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La Russia, il nuovo oro e il futuro ordine mondiale (con l’Europa ai margini)

Il Fondo Monetario Internazionale (con sede a Washington) ha pubblicato le previsioni del Pil per il 2023, da cui si desume che la Russia crescerà di +0,3% (anziché di -3,4% come previsto in precedenza, per non parlare dei numerosi esperti occidentali che parlavano di una contrazione di oltre il 10%). Poco, ma più di paesi come Germania (+0,1%) e Inghilterra (-0,6%) e non distante da quello dell’Italia (+0,6%).

L’inflazione in Russia sarà del 5-7%, simile a quella in Europa e in Italia. Ma la cosa più sconcertante è che le previsioni del FMI per il 2024 siano di una crescita della Russia maggiore di quella degli Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Francia e Italia.Com’è possibile – si chiede Federico Rampini sul Corriereche il paese colpito dalle più grandi sanzioni della storia, abbia una crescita maggiore della nostra?”.

Il problema di Rampini e di gran parte dell’élite occidentale è che sono rimasti all’idea che la finanza anglosassone, che ha guidato la globalizzazione negli ultimi 20 anni, avrebbe conferito quel potere “definitivo” per dominare il mondo anche nel XXI secolo. Ma così non è, perché nel frattempo è cresciuta la Cina con un inedito potere nelle mani, quelle materie prime oggi fondamentali per tutte le innovazioni tecnologiche.

E’ inoltre cresciuta la galassia dei paesi “non allineati”, che non sono più disponibili a sottostare al dominio americano e che ora esportano verso la Russia ciò che non fa l’Occidente “sanzionatore”: Emirati Arabi Uniti, India, Armenia, ex repubbliche sovietiche, Hong Kong, Turchia (che pure è nella Nato) per non parlare di Iran, Cina e molti altri, che smistano verso la Russia quelle merci che l’Occidente non esporta più (inclusi i microchip per le armi). Il paradosso è che è stata proprio la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia a creare quella fitta rete di snodi che oggi by-passa le sanzioni.

Ciò spiega la graduale ripresa dell’economia russa. Metà degli Stati nel mondo non hanno approvato le sanzioni (73 paesi astenuti all’ONU il 14 novembre; 14 contro; 93 a favore) e non vogliono compromettere i loro rapporti con Cina e Russia. Molti di questi paesi aggirano le sanzioni occidentali ed esportano verso la Russia: ciò spiega come mai chip e ricambi arrivino quasi come prima.

Il New York Times ha rivelato i meccanismi che consentono alla Russia di aggirare le sanzioni ed esportare gas e petrolio, indirizzandoli verso altri paesi. Secondo il sito Kpler, in gennaio la Russia ha consegnato via mare 158 milioni di barili, uno dei livelli più alti dell’ultimo anno, grazie a Cina e India, che hanno aumentato le importazioni. Il Wall Street Journal racconta la storia della Gatik Ship Management, una compagnia indiana, che fino al 2022 non gestiva neppure una nave, ma ora controlla 25 petroliere che fanno la spola tra la Russia e i mercati asiatici. Così dicasi per la greca TMS Tankers, che in un solo mese ha fatto 14 viaggi per consegnare il greggio di Mosca, o la sussidiaria del Cremlino Sovcomflot con sede a Dubai.

A volte il petrolio viene travasato da un cargo all’altro in acque internazionali, come fanno anche Iran e Corea del Nord. Del resto, se venisse a mancare in molti paesi l’export russo di petrolio succederebbe quello avvenuto col gas: i prezzi andrebbero alle stelle. Il blocco all’export di chip e pezzi di ricambio occidentali è aggirato dall’import da paesi amici, come l’Armenia, che ha aumentato l’import di smartphone di 10 volte per poi probabilmente esportarli in Russia. Ciò spiega come mai l’import di chip in Russia sia addirittura cresciuto dal 2021 al 2022 da 1,8 a 2,5 miliardi (fonte International Finance), grazie a Cina, Hong Kong, Turchia, Bielorussia, Kazakhstan e Kirghizistan che si prestano ad operazioni simili (dalle lavatrici ai pezzi di ricambio per le auto).

Su La Stampa Oleg Smirnov scrive che “le sanzioni dell’Occidente non hanno sortito l’effetto che molti prevedevano”, nonostante il blocco di 300 miliardi di dollari delle riserve russe presso le banche occidentali estere, la forte riduzione delle importazioni di materie prime ed energia, il blocco dell’export di tecnologie occidentali e l’esclusione delle banche russe dal sistema Swift. E’ vero che molte multinazionali hanno abbandonato la Russia (tuttavia, la maggioranza sono rimaste) ma i loro negozi sono stati sostituiti da altri russi con merci locali e l’occupazione persa (circa 200mila persone) è stata rimpiazzata da moltissime donne, che lavorano al posto degli uomini finiti al fronte (come accaduto anche durante le guerre mondiali).

Intervistato da La Stampa, Evgeny, 55 anni, medico di San Pietroburgo, che può considerarsi un rappresentante del ceto medio, dice che “ai tempi dell’Unione Sovietica non avevamo prodotti occidentali, quindi siamo abituati, la guerra non ha influenzato particolarmente le finanze familiari, i prezzi di alcuni prodotti di prima necessità sono aumentati un pò, ma niente di insostenibile”. Le vendite di automobili in Russia nel 2022 sono crollate del 58% ma i pezzi di ricambio arrivano dai Paesi asiatici o dalle cosiddette “importazioni parallele”, cioè paesi terzi, come Turchia, Kazakhstan, etc.

Contrariamente alla narrazione mainstream, in Ucraina è in corso una guerra per procura tra USA e Russia, che vede la Cina come il vero “convitato di pietra” del XXI secolo. E’ probabile che l’invasione dell’Ucraina sia avvenuta col consenso della Cina, che dal 2009 lavora a un nuovo Sistema Monetario Internazionale in cui il dollaro non sia più l’unica moneta di “ultima istanza”, ma ci sia anche lo yuan cinese.

Gli Usa hanno debiti con l’estero per una cifra da capogiro (19.100 miliardi, 11 volte il Pil dell’Italia), mentre la Cina ha un attivo di 4.100 miliardi (e la Russia di 600 miliardi). Già nel 2009 c’era stato un approccio della Cina coi BRICS (Brasile, Russia, India, Sudafrica) per avviare questo processo. La scelta di Lula (Brasile) di non mandare armi all’Ucraina conferma l’interesse per un nuovo assetto monetario che si va costruendo anche in America Latina – un disegno che aveva in mente Gheddafi per il Nord Africa, stroncato con la sua uccisione nel 2011.

Il dominio del dollaro si basa su tre fattori: a) la forza economica degli Usa; b) la potenza militare; c) la finanza occidentale, cresciuta in modo impetuoso negli ultimi 20 anni, quasi tutta nelle mani degli anglosassoni.
Gli Usa pensavano che col dominio della finanza non ci sarebbe stata partita nel XXI secolo, ma hanno fatto male i loro conti. La Cina, dopo la sua straordinaria crescita economica (favorita paradossalmente proprio dalla decisione delle multinazionali americane di favorire la sua entrata nel WTO), ha deciso nel 2009 di valutare di “mettersi in proprio”. La Russia, che fino al 2014 pensava ad un’ alleanza strategica con l’Europa  – specie attraverso la Germania, che godeva di uno straordinario vantaggio da questa alleanza ma che lavorava anche per un’ Europa più indipendente dagli Usa -, ha capito che gli Americani avrebbero impedito questa alleanza e si è rivolta – senza entusiasmo – alla Cina, offrendo forza militare e materie prime. La Cina ha così sostituito la finanza occidentale (il nuovo oro del XXI secolo degli Americani) con il suo nuovo “oro”: le materie prime.

Questa è la vera partita in corso a livello mondiale, da cui l’Europa può subire un contraccolpo enorme se, come prevedibile, non sarà possibile sconfiggere la Russia militarmente e si dovrà arrivare, prima o poi, ad un cessate il fuoco. La “pace” successiva tra Russia e Ucraina sarà appoggiata sopra l’edificio di un nuovo equilibrio mondiale, che vedrà un declino del dollaro come moneta di riserva internazionale e un’ascesa dello yuan. L’Europa, che avrebbe potuto beneficiare di questi nuovi equilibri mondiali, sarà invece penalizzata dal suo essersi accodata agli Usa.

Ciò spiega perché il rublo sia rimasto stabile sul dollaro (76 rubli per 1 dollaro) come era prima dell’esplosione del conflitto Russia-Ucraina, dopo essersi svalutato violentemente nei primi mesi successivi all’ invasione. I cambi monetari sono influenzati da molti fattori e sono un buon indicatore del futuro atteso.

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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