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La rabbia degli uomini. Mentre anche a gennaio 2024 crescono i femminicidi

I femminicidi stanno inesorabilmente aumentando, si è passati da una uccisione ogni tre giorni del 2023 a una ogni due dell’inizio del 2024. Auguriamoci che gennaio 2024 sia stato un mese particolarmente sfortunato e che le statistiche dell’intero anno possano attestare la presenza di un primo mese outlier.

Il 2 gennaio Rosa D’Ascenzo è stata portata morta dal marito all’ospedale di Civita Castellana in provincia di Roma adducendo un “incidente domestico” (come riferisce la polizia giudiziaria). Il 5 gennaio a Naro Delia Zarniscu e Maria Rus sono state massacrate nelle rispettive case, l’indagato è un uomo ventiquattrenne che avrebbe agito a seguito di un rifiuto sessuale. L’8 gennaio Teresa Sartori è stata uccisa in casa a coltellate dal figlio che poi si è tolto la vita. Il 10 gennaio Elisa Scavone è morta in provincia di Torino accoltellata dal marito che ha confessato l’omicidio. L’11 gennaio, Ester Palmieri è stata uccisa a Valfloriana dall’ex compagno che non accettava la separazione e che poi si è suicidato. E così via, un massacro un giorno sì e uno no.

Ho già scritto più volte su questo tema e ho l’impressione che continuare a farlo serva davvero a poco, persisto comunque data la gravità di questo dramma che colpisce tutti noi per la sua cruenza e aggressività.

Da dove arriva la rabbia

Non è vero che tutti gli uomini che commettono femminicidio hanno un disturbo mentale e nemmeno che tutti gli uomini che hanno una cultura o un’educazione basata sul maschilismo commetteranno un femminicidio. Spesso i femminicidi sono compiuti da individui che provano un profondo sentimento di frustrazione e rabbia.

Come spiegano gli psicologi, se la rabbia è molto intensa, prolungata, di difficile gestione, è necessario approfondirla, capire cosa c’è sotto perché è da qui che iniziano i potenziali drammi. La rabbia è un’emozione di base, universale, che appartiene all’esperienza umana a prescindere dall’età, dalla cultura e dall’etnia di appartenenza. La sua funzione adattiva risiede nell’istinto di difendersi per sopravvivere nell’ambiente in cui ci si trova e nel rispondere a un’ingiustizia, un torto subito o percepito, alla percezione della violazione dei propri diritti.

Ma cosa è esattamente la rabbia? Di Giuseppe e Tafrate (2007) l’hanno definita nel seguente modo: “Uno stato emotivo sperimentato a livello soggettivo con un’elevata attivazione del sistema simpatico autonomo. È inizialmente suscitata dalla percezione di una minaccia, anche se può persistere dopo che la minaccia è passata. La rabbia è associata a cognizioni e pensieri di attribuzione e di valutazione che sottolineano le malefatte degli altri e motivano una risposta di antagonismo per contrastare, scacciare, ritorcere contro, o attaccare la fonte della minaccia percepita. La rabbia è comunicata attraverso la mimica facciale o posturale o inflessioni vocali, verbalizzazioni avverse e comportamento aggressivo”.

Guarire dalla rabbia? 

Spesso si confonde la rabbia con l’aggressività, ma questi due atteggiamenti non coincidono sempre. La rabbia è uno stato emotivo, mentre l’aggressione si riferisce al comportamento messo in atto. Mentre la rabbia è un sentimento di malessere, l’aggressività coincide con l’attacco verbale e fisico.  L’emozione di rabbia non necessariamente sfocia in azioni violente e aggressive, così come l’aggressione può verificarsi in assenza di rabbia. Una persona che si arrabbia è sempre emozionata, mentre quella aggressiva può anche essere in uno stato non-emotivo o di apatia (Fein, 1993).

Quindi il vero problema non è tanto la presenza di uno stato di malessere che porta alla rabbia ma il suo passaggio da emozione ad azione, da sentimento ad aggressione fisica.

Allora la strada per la guarigione di un uomo aggressivo è quella di dargli/ridargli gli strumenti per riconoscere lo stato di rabbia e fermarlo, cioè non trasformarlo in aggressione. Un uomo lasciato è spesso un uomo arrabbiato (sentimento di difesa), deve imparare a gestire la sua rabbia per non farla diventare altro, per non trasformarla in violenza agita. Facile a dirsi, difficilissimo a farsi.

Il contesto sociale intensifica i sentimenti di rabbia

Esiste inoltre una componente sociale che intensifica i sentimenti di rabbia e le sue eventuali conseguenze aggressive. Permangono nel mondo occidentale molte forme di degrado, una di queste è la mancanza di un reddito familiare sufficiente per vivere dignitosamente. Se è vero che ciò che è “sufficiente” ha una definizione soggettiva culturalmente condizionata, è anche vero che gli indici del paniere della spesa, piuttosto che l’ISEE, danno indicazioni tangibili e trasversali in questo senso.

Punterei quindi l’attenzione sul tema del reddito familiare.  Non solo crea problemi la mancanza di reddito per le donne, una donna senza reddito non è indipendente e quindi non può, per una questione di pura sopravvivenza, interrompere dei rapporti semplicemente perché li ritiene prevaricanti, ma può diventare un grave problema anche la mancanza di reddito per gli uomini.
La necessità di avere un lavoro e di contribuire in maniera decisiva al sostentamento familiare è un vettore di autostima maschile attualmente molto diffuso. Se manca la contribuzione alla costruzione del reddito, si genera un profondo stato di malessere, un attentato all’identità maschile che può portare a una perdita di ruolo che scatena aggressività. Inoltre, la mancanza di reddito causa di suo delle convivenze forzate e una impossibilità di allontanamento e “ricostruzione di vita” che potrebbe salvare dalla catastrofe.

La prossimità abitativa forzata è un problema non secondario in caso di malessere di coppia.
Un secondo tema è il circuito sociale nel quale si vive. Esistono contesti più “aperti” e contesti più repressivi in cui se un uomo perde il lavoro è il fannullone di turno, uno scansafatiche che non merita nulla. Questa pressione che viene “da fuori”, amplifica a dismisura il malessere aumentando la propensione all’aggressività. Stessa cosa succede quando si genera una sovrapposizione di ruoli che mina le gerarchie interiorizzate.
La donna sindaco, primario d’ospedale e direttore d’orchestra distrugge una identità costruita osservando una madre sottomessa alle logiche maschiliste e pone le persone davanti a loro stesse e alla necessità di ridefinire uno status e un ruolo.

Un femminicida di successo

M ricordo che vent’anni fa, parlando con un criminologo, gli chiesi se si potesse organizzare un convegno sul tema dei femminicidi e lui mi rispose che preferiva “tacere”. Mi sono chiesta per un po’ di tempo perché mi avesse risposto a quel modo e poi ho capito che continuare a parlare dei femminicidi (in maniera estesa, interpretativa e piena di giudizi) può facilitare il passaggio dalla rabbia all’aggressione in quei soggetti già sul punto di fare del male a qualcuno.

Non solo, la moltiplicazione delle informazioni e la loro visibilità fanno sì che i possibili aggressori trovino nella diffusione mediatica un forte agente di notorietà distorta. Per un attimo il loro senso di nullità e di insoddisfazione viene placato dall’assurgere agli onori della cronaca, dal poter diventare gli attori di un film dell’orrore che li consacra come i protagonisti assoluti, coloro che meritano il premio dell’attore più bravo.
Tutto ciò annienta per un attimo l’indifferenza e la nullità delle quali la rabbia si nutre e l’aggressività si scatena.

Il dramma di chi resta

Un altro tema importante che riguarda il dramma dei femminicidi è quello di chi resta. I figli delle donne uccise sono spesso bambini/e piccoli che si trovano senza madre, nelle condizioni di dover superare il dramma della perdita e anche rielaborare un lutto alla cui genesi hanno assistito in prima persona. C’è chi ricorda cosa è successo e chi prima o poi riuscirà a ricordarlo con molta sofferenza e con molto aiuto.  Non esistono in Italia elenchi precisi di queste vittime.  Secondo Openpolis [Vedi qui] negli ultimi dieci anni sono oltre duecento all’anno, per un totale di circa duemila, i minori che hanno perso un genitore, spesso assistendo alla sua uccisione.

L’Italia è uno dei pochi Paesi che ha una legge ad hoc (Legge 4/2018) che oltre ad aggravare le pene per il femminicida, prevede l’accesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato per i figli della vittima, rafforza il loro diritto al risarcimento del danno stabilendo la possibilità di sequestro conservativo dei beni dell’indagato e una provvisionale pari ad almeno il 50% del presumibile danno. Ma tutto ciò non sempre serve a causa della pesantezza delle pratiche burocratiche che diventano troppo gravose per famiglie già martoriate e spesso in una situazione di solitudine sociale.

C’è inoltre un problema della formazione degli addetti ai lavori (magistrati, forze di polizia, assistenti sociali) che devono investire ulteriormente e in maniera più sistematica sulle competenze che garantiscono la possibilità di intervenire in situazioni di questo tipo. La tutela dei minori è un dovere di tutti, a maggior ragione di chi incarna nel suo ruolo professionale tale responsabilità. Anche la politica ha responsabilità in questo senso, in quanto delegata da noi a occuparsi del benessere dei cittadini. Se i cittadini sono bambini la responsabilità si amplifica e diventa esiziale. Solo un’infanzia tutelata ci darà sufficienti motivi per credere che il futuro sarà migliore di questo pesante presente.

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Catina Balotta

Sociologa e valutatrice indipendente. Si occupa di politiche di welfare con una particolare attenzione al tema delle Pari Opportunità. Ha lavorato per alcuni dei più importanti enti pubblici italiani.

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