La grande rivolta francese
In piazza non solo contro le pensioni di Macron, ma per la democrazia e contro la diseguaglianze
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La grande rivolta francese : in piazza non solo contro le pensioni di Macron, ma per la democrazia e contro le diseguaglianze
Nei giorni passati, Il Manifesto, parlando delle vicende francesi, ha azzeccato uno dei titoli per la cui efficacia è noto, scrivendo “Il marzo francese”, con una fin troppo evidente allusione al maggio francese del 1968. Ora, al di là delle differenze tra questi due scenari, non c’è dubbio che essi sono accomunati dal fatto di essere due vere e proprie rivolte sociali e che in Francia sta succedendo qualcosa di effettivamente inedito e non previsto. E che, proprio per questo, vale la pena scandagliarlo un po’ più a fondo.
Intanto, non si può ricondurre il tutto semplicemente all’opposizione alla “riforma” delle pensioni avanzata da Macron.
Certamente è vero che essa è tutt’altro che morbida e indolore, come molti commentatori non bene informati hanno sostenuto, visto che già oggi il pensionamento a 62 anni – che la “riforma” innalza a 64 anni – subisce una penalizzazione economica di un certo rilievo rispetto alla pensione “piena” che si ottiene a 65 anni, il che rende il sistema pensionistico francese previsto non molto lontano dal nostro post-Fornero.
Sarebbe però poco illuminante pensare che appunto la rivolta sociale in corso – 10 scioperi generali negli ultimi mesi, più di 100 tra Università e scuole superiori occupate, massiccia partecipazione alle manifestazioni diffuse in tutti i centri del Paese- tragga origine unicamente dall’opposizione alla ‘riforma’ delle pensioni, peraltro osteggiata, secondo i sondaggi, da più di 7 francesi su 10. In realtà, a me pare che emergano oggi in Francia due grandi temi generali: una questione sociale e una questione democratica, che comunque attraversano, in forme diverse, tutto l’Occidente capitalistico.
La questione sociale si può ben sintetizzare prendendo a prestito uno slogan apparso a più riprese nelle piazze francesi, dove si è gridato “ giovani disoccupati e vecchi sfruttati”.
Più precisamente, a fronte dell’impoverimento dei ceti medio-bassi, del prolungamento dell’attività lavorativa per le fasce di età più avanzate anche per sopperire all’assottigliamento del sistema di welfare che si registra in tutt’Europa e alla condizione di precarietà che riguarda la gran parte delle giovani generazioni, si ripropone uno schema di lotta del basso verso l’alto, riemerge un conflitto che ha un carattere di classe, sia pure dentro una società più fluida e frammentata rispetto alle tradizionali e precedenti stratificazioni sociali.
Si smonta, così, anche una delle più nefaste e ideologiche narrazioni avanzate dai teorici neoliberisti, compresi quelli della “new left” da Blair a Schroeder, passando per la sinistra moderata italiana: quella che, dagli anni ‘90 del secolo scorso ad oggi, aveva dipinto il conflitto, nelle cosiddette società post-industriali, in termini orizzontali e intergenerazionali, di contrapposizione tra anziani “garantiti” e giovani “deprivati”, con i primi responsabili del peggioramento delle condizioni di vita e reddito dei secondi.
Al venir meno di questa lettura interessata, penso abbiano contribuito i processi reali che si sono innestati in questi ultimi anni, dalla crisi pandemica fino all’acuirsi della crisi economica e sociale, che hanno fortemente innalzato le disuguaglianze.
Forse non sono ancora stati ben evidenziati, ma probabilmente essi sono entrati nella percezione delle persone e della società: mi riferisco, per esempio, come ben spiegato in un recente articolo di Vincenzo Comito, al fatto che in Francia 38 aziende tra le 40 che compongono l’indice della principale Borsa francese hanno realizzato, nel 2022, un utile complessivo di 152 miliardi di € (l’11% in più dell’anno precedente) e annunciano una ricchissima distribuzione di dividendi, superiore del 29% a quella del 2021 o che le prime 500 famiglie francesi hanno visto il loro patrimonio passare negli ultimi 10 anni da 200 a 1000 miliardi di €.
Oppure, ancora, allargando lo sguardo, basta vedere quel che hanno segnalato in un importante studio due ricercatori della Massachusetts Amherst University sulle dinamiche economiche negli Stati Uniti, dal quale si ricava che l’inflazione che si registra da un anno in qua non proviene tanto dalla situazione del mercato del lavoro in America e nemmeno dai rincari energetici in Europa, quanto dalla ricostituzione dei margini di profitto operati dalle aziende. E’ la cosiddetta ‘inflazione da profitti’, profitti che negli Stati Uniti non sono mai stati così alti dal 1947.
E’ poi emersa con forza una rilevante questione democratica. Su questo punto si potrebbe riprendere facilmente il tema del carattere “elitista” della presidenza Macron che non solo ha saltato il confronto con le parti sociali, ma ha voluto presentarsi come ‘un uomo solo al comando‘, detentore della verità e interprete assoluto del bene dei francesi. Mettendo tra parentesi, tra l’altro, il fatto che il consenso avuto dallo stesso Macron alle elezioni presidenziali di circa un anno fa era più il prodotto di una scelta contro la Destra di Le Pen piuttosto che l’espressione di una condivisione delle sue politiche.
Un atteggiamento in linea con il filone di pensiero neoliberista cui ho fatto riferimento prima, per cui la figura del leader decisionista è coessenziale all’idea di governo di una società frammentata, solcata da conflitti tra le diverse categorie sociali e tra le generazioni. Fino al punto, che ha indispettito non poco la gran parte dei francesi, di ricorrere all’art. 49.3 della Costituzione, quello che consente di arrivare ad una sorta di voto di fiducia sul governo senza doversi esprimere sull’argomento in discussione nelle aule parlamentari e che ha messo ancora più in chiaro la supremazia pressoché assoluta del ruolo dell’Esecutivo, in questo caso del presidenzialismo, rispetto al potere legislativo. E anche di una possibilità di intervento dal basso sul fatto di incidere sulle scelte legislative assai scarso, se si pensa, ad esempio, che il ricorso al referendum abrogativo in Francia, definito come referendum di iniziativa condivisa, è subordinato alla promozione congiunta di 1/5 dei parlamentari e al 10% degli elettori, ossia circa 4,5 milioni degli stessi.
Ciò che succede in Francia ha senza dubbio diverse specificità, ma parla a tutta l’Europa e anche al nostro Paese.
intanto, sugli assetti istituzionali e sul loro rapporto con la qualità della democrazia e la mobilitazione popolare. Nel momento in cui si torna a parlare di presidenzialismo come una delle riforme istituzionali fondamentali da mettere in campo anche in Italia (ma il ragionamento può valere anche per l’idea del premierato forte), non si può non vedere come esso, in realtà, incarni un’idea di ulteriore allontanamento della sfera decisionale dai cittadini, di esautoramento del ruolo del Parlamento, alla fine di un populismo autoritario per cui alle persone non rimane altro se non l’adesione acritica alle scelte del leader o la rivolta sociale.
E’ da qui che occorre muovere una critica radicale a quell’ipotesi e alle sue subordinate, opponendo ad essa una vera inversione di tendenza rispetto ai processi andati avanti negli ultimi anni, rilanciando sul serio il ruolo centrale del Parlamento rispetto al potere esecutivo e accrescendo quello degli istituti di democrazia partecipativa.
Poi, occorre ragionare sul perché il nostro Paese, da un bel po’ di tempo in qua, non è attraversato da conflitti sociali significativi. Da questo punto di vista, non c’è solo la Francia a percorrere una strada diversa, ma anche le forti mobilitazioni sindacali in Inghilterra e in Germania e la grande protesta contro la privatizzazione della sanità in Spagna.
All’ ‘anomalia’ della nostra situazione concorrono certamente molti fattori, dalla riduzione, e per certi versi, autoriduzione del ruolo del sindacato alla frammentazione dei movimenti sociali per i beni comuni, dalla sostanziale inesistenza di una sinistra politica degna di tal nome alla regressione, anche culturale, indotta dalla vittoria di una destra estrema, nazionalista e autoritaria.
Rimane la certezza che, per risalire la china, non c’è alternativa alla costruzione e all’irruzione del conflitto sociale che riesca a rimettere al centro l’insopportabile disuguaglianza sociale e la compressione dei diritti e dei beni comuni.
Cover: Sciopero a Parigi, foto da MasterX, sito del master di giornalismo dell’Università Iulm di Milano – su licenza Wikimedia Commons
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Corrado Oddi
Commenti (2)
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Grazie Corrado, davvero un’analisi lucidissima.
Sono molto d’accordo con te Corrado. Credo che in Italia agisca in questo momento anche una fortissima sfiducia nella politica, nel senso di sfiducia nella possibilità d’incidere sulle scelte di chi ci governa e non solo nella sx tradizionale. Dopo il flop dei governi 5stelle e i vari governi pseudo- tecnici imposti da Mattarella, questa sfiducia si è incancrenita e bene lo ha dimostrato la ridottissima affluenza alle urne delle ultime elezioni. Per non parlare del sindacato…che dorme di un sonno (per essere gentili) pluridecennale; e mentre quello dorme, il padronato e il capitalismo finanziario hanno fatto a pezzi il diritto del lavoro, per i giovani e i meno giovani.