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Ferrara film corto festival

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La cura del futuro

«È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Così scriveva il filosofo Mark Fisher, rendendo palese una contraddizione fondamentale che attraversa il tempo presente. L’economia capitalistica è senza dubbio il “sistema” che domina il nostro pianeta e la nostra società umana e contemporaneamente, mentre produce una massa imponente di beni effimeri destinati a diventare rifiuti e una concentrazione di ricchezza finanziaria per élite, sta consumando rapidamente il futuro di tutte e tutti. Che in gioco ci sia il futuro, nel senso più profondo del termine, è sotto gli occhi di tutti.

La guerra sembra ormai divenuta lo strumento privilegiato della riorganizzazione dei rapporti di forza geopolitici a livello planetario, e quanto sta succedendo sia in Ucraina, sia in Medio Oriente rischia di rendere reale la possibilità di un terzo conflitto mondiale. La crisi eco-climatica ha ormai raggiunto livelli ben oltre la soglia di guardia, e mentre investe quotidianamente l’esistenza di tutte le persone, rischia a breve di rendere inabitabile il pianeta per sempre più estese fasce di popolazione. La disuguaglianza sociale sta toccando dimensioni sinora mai conosciute e, smascherando la narrazione del capitalismo come “migliore dei mondi possibili”, sta di fatto polarizzando le esistenze delle persone nella divisione in vite degne e vite da scarto. La democrazia, resa orpello formale dei grandi interessi finanziari, non solo viene espropriata, ma rischia addirittura di smettere di essere desiderabile per le fasce più svantaggiate della popolazione.

Nonostante queste evidenze, l’idea che il modello capitalistico sia una costruzione storica e non una dimensione metafisica dell’esistenza umana fatica a trovare spazio e, dentro le culture dominanti, in maniera trasversale agli schieramenti politici, resta preponderante la convinzione che l’insieme di queste crisi non abbia alcuna pregnanza “sistemica”, ma che, al contrario, saranno ancora una volta il mercato e le innovazioni tecnologiche (questa volta “green” e “digital”) a rimettere il mondo sui giusti binari.

«Non è possibile risolvere i problemi utilizzando lo stesso modello di pensiero che li ha creati» diceva Albert Einstein, chiarendo come il problema non sia solo rimettere il mondo sui giusti binari, ma porre radicalmente in discussione la direzione verso la quale quei binari portano.
Ciò che oggi sembra mancare non sono tanto le lotte, le vertenze, le pratiche che suggeriscano nuove modalità di organizzare le relazioni sociali, bensì la fiducia in un orizzonte di cambiamento generale, fuori e oltre la dimensione capitalistica. È come se il modello fosse una moderna versione dell’Idra dalle molte teste e che ogni lotta e conflitto ne affronti una, quella che più direttamente l’attacca, pensando tuttavia come impossibile colpirne il corpo, impedendone così la riproduzione.

È proprio su questo terreno che vanno invece avviate due rivoluzioni culturali.
La prima serve a rovesciare la “cosmogonia” della narrazione liberista, che considera l’economia come l’universo dentro il quale tutto accade, la società come un luogo unicamente deputato all’estrazione di valore, la natura come serbatoio esterno da cui estrarre beni all’infinito. L’inversione di rotta deve al contrario affermare come la natura sia l’universo dentro il quale tutto accade, la società sia il luogo dove le persone decidono come organizzare la vita comune e l’economia torni ad essere semplicemente il luogo dentro il quale la società determina come produrre e scambiarsi beni e servizi.
La seconda rivoluzione culturale serve a rovesciare l’ideologia liberista dell’autonomia dell’individuo. Una narrazione che esalta l’indipendenza e che favoleggia dell’uomo artefice del proprio destino e dell’uomo ‘che non deve chiedere mai’. Uomo non a caso, verrebbe da dire. Perché la vita reale non è fatta di indipendenza, bensì di relazione«Un infante senza una madre non sopravvive» scriveva lo psicanalista inglese Donald Winnicott, segnalando come, sin dalla nascita, la nostra sopravvivenza sia possibile solo ed esclusivamente dentro una relazione di cura. Allargando questo orizzonte, potremmo dire che neppure la diade infante-madre potrebbe sopravvivere senza una natura che fornisca loro acqua e nutrimento.

È dunque il paradigma della cura – di sé, dell’altra, dell’altro, del vivente, del pianeta – quello su cui può essere riorganizzata una società capace di futuro e radicalmente alternativa a quella attuale, basata sul paradigma del profitto. Si tratta di ripensare un altro modello ecologico, sociale e relazionale a partire dal prendersi cura di come riconoscimento della vulnerabilità dell’esistenza e dell’interdipendenza fra le persone e fra queste e la natura dentro la quale sono immerse. E si tratta del prendersi cura con come nuovo fondamento della relazione sociale e base di una nuova democrazia.

Forse è proprio il paradigma della cura così inteso a poter diventare l’elemento di convergenza di tutte le culture ed esperienze altre: sia perché rappresenta ciò di cui c’è assoluto bisogno in un momento storico in cui è a rischio l’esistenza della vita umana sulla Terra, sia perché intorno a quel paradigma è possibile costruire una nuova società, che sia ecosocialista e femminista invece che capitalista e patriarcale; equa, inclusiva e solidale invece che predatoria, escludente e diseguale.

Approfondiremo queste riflessioni nella sessione estiva dell’Università di Attac Italia, che si terrà a Cecina Mare (Li) il 13-15 settembre prossimi (https://attac-italia.org/universita-estiva-di-attac-2024-la-cura-del-futuro/).

 

Questo articolo è già apparso con altro titolo su Volere la luna  il  12 agosto 2024

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Marco Bersani

Marco Bersani, laureato in filosofia, è dirigente comunale dei servizi sociali e consulente psicopedagogico per cooperative sociali. Socio fondatore e coordinatore nazionale di Attac Italia, è stato fra i promotori del Forum italiano dei movimenti per l’acqua e della campagna “Stop Ttip Italia”.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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