La risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 17 dicembre rappresenta un interessante passo avanti, ne puoi spiegare gli aspetti positivi?
Intanto, il numero dei voti a favore continua di biennio in biennio ad aumentare: quest’anno è arrivato a 130. In secondo luogo, ma in conseguenza del primo, alcuni stati cambiano da un biennio a un altro posizione: da contrari ad astenuti o, ancora meglio, da astenuti a favorevoli. Gli stati che votano contro, e ancor di più quelli che continuano a usare la pena di morte, sono sempre più una ridotta minoranza.
Il problema resta cosa fare nei due anni che passano tra una risoluzione all’altra: rischiamo di avere una retorica abolizionista globale senza una politica abolizionista globale. Dovrebbero esserci azioni concrete, nei 24 mesi in questione, azioni concrete per salvare vite umane o condanne con effetti concreti per le esecuzioni che hanno luogo.
Mentre la prospettiva che uccidere una persona sia una soluzione perde via via peso stanno aumentando le cosiddette “esecuzioni extragiudiziali” su cui Amnesty fa una campagna e un monitoraggio da tempo, ci puoi illustrare la situazione?
Mi viene in mente il commento che feci, tra me e me, quando la Guinea Equatoriale abolì alcuni anni fa la pena capitale: non ne ha più bisogno, ricorre ad altri metodi che danno meno nell’occhio, in quel caso le detenzioni in isolamento senza contatti col mondo esterno. C’è poi, giustamente, il tema della “giustizia fai da te”, ovvero gli omicidi mirati che si verificano soprattutto in situazioni di tensione o di conflitto. Un esempio clamoroso è quello dell’uccisione, da parte di Israele, di due (se non di tutti e tre) i leader politico-militari di Hamas di cui la Corte penale internazionale aveva chiesto – per poi averne uno, nel caso di quello forse ancora vivo ma è evidente che li avrebbe avuti tutti e tre – e ottenuto l’emissione di un mandato d’arresto. Si sfrutta, in questo caso, l’incomprensione del fatto che gli omicidi mirati sono essi stessi delle violazioni dei diritti umani.
Più in generale come vedi il discredito che convenzioni e istituzioni internazionali stanno subendo negli ultimi anni?
L’efficacia del sistema internazionale di protezione dei diritti umani – che comprende sia gli accordi di diritto internazionale che gli organi di giustizia internazionale – dipende dalla volontà degli stati di collaborare. Sempre più spesso, purtroppo, vediamo in azione i doppi standard: quelli per cui l’invocazione della violazione di un trattato internazionale viene sollevata nei confronti di uno stato “nemico” e taciuta se lo stato è “amico”; quelli per cui distinguiamo le persone richiedenti asilo da accogliere in dignità e diritti da quelle che respingiamo; quelli per cui la giustizia internazionale va elogiata se emette un mandato di cattura verso il leader del campo avverso e va dileggiata se lo fa verso un amico.
Tu pensi che una riforma in senso democratico dell’ONU (come suggeriscono gli obiettivi della Terza Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza) possa essere un passo verso la soluzione dei conflitti internazionali e del miglioramento dei Diritti Umani?
Questa riforma è più che mai necessaria, anche per dare voce e spazio al cosiddetto Sud globale. In particolare, il Consiglio di sicurezza è composto, per quanto riguarda i membri permanenti, dagli stati vincitori della Seconda Guerra Mondiale o dai loro eredi. Quattro quinti di loro, che dovrebbero assicurare la pace e la sicurezza a livello mondiale, sono intervenuti con le armi nel conflitto siriano nello scorso decennio.
Da anni, Amnesty International chiede che in caso di crisi umanitarie e dei diritti umani non sia consentito usare, da parte dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza, il potere di veto. Forse non c’è esempio più forte e peggiore di doppi standard dell’uso contrapposto del potere di veto: degli Usa per proteggere Israele, della Russia per proteggere la Siria di Assad.
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