La libertà del dolce far niente: quanta vita lontano dai pacchetti-vacanza

di Gerardo Iandoli
articolo originale su Strisciarossa del 7 agosto 2024

Basti pensare alla merce più venduta in questo periodo estivo: la vacanza. Sono innumerevoli le agenzie che vendono vere e proprie tabelle di marcia di momenti di libertà, per poter sfruttare al meglio il tempo delle ferie, senza perdere il ben che minimo granello di secondo. E il momento di pausa dal lavoro viene trasformato nell’ennesimo spazio-tempo da dover gestire, organizzare, progettare. Il demone dell’efficienza si insinua ovunque e la nostra libertà più grande, cioè la possibilità di scialacquare il proprio tempo, diventa l’ennesima fonte di sensi di colpa, cioè ansie da inettitudine.

Ebbene sì, è il perdere tempo la nostra libertà più grande: il non dover fare nulla, né dimostrare nulla, né doversi preoccupare della reazione altrui. Un mero godere del piacere di esistere, in vista della prossima scelta in cui attivarsi, non per seguire uno schema, ma per assecondare ancora di più questo godere di sé. Di fatto, a essere venduto in questi pacchetti vacanza è un senso di sicurezza: la possibilità di non scegliere, e quindi di non pensare, per poter comodamente seguire un percorso già tracciato, dove basta seguire i binari e lasciarsi andare al flusso.

C’è una poesia di Cinzia Coppola, tratta dal suo Rêveries, pubblicato nel 2023 da Delta 3, che nel suo linguaggio asciutto ed estremamente chiaro mostra la ferocia che soggiace al modo di pensare fin qui trattato:

Mattino

Cielo del mattino,
il cristallino che hai oggi
mi contagia
la voglia di ridere
fino a sentire gli occhi e il cuore funzionare.
Sono brevi attimi,
forse è la luce del sole
o un progetto a cui pensare.
Forse solo l’auto da mettere in moto
per andare a lavorare.

La prima immagine è stereotipata: quel senso di benessere che si prova quando si viene colti dal bel tempo appena dopo essersi svegliati. Tuttavia, sono presenti delle parole che incrinano l’idillio e virano l’atmosfera verso sentori più inquietanti: prima di tutto, l’energia viene trasmessa per “contagio”, quasi come se non fosse un flusso vitale che va dal cielo alla terra, ma un miasma pestifero che si appropria della voce dell’io poetico. E quest’ultimo si presenta come una macchina, che inizia a “funzionare”. E, di fatto, questo fanno le immagini stereotipate: attivano la nostra mente in maniera meccanica, perché sono così codificate da eliminare ogni mistero e quindi disattivare ogni possibilità interpretativa.

Nella seconda parte, in un crescendo ironicamente tragico, l’io poetico viene sottratto al proprio momento vitalistico e richiamato all’ordine, gettato nella propria dimensione del dovere.
Si parte dal sole, figura divina e simbolo del calore che dà la vita, per arrivare subito alla “progettazione”, che rinvia a una divinità più moderna: il management. E ritorna nel finale l’elemento meccanico, in cui si vede l’io poetico specchiarsi in questa auto messa in moto: il cielo terso non è lo scenario dell’inizio di un’avventura, ma l’immagine dell’ennesimo spreco di vitalità in favore del lavoro, dell’energia finalizzata alla produzione.

L’elemento interessante di questa poesia è che il lavoro non viene descritto come momento che distrugge l’idillio, ma anzi come qualcosa che può essere coerente con l’idillio stesso: il contagio è avvenuto, e quindi anche il lavoro può entrare a far parte della galassia di senso che ruota intorno al simbolo del sole mattutino. Il lavoro come bel tempo, come ben-essere, come estate e come vacanza. Un paradosso?

Cinzia CoppolaRêveriesGrottaminarda, Delta 3, 2023.