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Il San Paolo di Pasolini: Qui e Ora

Articolo pubblicato il 25 Febbraio 2025, Scritto da Giuseppe Ferrara

Tempo di lettura: 6 minuti


Il San Paolo di Pasolini: Qui e Ora

Partiamo dalla fine: l’arrivo a New York dell’apostolo Paolo così come viene descritto da Pier Paolo Pasolini nell’ultima parte del suo abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo (P.P. Pasolini, San Paolo, Einaudi, Torino, 1977):

Apparizione di New York per mare. Il transatlantico dove è imbarcato Paolo – accompagnato dalle guardie – attracca alla banchina del porto e Paolo scende. Ad attenderlo sulla banchina è una delegazione di Giudei domiciliati a Roma: le strette di mano tra Paolo e loro non sono solo cortesi, ma anche commosse e fraterne. Poi il gruppo si perde tra l’immensa folla del porto”.

Ci si sposta dunque a Manhattan, nel West Side, posto apocalittico e poverissimo. A questo punto, nella sceneggiatura, Pasolini scrive:

Ma con particolare amore la macchina da presa inquadrerà proprio l’alberghetto in cui è alloggiato Paolo: che ha una curiosa e commovente somiglianza con l’alberghetto dove è stato ucciso Martin Luther King. Un poliziotto americano (nero) cammina tranquillo e dolce su e giù per il ballatoio del secondo piano, su cui si affaccia la porta che dà all’appartamento di Paolo”.

La sceneggiatura poi continua con la descrizione, in successione, del discorso di Paolo davanti ai Giudei (praticamente la Lettera agli Ebrei), della deposizione davanti al tribunale, del ritorno a Roma e ancora dell’ultimo viaggio a New York dove Paolo prende alloggio in un altro alberghetto che “… assomiglia straordinariamente a quello della prima volta; solo che stavolta è assolutamente identico a quello dove è stato assassinato Martin Luther King”.

Qui, nello stesso luogo ed alla stessa maniera di Martin Luther King, il Paolo di Pasolini verrà ucciso.

Così si conclude la sceneggiatura di quel film (mai girato) che nell’intenzione dell’autore avrebbe dovuto completare il percorso iniziato con Il Vangelo secondo Matteo (1964) ma che, soprattutto, avrebbe dovuto rappresentare il clima storico-politico degli anni ‘70 del Novecento, nel quale maturarono le riflessioni, le visioni e le… profezie di Pasolini costantemente attraversate da una certa idea di “sacro”.

Per effetto della sua identificazione con l’apostolo Paolo, nella sceneggiatura sembra aleggiare una tragica premonizione. Pasolini, credendo che fosse finalmente giunto il momento della realizzazione del film, nel 1974, riprese e modificò la sceneggiatura iniziale. L’anno dopo, come si sa, verrà ucciso in circostanze simili a una scena descritta minuziosamente proprio nell’abbozzo di sceneggiatura.

L’intera vicenda di Paolo viene trasposta ai nostri giorni per costringere lo spettatore, dice Pasolini, a pensare che “…San Paolo è qui, oggi, tra noi e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia”.

È per questo che le capitali del mondo antico, centri indiscussi di potere, cultura e ricchezza, vengono sostituite con le odierne capitali. L’antica Gerusalemme, ad esempio, inizialmente identificata con la Parigi negli anni della Seconda Guerra Mondiale, nella revisione del 1974 viene sostituita con Roma e pertanto il Vaticano diventa il palazzo del Gran Sacerdote di Gerusalemme.

Il film si sarebbe dovuto strutturare in quattro momenti importanti della vita del protagonista: la morte di Stefano, cioè del primo martire cristiano, avvenuta proprio per opera di Paolo; la conversione sulla via di Damasco e, per finire, la predicazione e il martirio.

Pasolini con questo film intendeva raccontare l’evangelizzazione dell’apostolo dei Gentili nel modo più fedele possibile, cioè utilizzando proprio le sue parole calate nella contemporaneità. L’Italia di quegli anni era caratterizzata da un conformismo incarnato in due ben precisi aspetti; il primo religioso ipocrita e convenzionale e il secondo laico liberale e materialista: qui l’analogia con i Giudei e i Gentili dell’epoca dell’apostolo è del tutto evidente.

E dunque non poteva essere certo Roma, la capitale del colonialismo e dell’imperialismo moderno, ma appunto New York con Washington, la cui società replicava gli stessi elementi che diedero potenza alla capitale dell’Impero Romano (e per inciso  questo è ancora più vero oggi con la “restaurazione imperiale” a cui stiamo assistendo, dove la spartizione del mondo è sempre e solo un affare di poche potenze).

Proprio per evidenziare l’attualità di questi problemi, Pasolini lascia parlare i suoi personaggi con un linguaggio tipico della sua contemporaneità (che è lo stesso, praticamente anche oggi seppure più diffuso, capillarmente e velocemente, attraverso i social). Così le domande che gli evangelizzatori pongono all’apostolo o le critiche degli intellettuali borghesi  sono del seguente tenore:

C’è qualcosa che non va dentro di lui: qualcosa di orribile. Ammazzava lui stesso i prigionieri, quand’era nazista. Cose così non si cancellano più da una vita, ne sono una componente. E, infatti continua a essere fanatico. Il suo moralismo è atroce…”

Le parole di San Paolo sono al contrario esclusivamente religiose, formulate cioè con quello stesso linguaggio universale giunto fino a noi attraverso le sue Lettere. Grazie a questo espediente Pasolini era sicuro di far risaltare la profonda tematica del film e cioè la contrapposizione fra attualità e santità , cioè tra “…il mondo della storia, che tende, nel suo eccesso di presenza e di urgenza, a sfuggire quel mistero…”, il sacro, limitandosi a relegarlo nell’astrattezza e nel puro interrogativo, e “… il mondo del divino che, nella sua religiosa astrattezza, al contrario…” opera concretamente.

Proprio in una scena del San Paolo, come si è detto, Pasolini sembra presagire la sua fine: l’invenzione poetica pare precedere la realtà; la letteratura anticipare con eventi simbolici, ciò che accadrà realmente.

Nella scena San Paolo tiene un discorso nella periferia di Roma; intorno a lui si assiepano gli ascoltatori che sono usciti “…da quei caseggiati incolori, scrostati e immensi che dentellano l’orizzonte. Qui c’è un ciglio di erba tisica; un ponte; un immondezzaio; uno sterro desolato…”. Mentre l’apostolo parla un gruppo di teppisti lo assale e assistiamo a un “…pestaggio freddo e macabro, da cui è dissociato ogni sentimento umano”.

La descrizione è vivida: il suo corpo resta inerte a terra con “… il volto ricoperto di sangue e polvere…”, scrive Pasolini, “…insopportabile alla vista e irriconoscibile”. Pasolini è morto così.

Ancora oggi quelle e queste parole risuonano forti; le parole di un poeta che ripete amplificandole (se fosse possibile) le parole di un apostolo.

Ma quanti ancora sentono le parole e quanti davvero le ascoltano le parole come quelle di Paolo VI che convinsero Pasolini, in quegli anni ’70 del Novecento, ad abbozzare la sceneggiatura per un film sull’apostolo Paolo?

In un’intervista del 1974 sui motivi della realizzazione del film Pasolini infatti risponde così:

Lo faccio… proprio perché il Papa Paolo ha fatto un discorso di contrizione terribile […] Dice chiaramente che ormai la società non ha più bisogno della Chiesa , la società provvede da se stessa ai suoi bisogni; e quindi dove interviene la Chiesa? Quali sono gli interventi che la Chiesa può fare in favore di qualcuno? […] La conclusione, poi, è misera: cioè, come ovviare a tutto questo? Pregando. E va bene, ma chi prega se la situazione si è messa in modo tale che nessuno prega più?

Allora quello che mi fa rabbia è questo: ora che il potere… la esclude con tanto cinismo dopo essersi appoggiato su di lei per un secolo… la Chiesa dovrebbe cambiare radicalmente politica e passare decisamente all’opposizione…perché l’opposizione al nuovo potere non può che essere anche di carattere religioso… Una “sacra” opposizione, nonostantela mancanza di senso di sacro dei miei contemporanei”.

Ed è ancora tutto qui e ora il rovello di Pasolini tra attualità e santità ben racchiuso in queste taglienti e, ancora una volta, profetiche parole di uno degli apostoli durante la predicazione di Paolo a Parigi:

il nostro è un movimento organizzato… Partito. Chiesa…”- chiamatelo come volete – “Si sono stabilite delle istituzioni anche fra noi, che contro le istituzioni abbiamo lottato e lottiamo. L’opposizione è un limbo. Ma in questo limbo già si prefigurano le norme che faranno della nostra opposizione una forza che prende il potere: e come tale [dovrebbe] essere un bene di tutti. Dobbiamo difendere questo futuro bene di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali.

Accettando di tacere su cose che si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, o di fare cose che non si dovrebbero fare. Non dire, accennare, alludere. Essere furbi. Essere ipocriti. Fingere di non vedere le vecchie abitudini che risorgono in noi e nei nostri seguaci – il vecchio ineliminabile uomo, meschino, mediocre, rassegnato al meno peggio, bisognoso di affermazioni e di convinzioni rassicuranti. Perché noi non siamo una redenzione, ma una promessa di redenzione…”.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/

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Giuseppe Ferrara

Giuseppe Ferrara – Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”: https://thestrawberrypost.blogspot.com/

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PAESE REALE
di Piermaria Romani