La pedagogia violenta della destra italiana
di Anna D’Auria
articolo originale sulla rivista Gli Asini del 12 ottobre 2024
(Questo articolo è una rielaborazione della relazione presentata alla plenaria di apertura dei Cantieri per la formazione MCE 8° edizione “Gioco e potere”, formazione residenziale tenutasi a Bologna dal 2 al 6 luglio 2024)
La scuola è uno dei luoghi privilegiati del sistema politico per condizionare i valori, gli stili di vita, i linguaggi delle masse e produrre consenso verso la propria ideologia per mantenere il potere politico.
Antonio Gramsci ha ben analizzato il modo attraverso il quale la politica consolida i rapporti di potere. Nel paragrafo del quaderno 19 in cui affrontava il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia, scriveva: «Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare a essere anche “dirigente”».
Il sistema politico deve cioè potersi garantire la direzione intellettuale e morale del Paese; formare il popolo (soprattutto il popolo della scuola: insegnanti e dirigenti) a un determinato senso comune in linea con la propria concezione dell’uomo e della donna, della società e del mondo.
“Deve cioè essere capace – scrive Massimo Baldacci – di creare consenso entro il sistema educativo circa la prestazione che richiede, ossia persuadere gli attori della bontà e legittimità etica e culturale di tale prestazione modificando così la loro cultura dell’educazione e il loro senso comune didattico”.
Il grande attivismo nelle politiche scolastiche di questo governo ha questo scopo: realizzare un’egemonia etico-politico-culturale sul sistema educativo. Questo spiega i numerosi interventi legislativi delle destre al governo compiuti o annunciati dall’inizio di questa XIX legislatura che, in maniera chirurgica, stanno intervenendo sull’impianto già estremamente fragile della scuola italiana di ispirazione democratica.
A dicembre 2022 la legge di bilancio n.197, rispondendo a una logica di risparmio, ha previsto per i prossimi tre anni la riduzione delle autonomie scolastiche, i cui effetti negativi ricadranno soprattutto nelle aree interne del Paese, in quelle con un’alta percentuale di dispersione, abbandono e povertà educative.
Dall’a.s. 2024/2025, a fronte di istituti con un elevato numero di classi, divisi in più plessi, sparsi tra più comuni e municipalità, il lavoro di insegnanti e dirigenti sarà ancora più burocratizzato, stressante e i collegi dei docenti troveranno ancora più difficoltà a farsi “comunità educante” in dialogo con gli studenti, le famiglie e il territorio.
Eppure, questo governo continua a parlare di superamento dei divari territoriali. Nello stesso mese è stato riformato il sistema di orientamento che ha previsto l’introduzione di 30 ore obbligatorie affidate a un tutor e a una piattaforma digitale per riconoscere talenti, attitudini, meriti.
Ma, per essere realmente al servizio del progetto di vita di ognuno, l’orientamento non può che essere un “orientamento didattico”, coinvolgere tutti gli insegnanti e, soprattutto, investire tutto il percorso scolastico. Così concepito e istituzionalizzato risponde al solo scopo di allineare la scuola alla domanda del mercato del lavoro.
È la stessa direzione politica che a dicembre 2023, un anno dopo, ha determinato sia l’approvazione del disegno di legge “Disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy” in cui l’articolo 18 istituisce il Liceo del made in Italy (prevedendo che il mondo delle imprese entri nella progettazione dell’offerta formativa), sia l’approvazione del progetto nazionale di sperimentazione relativo all’istituzione della filiera formativa tecnologico-professionale di soli 4 anni.
Si tende alla canalizzazione precoce dei soggetti, infatti la riduzione del tempo scuola insiste sulla funzione di riproduzione sociale della scuola opposta a quella di scuola emancipatrice, impegnata a rimuovere gli ostacoli e per la quale tutti gli individui devono poter essere formati come “potenziali dirigenti”.
Un progetto quest’ultimo che richiederebbe una scuola unica e un obbligo esteso ai 18 anni per assicurare a ognuno un patrimonio culturale di base, grazie alla continuità dei curricoli e degli approcci. Un progetto in cui la scuola secondaria non è finalizzata alla preparazione al lavoro ma concepita come un percorso per liberare le intelligenze, formare a stili di vita e valori democratici, superare le disuguaglianze e darsi il tempo necessario per garantire l’acquisizione delle competenze per una piena cittadinanza.
A marzo 2024 il Decreto Legge n°19 ha previsto che i risultati Invalsi siano inseriti nel curricolo dello/a studente/essa. Una disposizione che di fatto tende a svilire il valore legale del titolo di studio e delegittima la valutazione degli insegnanti.
Quegli stessi insegnanti in merito ai quali il Disegno di Legge S.924-bis sulla revisione della disciplina in materia di valutazione – già approvato in Senato e in discussione alla Camera – prevede l’inasprimento delle pene per chi offende i lavoratori della scuola mentre sancisce la revisione del voto in condotta portandolo a incidere pesantemente sulla valutazione complessiva, determinando bocciature e il non riconoscimento dei crediti scolastici.
Una logica regressiva del punire per adattare, trascurando il fatto che le abilità sociali, le capacità per assumere comportamenti adeguati e di rispetto nella relazione con gli altri, sono competenze che anche la scuola è chiamata a sviluppare.
Ma, soprattutto, trascurando il fatto che la possibilità di educare alla convivenza ha a che fare con la concreta opportunità per i soggetti in crescita di vivere e sperimentarsi in contesti istituzionali “sicuri” sul piano emozionale, affettivo, relazionale, culturale. Contesti in cui ognuno può veder garantiti, per sé e per gli altri, l’ascolto, il riconoscimento, il rispetto e veder realizzata giustizia sociale.
Quando questo non accade (si pensi alla lezione frontale per tutti, alla pratica dei compiti a casa, alla spesa per i libri di testo, per i viaggi scolastici, alle nuove forme di segregazione scolastica, al non riconoscimento della cittadinanza e ad altre forme di esclusione e discriminazione…) sono proprio i più fragili a uscirne sfiduciati, confermati in un destino di esclusione che genera a volte rabbia e risentimento. Allora a nulla serve istituire la giornata nazionale contro la violenza nei confronti del personale scolastico per recuperare l’autorevolezza degli insegnanti.
Serve invece qualificare la formazione iniziale e in servizio, i salari, l’organizzazione del lavoro; aumentare le risorse, qualificare il welfare studentesco, dare stabilità e valore all’autonomia scolastica. Soprattutto, serve liberare la scuola dalla presa in ostaggio della burocrazia e delle continue riforme incompiute, come si verificherà ancora una volta con il ritorno ai giudizi sintetici nella primaria, dopo soli tre anni dall’O.M. 172/2020, proposta che smantellerà tutti i presupposti pedagogici e docimologici dell’ordinanza e il percorso di cambiamento nella cultura valutativa già avviato.
Tanto meno si recupera l’autorevolezza di insegnanti e scuola con provvedimenti come il decreto legge 71 approvato a maggio 2024, che ha previsto il mantenimento del docente di sostegno per l’anno successivo su richiesta delle famiglie. Una deriva pericolosissima che assegna a soggetti esterni, i genitori, il potere della valutazione dei docenti e del loro destino professionale. Soprattutto, un provvedimento che mentre rafforza un’idea di scuola come servizio alla persona, sconfessa il ruolo dell’insegnante di sostegno come insegnante della classe, relegandolo nella sola relazione con la persona disabile.
Ma non c’è mai fine al peggio: proprio in chiusura dell’anno scolastico, il 19 giugno 2024, è stato approvato il decreto Calderoli che prevede, per le regioni che ne faranno richiesta, la regionalizzazione dell’istruzione: dall’allocazione delle risorse per il funzionamento, alla gestione del personale con i contratti di lavoro, al rischio di curricoli regionali. Allo Stato resteranno solo le linee generali dell’ordinamento scolastico.
Qualora non avessero successo i referendum abrogativi, nei prossimi anni il diritto allo studio sarà declinato per ambiti territoriali, aumenteranno i divari, le differenze tra il nord e il sud del Paese e tramonterà il progetto costituzionale di una scuola della e per la Repubblica: aperta a tutti, pluralista e garante dell’unità e della coesione sociale del Paese.
A questi interventi legislativi si aggiungono quelli che il governo sta portando a compimento. Tra questi il DDL n. 845 sull’introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive. Un paradosso quello dello sviluppo delle competenze non cognitive, come se i processi di apprendimento possano essere separabili dalle competenze di vita, dall’affettività, partecipazione, apertura al dialogo e agli altri. Competenze che invece vanno sollecitate e integrate in ogni azione didattica perché l’apprendimento è un processo globale, che investe tutta la persona e il suo stare al mondo.
Ma la tensione al separare più che a cogliere la complessità dell’insegnamento e dell’apprendimento è un tratto distintivo delle politiche scolastiche del governo. Anche il disegno di legge n° 180, in corso di esame in commissione cultura, opera ulteriori distinguo nella popolazione scolastica introducendo una nuova categoria di studenti e studentesse, quelli con alto potenziale cognitivo e di conseguenza nuovi referenti, nuove specializzazioni.
La scuola non ha bisogno di ulteriori etichette diagnostiche che si aggiungono alle numerose già esistenti, ma di più pedagogia, di più professionalità, di più tempo scuola. Ha bisogno, per rispondere ai bisogni formativi di ognuno, di superare il deficit di democrazia che c’è nella didattica depositaria, nella lezione simultanea uguale per tutti, nel tradurre i bisogni formativi individuali in bisogni educativi speciali, in una valutazione dell’apprendimento che diventa luogo in cui le differenze di ingresso si trasformano in disuguaglianze scolastiche.
In ultimo, oltre alla legge annuale di semplificazione, che dà al governo una delega in bianco per il riordino delle norme sulla scuola, tra cui il raddoppio dei membri di nomina ministeriale del Consiglio superiore di pubblica istruzione, che indebolirà la composizione democratica di questo organo collegiale, è stata annunciata la revisione delle Indicazioni nazionali.
Il Ministro ha istituito una commissione coordinata dalla docente universitaria Loredana Perla. La stessa che con Ernesto Galli Della Loggia ha scritto Insegnare l’Italia, un libretto in cui gli autori affermano che ad aver provocato un vulnus psicopedagogico nelle giovani generazioni sia stata la rinuncia all’asse formativo dell’identità italiana. Una messa in discussione chiara, dirompente della visione universalistica, globale e multiculturale delle Indicazioni Nazionali, nelle quali, si legge, “l’elaborazione dei saperi necessari per comprendere l’attuale condizione dell’uomo planetario, definita dalle molteplici interdipendenze fra locale e globale, è dunque la premessa indispensabile per l’esercizio consapevole di una cittadinanza nazionale, europea e planetaria.”
Tutto l’impianto delle Indicazioni Nazionali si basa sul principio dell’incontro, dell’interazione e del dialogo: tra soggetti, tra differenze, tra il dentro e il fuori della scuola, tra le discipline facendo proprio il paradigma della complessità e una logica che include, interconnette, coglie interdipendenze.
In un tempo difficile, di violenze e guerra, di povertà e discriminazioni, di crisi ambientali, di sfide che richiedono soluzioni globali, dove l’emergenza da affrontare è educare alla cooperazione e solidarietà tra individui, popoli, paesi, le destre al governo ci propongono la chiusura dei confini; di fronte all’esigenza di coniugare il diritto formale all’uguaglianza con il diritto a veder riconosciuta la differenza, parlano di classi separate; in contesti di vita sempre più multiculturali e multilinguistici in cui si assiste a episodi di etnocentrismo e razzismo nei giovani, per far fronte ai quali servirebbe un approccio educativo intenzionale per un’educazione all’interculturalità e alla convivenza, i politici al governo rivendicano l’identità italiana, il “prima gli italiani” e l’assimilazionismo.
Interculturalità, identità planetaria, dialogo scientifico, nuovo umanesimo sono temi che attraversano tutto il testo delle Indicazioni Nazionali e mal si coniugano con il pensiero reazionario delle destre che è l’espressione di una logica disgiuntiva, in cui a prevalere è il binomio amico/nemico – noi e gli altri, lo scontro e la prevaricazione, le gerarchie e le disuguaglianze.
Distinzioni che nutrono etnocentrismi, razzismi, ingiustizie sociali e guerre. Le destre di questo paese intendono riscrivere la cultura della scuola proponendo una visione autoritaria, regressiva, antidemocratica e pedagogicamente violenta. Una visione questa, che determinerà una fuga dal futuro, perché incapace di dare risposte alle domande e alle vere questioni educative, culturali, politiche del nostro tempo.
Per gli educatori democratici è tempo di uscire dall’innocenza, per assumere un più forte protagonismo attraverso un uso politico consapevole e determinato della professionalità di insegnante, tra i colleghi, a scuola, con le famiglie, nel territorio. È tempo di occupare decisamente gli spazi del possibile, di assumere una posizione apertamente critica e di dissidenza verso quanto imposto dal sistema politico, rivendicando gli spazi di autonomia lasciati dalla norma per affermare l’impegno per un’educazione volta allo sviluppo umano, senza la quale non c’è democrazia.
Come ha scritto Massimo Baldacci ne La scuola al bivio. Mercato o democrazia (FrancoAngeli, 2019): “agli insegnanti rimane sempre un certo “gioco” entro i quadri stabiliti da sistema politico e dall’establishment pedagogico ad esso organico”.
Per gli insegnanti democratici è fondamentale l’impegno per liberare l’apprendimento da formule di addestramento che corrompono le intelligenze, il pensiero critico e le creatività. Lavorare alla costruzione di conoscenza come processo collettivo di ricerca e alla classe cooperativa, con la sua organizzazione materiale e i suoi dispositivi istituzionali, per educare alla democrazia, a un’etica pubblica. Sono semi per la crescita di uomini e donne migliori, capaci di sottrarsi alle manipolazioni e al pensiero unico di cui i populismi si servono.
Ma non basta. Oggi è necessario più che mai fare insieme con le famiglie, gli amministratori locali, un terzo settore sano, non mercanteggiante, per far cadere il diaframma scuola-società. Serve un impegno individuale e collettivo per s-catenare nuove forme di partecipazione, di rappresentanza, di conduzione delle politiche pubbliche, affinché i territori possano rigenerarsi.
Curare il rapporto scuola territorio è una formula indispensabile non solo per riorientare la cultura complessiva del Paese, agire sul senso comune, sulle idee di società, individuo, scuola. Ma è anche una formula politico-pedagogica per riaffermare il valore della Scuola come bene comune, istituzione della Repubblica, in una fase in cui il progetto di scuola unitaria, organo di democrazia è fortemente minacciato.
Come la didattica, anche il dialogo con il territorio va quindi interpretato come un atto politico per attuare una lotta contro-egemonica, nella direzione, indicata sempre da Baldacci, del “circolo virtuoso tra democrazia ed educazione, sapendo che: senza l’una non può darsi pienamente l’altra e viceversa. Sono facce della stessa medaglia”.
Contrapporci al progetto politico delle destre è per noi insegnanti oggi una responsabilità storica, come lo è stata quella assunta dai pionieri MCE che si impegnarono, a partire dalla scuola, alla ricostruzione morale e civile del Paese uscito dal nazi-fascismo.
In questa fase serve più che mai una pedagogia della Resistenza. Fare di ogni plesso, di ogni scuola, di ogni quartiere un’officina sociale per una pedagogia della resistenza è l’impegno cooperativo che deve unirci con tutti e tutte coloro che operano per il futuro democratico della Scuola e del Paese.
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