La grande neve della Pasqua
È l’ultima neve della stagione,
Neve di primavera, la più abile
A ricucire gli strappi dell’albero secco
Prima che vengano a prenderlo per arderlo.
È la prima neve della tua vita
Poiché, ieri, erano solo chiazze
Di colore, brevi piaceri, timori, tristezze
Inconsistenti, in mancanza di parola.
E vedo che la gioia ha la meglio sulla paura
Nei tuoi occhi, che la sorpresa schiude
Con un gran balzo chiaro: questo grido, questo riso
Che amo, e che trovo ricco di senso.
Perché siamo davvero vicini, e il bambino
È il progenitore di chi un mattino
Lo ha preso tra le mani di adulto sollevandolo
Nell’acconsentire della luce.
(Y. Bonnefoy, Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve, Einaudi, Torino 2001, 211).
Parole fragili e resistenti insieme, ad un tempo solide e fluide, cangianti e ingegnose nelle forme, come sono i cristalli di neve, a formare trine intrecciate di luce, poi un velo nuziale sulla terra, sugli alberi, sulle case, tutto avvolgendo di una veste bianchissima, candida.
Così mi sono sembrate le parole di Yves Bonnefoy, poeta francese, agnostico e tuttavia appassionato dell’assoluto nascosto nelle cose, come cercando quel cielo infinito che si specchia tutto in una pozzanghera e che ama la neve che acconsente alla luce, trasfigurazione del visibile nell’invisibile sino a rendere desiderabile, atteso nel vecchio, l’orizzonte di un mondo nuovo.
Neve che posandosi ricuce gli strappi dell’albero secco della vita perché ricopre e congiunge con il suo manto il tutto e il nulla, il limite con l’infinito, l’indicibile e il suo detto poetico, ciò che sta oltre con ciò che è qui e ora, il grido e il sorriso che amiamo: questi nostri affetti ricchi e insieme esitanti di senso quando sulla terra si prendono per mano aggrappandosi alla luce.
Entrare nella grande neve è per il poeta come entrare in quella foresta grande che è la riserva naturale a Williamstown, in Massachusetts, luogo della sua ispirazione: «Mi fermo, e il suolo sembra aprirsi all’infinito».
Così entrare per un istante nella grande neve è come entrare nell’altro cielo. Scompare per un attimo lunghissimo l’orizzonte tra il dentro e il fuori, il confine tra l’alto e il basso. Il visibile sfuma nell’invisibile e il limite si avvicina all’infinito, tocca il lembo del suo mantello. Di più, si annoda ad esso come un «bisbiglio di fiocchi che si moltiplicano».
Debbo veramente molto ad Hopkins Forest,
La trattengo al mio orizzonte, per quella parte
Che sfuma dal visibile all’invisibile
Nel trasalire di azzurre lontananze.
La ascolto, attraverso i fruscii, e pure talvolta,
D’estate, calpestando le foglie morte
D’anni trascorsi, chiare nella penombra
Di querce troppo fitte tra le pietre,
Mi fermo, e il suolo sembra aprirsi
All’infinito, mentre le foglie vi cadono
Tranquille, o risalgono, senza più alto o basso,
Né fruscio, salvo il leggero
Bisbiglio dei fiocchi che subito
Si moltiplicano, si avvicinano, si annodano
– E rivedo allora tutto l’altro cielo,
Entro per un istante nella grande neve.
(ivi, 207).
L’altra neve
Per l’ “altra neve” «la gioia sopravvive al sogno». La fine si avvicina alla sua origine, l’inizio intravede il suo compimento e «quel che fu senza luce», il tutto e il nulla, viene illuminato: «Sia per te la grande neve il tutto, il nulla,/ Bambino dai primi passi incerti nell’erba,/ Gli occhi ancora pieni dell’origine,/ mani aggrappate solo alla luce… E che l’acqua che scorre nel prato/Ti mostri che la gioia può sopravvivere al sogno/Quando la brezza venuta non si sa da dove già sperde/ I fiori del mandorlo, tuttavia l’altra neve» (ivi, 215).
Attraverso di lei, nei tuoi occhi «vedo che la gioia ha la meglio sulla paura». Intravedo pure la prossimità degli opposti come incontro possibile. Vicini ugualmente l’adulto e il bambino dischiusi dalla stessa sorpresa che esce dal loro sguardo, di chi è preso per mano e sollevato nella luce del mattino, e anche il più piccolo solleva colui che lo ha innalzato.
L’altra neve – la grande neve – segno dell’Alterità senza fine, di un Mare senza sponde, dell’Assoluto trascendente che si fa accondiscendente, e che abbassandosi dentro ogni oscura bassezza si lascia intuire, balbettare, circoscrivere, toccare nella concretezza di una incarnazione, di un incontro. Passando dal primo all’ultimo posto si fa presente in ogni cosa, in ogni frammento minimo del mondo.
La grande neve è segno per me della Pasqua, quel passante di valico sempre aperto nella morte dal Risorto. Così l’ “ultima neve” della Pasqua si scioglie dal gelo mutandosi in acqua sorgiva, vita risorta nella grande Pasqua. Nel suo abbassamento ultimo fin dentro le viscere della terra viene poi innalzata verso la luce risorgendo in essa; non senza aver prima irrigato e fecondato la terra e fatto germogliare le sue sementi: «Hanno posto/ Lo specchio nella terra, sotto la neve,/ Come fosse un seme; come la spiga del cielo/ Che deve marcire a lungo nel fango del mondo» (ivi, 123).
Poesia: prima neve
La parola poetica è come la prima neve, a chiazze, che non riesce a ricoprire i colori della terra, né ha pretesa di definire con le parole l’indicibile: è una follia tra i concetti. Essa scrive in punta di piedi una parola che è fuori dal mondo. E tuttavia per quella fragile e resistente parola, l’indicibile è tradotto dentro il linguaggio del mondo.
Jean-Pierre Jossua, sottolinea che «Yves Bonnefoy opponeva la parola-concetto, lontana dalla cosa e costitutiva della ‘lingua’, alla poesia, “follia nella lingua” per il suo modo di intendere e di cogliere le parole. Invero dice Bonnefoy “le parole essenziali, una volta unite in un ordine interiore dai legami che uniscono in me le cose”, possono cercare l’assoluto: “ed ecco che l’unità del divino vi brilla, è la presenza reale… la presenza dell’Uno del mondo vi traspare, come un bene; è quello che chiamo poesia” (colloquio con Patrick Kéchichian, 1994).
In una simile prospettiva, il termine “trascendenza” designa insieme l’oggetto non formulabile tramite il discorso – il frammento minimo del mondo sensibile – e l’assoluto: “Il cielo/ Infinito/ Ma tutto intero nella pozzanghera breve”» (J. P. Jossua, La letteratura e l’inquietudine dell’assoluto, Diabasis, Reggio Emilia 2005, 71).
Prima neve, stamattina presto. L’ocra, il verde
Si rifugiano sotto gli alberi.
La seconda, verso mezzogiorno. Non resta
Del colore
Che gli aghi dei pini
Che cadono anch’essi a volte più fitti della neve.
Poi, verso sera,
Il flagello della luce s’immobilizza.
Ombre e sogni hanno uno stesso peso.
Un po’ di vento
Scrive in punta di piedi una parola fuori del mondo
(ivi, 167).
Il cuore innamorato a Pasqua
Va’ Maria di Magdala, il cuore trepidante, nella grande neve a cercare l’abito suo di festa, donna vestita di neve, Maria Maddalena, l’ultimo fiocco esitante, l’ultima dei discepoli, e tuttavia, a Pasqua, apostola degli apostoli, colei che annuncia loro il risorto dai morti, colui il cui volto brilla come il sole e le sue vesti sono candide come neve. L’annuncio del vangelo si compie per tutti con il cuore trepidante nella grande neve.
Nevica. Che volevi tu, anima,
Di nascita eterna, che non abbia avuto
Guarda, tu hai qui
Una veste di festa anche per la morte.
Un abito come nell’adolescenza,
Di quelli che uno prende con cura in mano
Poiché la stoffa è trasparente e resta
Tra le dita che la svelano alla luce.
Si sa che è fragile come l’amore.
Ma corolle e foglie vi sono ricamate
E già la musica si sente
Nella stanza vicina, illuminata.
Un misterioso ardore ti prende la mano.
E vai, il cuore trepidante, nella grande neve
(L’abito, ivi, 191)
Noli me tangere
Il “No, non toccarmi” pronunciato dal Risorto non è detto per mantenere la distanza, quasi fosse un nuovo insuperabile limite all’amore, invalicabile confine tra il cielo e la pozzanghera, tra noi e Lui risorto. Si può forse trattenere la luce al sorgere dell’alba?
Ma neppure è possibile afferrala e trattenerla con le mani, coi piedi, nemmeno con gli occhi; ed è così pure con la neve: vi ci cammini dentro, ti viene incontro, ti sfugge tra le dita se l’afferri, e tuttavia puoi danzare in essa silenziosamente rapito, in essa annunciare lungo la notte la sua fedeltà: ritorna sempre la luce e al mattino cantare il suo amore che ti abita, ti circonda ti abbraccia.
Nonostante tutto andiamo a tentoni e la cerchiamo nelle nostre oscurità e disperazioni; non è lontana da noi, nella luce viviamo, ci muoviamo e siamo: ecco allora «che anche il dire no sarebbe luce».
Esita il fiocco per il cielo azzurro
Ancora, l’ultimo fiocco della grande neve.
E così entrerebbe nel giardino colei che
Aveva ben dovuto sognare ciò che potrebbe essere,
Quello sguardo, quel dio semplice, senza ricordo
Del sepolcro, senz’altro pensiero che la gioia,
Senza futuro
Se non il suo vanificarsi nell’azzurro del mondo.
«No, non toccarmi», le direbbe,
Ma anche il dire no sarebbe luce.
(Noli me tangere, ivi, 193)
Una nevicata di bende
La Risurrezione, una nevicata di bende, le fasce e i legami della morte, che il risorto, innalzandosi abbandona lievemente sul sepolcro vuoto imbiancandolo tutto con la leggerezza e il candore della neve.
È così mi ritorna questo pensiero ogni volta che guardo la tela del Risorto nell’aula battesimale della chiesa di santa Francesca Romana, opera pittorica del maestro Paolo Baratella.
Era il 2013 e al maestro Baratella avevo chiesto di esprimere con una sua opera il movimento battesimale di discesa ed ascesa nel e dal fonte battesimale, lo stesso movimento di Cristo nella morte e nella risurrezione.
Nella grande tela di Ludovico Carracci in Santa Francesca, nella prima cappella entrando a destra, è infatti raffigurata la crocifissione, la cui irresistibile luce già scende sui Patriarchi Adamo, Abramo, Isacco, su Mosè fino a Davide e ai profeti che attendono nello Sheol la discesa del Cristo che verrà a liberarli.
La discesa di Gesù nella morte, agli inferi, preconizza così il primo movimento del battesimo: “sepolti con Cristo nella sua morte”.
Si desiderava poi che nell’aula battesimale, a cui si accede proprio dalla cappella laterale del Carracci, scendendo un gradino, figurasse il secondo movimento battesimale, quello dell’ascesa, liberazione dalla morte e risalita per “camminare in una vita nuova” (Rm 6,4).
La tela di Baratella doveva esprimere la presenza del risorto, il suo volto radioso, le sue vesti candide come la neve e il suo corpo trasfigurato, proprio lui, il Cristo e “la potenza della sua risurrezione” (Fil 3,10). In questo il maestro Baratella si ispirò all’affresco di scuola giottesca del monastero delle Benedettine di S. Antonio in Polesine e avendo presente le icone bizantine della risurrezione e della discesa agli inferi.
Ma proprio in quella Pasqua, nella cui veglia inaugurammo il dipinto, mi scrisse una nostra anziana parrocchiana, Maria Letizia Meccia, una poesia. Lo fece da una di quelle periferie doloranti delle nostre case di riposo, ispirandosi proprio alla risurrezione:
Allungavi le ossute braccia
verso un sì tardo venire
gocce di sangue,
gocce di sudore lungo le strade di nostro Signore
– Aprirò la finestra a una nevicata di bende,
mio Signore, mio Gesù.
Non sarà mai tolta la bellezza
divina dal tuo volto.
Nella tela del Risorto di Baratella si vede proprio la candida e svolazzante neve della veste del Cristo, si vedono pure le nostre mani nelle mani protese dei patriarchi e quelle del Cristo che le afferrano: mani che si distendono e si protendono invocanti intimità di vita, perché la fede è intimità, abissale “affectus” di vita; così l’affetto che passa dalle sue mani alle nostre, “admirabile commercium”, generativo di comunione degli affetti:
come fiocchi che subito
Si moltiplicano, si avvicinano, si annodano
– E rivedo allora tutto l’altro cielo,
Entro per un istante nella grande neve.
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Andrea Zerbini
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