La scuola di Valditara
Il ministro Valditara ha scritto un libro (La scuola dei talenti, pag. 192, 18 euro) in cui espone il suo punto di vista sulla scuola. Lo fecero anche altri ministri come Giovanni Gentile nel 1932 con La riforma della scuola in Italia, in cui metteva in luce i grandi cambiamenti fatti nel decennio precedente con una riforma che ancora oggi influenza la nostra scuola. Altri Ministri che si sono cimentati sono Guido Gonella (La riforma della scuola, 1958), Riccardo Misasi (Questa scuola impossibile, 1972), Luigi Berlinguer (La nuova scuola, 2001).
Il libro è ricco di informazioni e ci racconta sull’impostazione che potrebbe avere questo Governo fino al termine della legislatura. Molti punti sono condivisibili, anche se bisognerà vedere come si passerà dalle parole ai fatti, un problema che hanno avuto molti altri Ministri.
Per Valditara la scuola del merito “si fa carico del bisogno…e cerca di far fronte all’abbassamento del livello di studi” (a suo avviso prodotto da una certa sinistra e dal ’68) che di fatto ha favorito i figli delle famiglie ricche, in quanto i poveri devono accontentarsi di una scuola non di qualità qual è quella pubblica di oggi. Cita Marx quando dice che “sono i poveri che più hanno bisogno dello Stato”, ma non dice che anche il Governo Meloni vuole chiudere le scuole con pochi studenti, dislocate nei paesi deboli o in montagna.
Valditara vorrebbe dare a tutti la possibilità di sviluppare i propri talenti con una scuola di qualità per tutti. E’ però conscio degli attuali enormi divari che esistono tra gli studenti delle famiglie povere (che solo nel 2,7% raggiungono ottimi voti alla licenza media), e quelli delle famiglie ricche (18% con ottimi voti).
Voti alla licenza media in base allo status socio-economico delle famiglie
Questo divario esiste anche tra scuole del Nord e del Sud e tra quelle del centro e delle periferie nelle stesse città del Nord. Fa l’esempio di Torino, dove la dispersione implicita (diplomati che di fatto hanno un apprendimento pari a quello della licenza media) è del 24% nelle periferie e dell’1,1% al centro. Non c’è dubbio che siano gli studenti immigrati nelle scuole delle periferie ad innalzare questi tassi e ciò pone il problema di come realizzare una vera integrazione degli studenti stranieri, che spesso non conoscono bene la lingua italiana. L’Italia è il solo grande paese in Europa che inserisce i giovani immigrati neo arrivati in classi ordinarie per tutte le lezioni, quando è noto che il tempo minimo necessario per apprendere una lingua che consenta di poter studiare una qualsiasi materia è 12-18 mesi. E ciò spiega perché quasi tutti gli altri paesi europei inseriscano gli immigrati in classi preparatorie (solitamente per un periodo di 12-18 mesi) (Svezia, Belgio) o usino un sistema flessibile (Francia, Germania, Spagna, Finlandia, Polonia) in cui parte delle lezioni sono in classi ordinarie. Valditara è di questa opinione.
Il ministro esalta le recenti innovazioni: insegnante tutor, coordinatore, orientatore (con compensi aggiuntivi) che hanno il compito di personalizzare l’apprendimento e aiutare i più fragili, ma trascura di affrontare il tema della riduzione del numero di alunni (le classi “pollaio”) specie al primo anno dei Tecnici e Professionali. Qualsiasi innovazione si scontra infatti con l’impossibilità di insegnare in classi numerose (25-28 alunni), specie se la metà sono immigrati con scarsa conoscenza della lingua italiana o poco motivati.
Concorda col premio Nobel Joseph Stiglitz che le società sono progredite negli ultimi due secoli soprattutto quando si sono impegnate per aumentare le capacità di apprendimento dei giovani e che bisognerebbe investire di più nella scuola che nell’economia, ma secondo gli stessi suoi dati dice che l’Italia investe il 3,2% del PIL nell’istruzione quando la media OCSE è 3,6%. Ciò significa che per raggiungere questa media dovremmo passare da 55 miliardi investiti a 62.
Ci mancano quindi 7 miliardi con cui finanziare tutte le cose di cui parla: realizzare una vera integrazione per gli studenti stranieri, una educazione affettiva e il rispetto per l’altro per maschi e femmine, contrastare la droga, una scuola inclusiva, insegnanti di qualità, più studenti STEM, sviluppare il pensiero critico e i talenti di tutti. Cita il rapporto del sociologo Usa Coleman del 1966, che sosteneva che se non si interviene anche nelle situazioni famigliari disastrate degli studenti fragili è impossibile educare solo a scuola. Ma chi lo fa, se mancano i fondi anche per cose essenziali?
Per fare bene tutte queste cose servono infatti quei 7 miliardi che questo stesso Governo sta investendo altrove. Se no tutto è retorica, parole buone per tutte le stagioni. Il calo demografico che riduce ogni anno di 100mila unità gli studenti sarebbe in tal senso una grande opportunità, invece lo si usa per ridurre ancora le risorse.
Sono d’accordo con Valditara, quando afferma che il lavoro viene visto come fumo negli occhi da certa sinistra, mentre se fosse usato nel giusto modo (non come professionalizzante ma come formazione umanistica), esso accelera e integra la formazione, come dicevano anche Marx, Engels e lo stesso Gramsci. Il lavoro come aspetto caratterizzante all’interno della scuola e non secondo il modello di alternanza guidato dall’impresa. A tal proposito cita anche Togliatti e Concetto Marchesi che davano al lavoro e allo studio della civiltà classica, della storia, un rilievo importante.
La feroce selezione (e gli abbandoni espliciti) ai primi anni dei Tecnici e Professionali avvengono anche perché ci sono classi pollaio, per l’impossibilità di personalizzare la didattica a 25 studenti, specie dopo che con Covid e Dad si è abbassata tantissimo la disponibilità a seguire lezioni seduti al banco.
Valditara non è in grado di affrontare un punto centrale della debolezza della scuola italiana: la carenza di una cultura dell’apprendimento da Sperimentazione (via laboratori manuali e artistici), ma anche di apprendimento dalla Vita e dal Lavoro che si potrebbe fare usando bene le imprese e il lavoro con un vero accompagnamento in cui è la scuola a “dirigere” e non l’impresa (come nel modello di alternanza tedesco, che pure, peraltro, funziona).
Valditara (che riprende Ricolfi) ha ragione quando dice che la qualità della scuola italiana si è abbassata. Ma anche qui, come lui stesso fa vedere, ci sono enormi differenze tra scuole e scuole e il Ministro sa bene che ci sono ottime scuole pubbliche e private e pessime scuole pubbliche e private. La domanda allora è: perché non si riprende la vecchia idea di Luigi Berlinguer di una Autority pubblica che analizza seriamente tutte le scuole (pubbliche e private, come avviene anche all’estero) in modo da evidenziare, ben al di là delle prove Invalsi, limiti e talenti di ciascuna imparando da chi lavora meglio, siano queste scuole private o pubbliche.
In conclusione buoni propositi e un grande interrogativo: dove sono i soldi?
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Andrea Gandini
Commenti (1)
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I soldi ci sono solo per finanziare le guerre. Senza una politica totalmente pacifista la scuola rimane come sempre l’ultimo degli investimenti governativi ( dopo la sanità). Apprezzo molto l’articolo che entra nel merito dei problemi scolastici con imparzialità e competenza,senza le approssimative condanne ideologiche, lontane dalle reali difficoltà odierne( dispersione scolastica e disagio giovanile)