondo sono i soldi e la finanza a decidere per noi. Dal Vajont a oggi l’elenco si arricchisce con allarmante frequenza e con un comune filo di sangue conduttore: Viareggio (29 giugno 2009, 32 morti), Ponte Morandi (14 agosto 2018, 43 morti), Torre Piloti di Genova (7 maggio 2013, 9 morti), albergo Rigopiano (18 gennaio 2017, 29 morti)… E poi i palazzi (anche scuole e ospedali) che si sbriciolano alle prime scosse di terremoto per non essere stati adeguarti alla norme antisismiche e le inondazioni sempre più frequenti a causa di eventi metereologici che non si possono più considerare eccezionali.
E ancora, i tre morti al giorno sui luoghi di lavoro a cui vanno aggiunti i 6.000 all’anno dell’amianto, le vittime dell’inquinamento prodotto dalle fabbriche o delle terre dei fuochi sparse in tutta Italia. La lista si allunga in continuazione, tanto che la nostra memoria sbiadisce e ogni nuova strage fa dimenticare quella successa appena ieri.

Il 9 ottobre – come scrivono in molti che hanno dimenticato il peso delle parole – si “celebra”, dunque, il 60° anniversario del Vajont. Alcuni, anche tra i politici e giornalisti, non ce la fanno proprio a capire che quella diga non è crollata e che non si è trattato di un’alluvione “come in Romagna”, ma che è stato un «omicidio colposo plurimo con l’aggravante della prevedibilità», come sentenziò la Cassazione (marzo 1971) condannando lo Stato italiano, l’Enel e la Montedison: quella diga così appassionatamente voluta dalla élite economica e politica, non andava costruita. Il Monte Toc su cui era appoggiata, quel gigante dai piedi d’argilla, non poteva reggere alla pressione dell’acqua del lago artificiale formato sbarrando il corso del torrente Vajont che, 250 metri più sotto, si sarebbe tuffato nel Piave. E i geologi, anche quelli che poi si adattarono agli ordini che arrivavano dall’alto, lo sapevano bene.

La potente ditta privata Sade, che aveva costruito la diga con imponenti finanziamenti pubblici, era stata fondata dal massone fascista Giuseppe Volpi (a cui il re Vittorio Emanuele II, su pressione di Mussolini in persona, aveva dato il titolo di Conte di Misurata per i suoi meriti come governatore della Tripolitania: al suo servizio vi era il generale Rodolfo Graziani, il “macellaio di Fezzan”, responsabile del massacro di 100 mila civili, per la maggior parte donne, vecchi e bambini, su una popolazione di 800 mila persone, che smentisce per sempre la propaganda degli italiani “brava gente”).
Dopo la morte di Volpi (1947) i suoi progetti non cessarono di prosperare grazie agli influenti contatti che il conte aveva saputo costruire con cinismo e con la capacità di adattarsi ai tempi. I governi continuarono a sostenere la Sade e a finanziare la costruzione della diga, la prima grande opera dell’Italia contemporanea. Avvenne così la prima grande strage dell’Italia democratica, proprio all’apice di quel boom economico che aveva fatto uscire il nostro Paese dalla miseria del dopoguerra.

La storia di una diga che non si doveva fare

Il 20 settembre 1959, dopo dodici anni dall’inizio dei lavori, nonostante vari intoppi superati con qualche complicità dei governi in carica, la diga, opera d’ingegno dell’ingegner Carlo Semenza, venne terminata e l’anno successivo un ultimo controllo dello Stato stabilì che era sicura e poteva cominciare a produrre energia elettrica.
Nel dicembre 1962 l’energia elettrica venne nazionalizzata e nel marzo 1963, pochi mesi prima della strage, lo Stato italiano comprò dalla Sade la diga, costruita con soldi pubblici, e la sua gestione venne affidata all’Enel, ente pubblico istituito per l’occasione. Insieme alla diga, l’Enel “comprò” dalla Sade anche Enrico Biadene, che rimase come direttore del servizio costruzioni idrauliche. Terremoti, frane dal Toc, smottamenti avevano cominciato da tempo a spaventare la gente che viveva nelle frazioni di Erto e Casso ai bordi del lago e anche la gente di Longarone che sentiva la terra tremare. Ma per le autorità non c’erano problemi.
Fino a meno di mezz’ora prima delle 22.39 del 9 ottobre, sebbene terra, alberi, animali avessero cominciato a scivolare sempre più velocemente verso il lago, esse, pur consapevoli che ormai non c’era niente da fare per tenere su la montagna, si rifiutarono di dare l’allarme e rinunciarono a salvare qualche vita. Il pericolo andava negato. Poi il grande tonfo. Un’enorme fetta del monte precipitò nel lago. E fu la fine. Una gigantesca onda alta 250 metri scavalcò la diga – che (opera del genio italico) rimase integra – e spazzò via, sbriciolandolo, tutto ciò che incontrava.

Fin qui la storia di come si arrivò alla strage. Ma il dopo è stato per i superstiti ancora peggio. Al dolore per i cari persi e i paesi distrutti (Longarone e le sue frazioni, parte di Castellavazzo, le case di Erto affacciate sul lago) si aggiunsero le umiliazioni continue subite (“sono ubriachi”, “pensano solo ai soldi”, “sono comunisti”, “sciacalli sulla pelle dei loro stessi morti”). Difficile, con la presa di consapevolezza, digerire le bugie continue sulle responsabilità della strage, scaricate dalla stampa sulla natura matrigna.

Il grande business della ricostruzione

A fronte dello strazio dei superstiti, si avviò il succulento business della ricostruzione.
A beneficiarne furono le stesse élite che avevano provocato la tragedia. Il “miracolo del Nord Est”, lo sviluppo economico che trasformò quella terra di migranti in una delle zone più prospere d’Italia, fu in realtà frutto delle leggi Vajont studiate ad hoc.
Vennero finanziate imprese, aziende e anche consorzi economici che niente avevano a che fare con le zone colpite. Si inventò la magia delle licenze: chi aveva nella zona colpita una qualsiasi attività registrata presso la camera di commercio poteva avere accesso a finanziamenti illimitati, anche di miliardi di lire (ora milioni di euro).
Fin qui, in fondo, niente di male. La gente aveva perso tutto e tutti, alcuni persino 60 familiari, ed era giusto risarcirli generosamente. Nella legge si insinuava, però, un cavillo: le licenze potevano essere vendute e davano diritto agli stessi vantaggi economici a chi ne entrava in possesso, che poteva utilizzarli per qualsiasi scopo praticamente in tutto il Triveneto.

Cosa successe? Pool di avvocati e di commercialisti, messi in piedi dalle aziende, si presentarono a casa dei superstiti, ancora traumatizzati, magari orfani, vedove o anziani, umiliati dalla stampa, per acquistare le licenze, ovviamente senza dire che erano una gallina dalle uova d’oro.
Molti firmarono la vendita e così, per poche migliaia di lire dell’epoca, grandi imprese come la Zanussi Mel ricevettero, solo in un primo finanziamento, anche 6-7 miliardi, il 20 per cento a fondo perduto e il rimanente gravato da un ridicolo interesse che non poteva superare l’1 per cento annuo in tempi in cui l’inflazione navigava ben sopra le due cifre. Semplice. Nei termini di legge. Ecco così spiegato quel miracolo. Altro che la moltiplicazione dei pani e dei pesci di Gesù Cristo.

Anche la vita delle vittime venne valutata ben poco, qualche migliaia di lire, mentre l’avvocato che riusciva a far firmare la transazione veniva premiato profumatamente. I superstiti perdevano anche il diritto a comparire come parte civile nei processi, nel frattempo trasferiti all’Aquila. Solo quelli ben consigliati o che non avevano immediato bisogni di soldi per sopravvivere non firmarono la transazione.

Il Processo non cancella “l’infame colpa”

Nell’iter processuale si arrivò alla condanna dei responsabili, grazie anche alla memorabile arringa di Sandro Canestrini, avvocato di parte civile. Le pene furono lievi, ma quella “infame colpa”, come la definì un superstite sulla lapide posta in memoria della moglie e dei figli, rimarrà per sempre una vergogna nella storia del nostro Paese.

Dopo ci furono vere e proprie truffe perpetrate da notai e commercialisti, ci furono soldi raccolti dalla solidarietà spariti nel nulla e altri dirottati su scopi completamente differenti. Quando poi, all’inizio degli anni Duemila, arrivarono i risarcimenti al Comune di Longarone da parte della Montedison (che con l’Enel gestiva la diga), buona parte dei 77 miliardi vennero sperperati, spesi male dalla giunta del sindaco Pierluigi De Cesero che, scatenando la rabbia di molti superstiti, fece passare le ruspe sulle tombe e sulle lapidi del cimitero di Fortogna, con una spesa di sei miliardi, per una “ristrutturazione” discutibile che meriterebbe un’indagine approfondita per determinare se la gara d’appalto (vinta con un ribasso del 50 per cento da una ditta di San Felice a Cancello, in provincia di Caserta) si svolse senza irregolarità e se i lavori vennero eseguiti con professionalità e nel rispetto del capitolato.

Quella prima strage, compiuta con la complicità della nostra Repubblica, è diventata purtroppo un modello riproposto in tutte quelle di oggi, un modello capace di trasformare le tragedie in un efficace sistema per far crescere il PIL e i profitti delle aziende.
Ma se le stragi sono una benedizione per l’economia perché mai si dovrebbe cercare di evitarle? Ecco qual è il senso di ricordare il Vajont anche se ormai sono trascorsi 60 anni.

Lucia Vastano
Giornalista, si occupa soprattutto di guerre (Libano, Angola, Salvador, Cambogia, nel Golfo e in Iraq, nei Balcani, in Albania, Afghanistan e Kashmir) ed è autrice di reportage da vari Paesi africani, dalla Cina, dall’India dagli stati islamici dell’Asia Centrale e dall’America. Ha vinto numerosi premi giornalistici tra cui il Premio Unesco 2003 “Comunicare i diritti umani”. Si è occupata da sempre della tragedia del Vajont su cui ha scritto “Vajont, l’onda lunga. Quarantacinque anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica” (Ponte alle Grazie, 2008). Nel 2016 ha esordito come regista del film documentario “I Vajont”, vincitore di numerosi premi internazionali.

In copertina: Un mese prima della strage. La diga del Vajont e l’invaso pieno a quota 710, circa. (settembre 1963)

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